Dal Mito della purezza alla rivendicazione della contaminazione
Indice
Tenere il piede in due staffe. Il rischio del calco e il tranello dei falsi amici
Se tenere il piede in due staffe è rischioso, tenerlo in tre è ancor più pericoloso
Falsi amici francesi e falsi amici antillani
Strane coppie: le false ridondanze
Il tranello della totale omonimia
Falsi amici antillani travestiti da inglesi
Premessa
I concetti di francofonia e di letteratura francofona sono assai ampi e generici. In questa categoria rientrano autori diversi tra loro come Simenon, Beckett, Kundera, Roumain, Césaire, Cheng o Tahar Ben Jelloun.
Forse uno degli aspetti che accomunano molti testi francofoni del Novecento – ma non solo quelli e non tutti - è l’idea di molteplicità: molteplicità di generi, molteplicità culturale e molteplicità linguistica.
Tra le opere francofone che ho tradotto, quelle che rispondono meglio a questo criterio sono i romanzi di Maryse Condé, un’autrice afroantillana, discendente da antenati bambara, nata in Guadalupa, un’isola che geograficamente appartiene alle Americhe, ma che dal punto di vista giuridico è europea e francese. A soli sedici anni, la futura scrittrice lascia il Dipartimento d’Oltremare e si trasferisce a Parigi, nella Métropole – la madrepatria - per proseguire gli studi che la portano a insegnare alla Sorbona. In seguito, per motivi personali o professionali, sceglie di vivere in diversi paesi africani – Guinea, Ghana, Senegal -, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Guadalupa.
Ora, se - come dice Italo Calvino nelle Lezioni americane - ciascuno di noi è «una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni» e ogni «vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili» (CALVINO 1993: 134-135), è facile intuire che i testi di Maryse Condé non possono che sottendere e restituire una visione del mondo plurima, ricca e sfaccettata.
Di questa autrice ho tradotto tre romanzi: il primo, una saga in due tomi, è ambientato essenzialmente in Africa (Segù 1, Le muraglie di Terra, 1988 e Segù 2, La terra in briciole, 1994), il secondo in Guadalupa (La traversata della mangrovia, 2002) e il terzo ad Haiti (Sogni amari, 2006). Ognuno racchiude elementi linguistici e culturali - letterari, storici e di civiltà spicciola - estranei alla mia formazione di francesista. Ognuno mi ha iniziato a un universo che mi era praticamente ignoto e ha comportato un notevole lavoro di ricerca. Tuttavia il più impegnativo e stimolante è senza dubbio la Traversée de la Mangrove (1989).
Come ho detto nella prefazione della versione italiana (CONDÉ 2002), quest’opera si configura come una summa di romanzi. Grazie alla cornice della veglia funebre, diciannove personaggi ricordano Francis Sancher, uno straniero morto in circostanze misteriose, e riflettono sulla propria vita. La polifonia delle voci non crea un’immagine univoca, ma una serie di testimonianze imbricate che in parte smentiscono o addirittura contraddicono quelle precedenti, distruggendo ogni certezza. Ne risulta un intreccio inestricabile di rimandi, di echi tematici e testuali, che va restituito nella traduzione e che trova nel folto groviglio vegetale della mangrovia una sorta di correlativo oggettivo.
L’aspetto più interessante dal punto di vista del traduttore consiste, però, nel fatto che a questa rappresentazione caleidoscopica del mondo corrisponde una scrittura altrettanto complessa e variegata. In questo romanzo confluiscono e vengono rielaborati in modo personale elementi compositi e plurimi: dal francese di Francia con i suoi livelli e registri - parlato, popolare, letterario - alla sua variante regionale antillana, fino al creolo. Gli scarti presenti rispetto al francese esagonale1 mi hanno indotta a fare scelte apparentemente opposte a quelle che di norma si compiono. Se per riprodurre lo stesso effetto dell’originale ci si sforza di eliminare calchi e interferenze con la lingua di arrivo, in questo caso mi sono ritrovata, invece, a introdurli volutamente. Per me tradurre i testi di Maryse Condé ha implicato passare dal mito della purezza alla rivendicazione della molteplicità e della contaminazione.
Tenere il piede in due staffe. Il rischio del calco e il tranello dei falsi amici
Con un’immagine, potrei dire che tradurre i libri di quest’autrice è stato un po’ come tenere il piede in varie staffe. Non è impresa da poco, considerato che già tenerlo in due non è affatto agevole.
A riprova di quest’ultima affermazione e a dispetto del diffuso cliché secondo il quale il francese è una lingua trasparente per gli italiani, basti pensare alle difficoltà che incontrano gli studenti universitari quando vengono confrontati con la version. Se i loro esercizi sono in genere costellati di strafalcioni imbarazzanti, anche le traduzioni pubblicate, fra cui le mie, ça va sans dire, sono ben lungi dall’essere perfette. Del resto, chiunque abbia praticato questo lavoro cimentandosi con testi lunghi sa per esperienza che dagli abbagli difficilmente ci si salva.
Nondimeno non si può che sorridere o sobbalzare di fronte all’ingenuità di certi calchi o di certi errori grossolani. Le versioni italiane di alcune opere francesi, che si acquistano in libreria, contengono, infatti, contresens e non-sens tali da far arrossire un principiante. Emblematico è il caso di un romanzo, destinato ai ragazzi, che racconta la storia di un adolescente parigino il quale suscita le ire della madre perché non vuole imparare l’inglese, diversamente da tutti i suoi coetanei. Un’analessi spiega le ragioni profonde e patetiche del suo disinteresse per le lingue straniere:
Bilingue, […] [lui] lo era già: francese-argot, argot-francese, il brano da tradurre e la sua versione. Per quanto riguarda l’inglese, si trattava di un’eredità del padre.
- È la lingua di Panama, mio piccolo amico!
Succede però che i padri muoiano2.
Per il lettore italiano è impossibile raccapezzarsi. Il lessema argot non è certo immediatamente comprensibile; il sintagma «il brano da tradurre e la sua versione» appare alquanto enigmatico; il riferimento a Panama, poi, risulta decisamente fuorviante. Che cosa c’entra Panama? – si sarà chiesto il povero lettore sconsolato – magari dopo aver verificato che in quel paese dell’America Latina si parla spagnolo, lingua ufficiale, quechua, lingua degli amerindi, e pure inglese. Impotente, incapace di sciogliere il mistero, forse si sarà rassegnato a concludere che in quelle righe l’autore intendeva semplicemente restituire il delirio di un moribondo. E certo avrà pensato che la sua ipotesi venisse avvalorata dalla ultime tre parole della stessa frase. Come dargli torto? Quando mai, in effetti, si è sentito un padre sano di mente rivolgersi al proprio figlio usando il lezioso vocativo «mio piccolo amico»? Bisogna ammettere che, basandosi solo sul testo d’arrivo, non c’è altra spiegazione plausibile: il poveruomo, ormai in punto di morte, stava farneticando.
Eppure, per chi conosce il francese, il passo acquista subito ben altro significato e risulta intelligibile anche in assenza dell’originale. Allertati dalla parola argot, è facile intuire che nel testo di partenza non figurava Panama, bensì Paname, sinonimo popolare di Parigi, termine che ricorre fra l’altro in tante canzoni dedicate alla Ville Lumière e che è usato anche come titolo da un giornale gratuito, distribuito in ogni angolo della capitale. Appare allora chiaro il motivo per cui il ragazzo, disdegnando gli idiomi stranieri, in omaggio al padre che tanto amava la lingua di Paname, dalla ricchezza incomparabile, si limita a praticare una forma particolare di bilinguismo: francese-argot, argot-francese. Più ardua da decifrare resta l’espressione «il brano da tradurre e la sua versione», di cui - credo – si possa evincere appieno il senso solo leggendo l’opera dans le texte:
Bilingue, […][il] l’était déjà : français-argot, argot-français, thème et version. L’anglais, c’était un héritage de son père.
- La langue de Paname, mon p’tit pote !
Mais il arrive que les pères meurent.
Risulta stupefacente che né il traduttore né il revisore siano stati sfiorati dal minimo dubbio, a dispetto del cotesto che avrebbe messo in guardia anche chi non è del mestiere. Poche pagine dopo, i professionisti in questione prendono un altro bel granchio. Nella versione italiana, il protagonista del romanzo, dopo aver perso una scommessa con la madre, per onorare il patto, è costretto a iniziare uno scambio epistolare con un’inglese. Ecco un assaggio della sua prima lettera in L2:
Dolce Cathy, cara rosbif, ho una grande ambizione: essere l’unico al mondo a non parlare una sola parola d’inglese! Allora, mi dirai tu, perché mi scrivi? È colpa di mia madre. Una sfida che avevo fatto con lei. Mi sono fatto ingannare. Sono obbligato a rispettare il contratto. E poi le mie faccende di famiglia non ti riguardano, pensa alle tue cipolle, tu.
La missiva parzialmente riprodotta comporta diverse scelte discutibili, una delle quali balza subito all’occhio. In questo caso il significato del messaggio non viene compromesso, tuttavia l’esclamazione «pensa alle tue cipolle» non può che suonare buffa all’orecchio di un italiano, il quale presumerà forse di trovarsi davanti a uno dei tanti giochi linguistici dell’autore. Per contro un francesista riconosce, altrettanto divertito, il calco di un’espressione che inedita certo non è. Nell’originale si trova, come prevedibile, occupe-toi de tes oignons, idiomatismo banale, il cui valore metaforico è stato logorato. Nel suo equivalente nostrano, la catacresi botanica resta, ma la verdura cambia: le cipolle francesi, trapiantate in Italia, si trasformano magicamente in cavoli. Nonostante la metamorfosi, «fatti i cavoli» o «i cavolacci tuoi» è il corrispettivo perfetto – anche se iperbolico - del segmento fisso d’oltralpe, di cui conserva il colore, l’allusione sessuale, il valore eufemistico.
Lo ripeto, non c’è traduzione senza svarione. Però, quando si passa da un idioma all’altro, chi effettua il trasloco dovrebbe quanto meno preoccuparsi di capire che cosa sta trasportando. Se il contenuto della scatola è criptico o bizzarro, l’approfondimento è d’uopo. Nei brani sopraccitati la versione italiana comporta due errori dovuti a una scarsa conoscenza del francese. Nel caso di occupe-toi de tes oignons, la svista è determinata dal mancato riconoscimento di un’espressione fissa. In quello di Paname, l’interpretazione errata è favorita dalla natura argotica del lessema, dalla sua affinità sonora con «Panama» e dall’interiorizzazione di un modello (basato su item come Rome = Roma, Pise = Pisa, Vienne = Vienna, ecc.), esteso abusivamente.
Per evitare di se fourrer le doigt dans l’œil jusqu’au coude, di confondere norma e scarto e di cadere nelle trappole dei falsi amici - che si rivelano particolarmente insidiosi se gli idiomi hanno una matrice comune - sarebbe bastato consultare i dizionari.
Se tenere il piede in due staffe è rischioso, tenerlo in tre è ancor più pericoloso
Il lavoro di ricerca, che dovrebbe sempre precedere una traduzione, diventa arduo, capillare,imprescindibile, quando ci si cimenta con opere che sfruttano il plurilinguismo, come quelle di Maryse Condé.
La comprensione delle sfumature di un testo è la conditio sine qua non di una resa fedele. Va da sé che si può trasferire solo ciò che si capisce e che, se non si colgono le peculiarità dell’originale, è impossibile riprodurle.
Quando le lingue e le culture si moltiplicano, il lavoro ovviamente si complica. Usando un’altra immagine, potrei dire che si è costretti a stare contemporaneamente au four, au moulin et à la boulangerie, sans être boulanger en plus! Per tradurre nel migliore dei modi la Traversée de la Mangrove sarebbe stato, insomma, necessario padroneggiare appieno non solo il francese di Francia, con i suoi registri e livelli, ma anche quello della Guadalupa e il creolo, che sono ingredienti essenziali del romanzo.
Non credo che esistano traduttori italiani che possiedano simili competenze. Comunque, io certo non avevo una formazione specialistica adeguata, quando ho deciso di tradurre questo libro. Conscia di aver indossato per mia scelta i panni spudorati della dilettante allo sbaraglio, ho cercato di colmare le mie lacune à coups de dictionnaires et d’encyclopédies.
Eppure, di questo enorme lavoro ben poco traspare nella versione italiana, che puzza di traduzione lontano un miglio3, costellata com’è di quelle stesse “bizzarrie” che sono ritenute un chiaro indizio di ignoranza, inettitudine e scarsa padronanza linguistica.
Nella fattispecie, però, le anomalie non sono frutto di sviste, sono calchi voluti. Paradossalmente, una fase preparatoria mastodontica non ha portato - come accade in genere - a evitare le interferenze, ma a scegliere proprio la contaminazione. Una traduzione fedele, d’altronde, deve provocare effetti simili a quelli prodotti dal testo da cui muove: in questo caso i calchi servono per l’appunto a riprodurre calchi d’autore.
Ricerca e rivendicazione della contaminazione. Questi sono i due aspetti cruciali che hanno contraddistinto la mia esperienza nella traduzione dei romanzi di Maryse Condé. Quanto al resto, il trapianto in italiano delle opere di questa autrice comporta le stesse difficoltà che si incontrano trasferendo quelle di qualsiasi grande scrittore esagonale: giochi sonori, semantici, sintattici, manipolazione di idiomatismi e così via.
Anche se il plurilinguismo della Traversée de la Mangrove non si limita a quest’unico fenomeno, circoscriverò la mia analisi ai calchi4 che, con la loro apparenza falsamente familiare, mi hanno causato i maggiori problemi a livello lessicale, perché la loro presenza poteva nascondersi dietro qualsiasi significante francese. Per tradurre questo libro ho dovuto attraversare una selva di falsi amici esagonali, creoli, caraibici. Mi soffermerò pertanto su questo argomento, che userò a mo’ di sineddoche per evocare la complessità dell’intero lavoro.
Falsi amici francesi e falsi amici antillani
L’espressione «falsi amici» indica parole o locuzioni di una lingua straniera che presentano analogie sonore - e talvolta grafiche - con la lingua materna del locutore, affinità tali da indurlo facilmente in errore. Prendiamo, ad esempio, cadre, corniche, cornichon. Chi non conosce il francese sarà portato a credere che i tre equivalenti siano «quadro», «cornice», «cornicione». Invece molto spesso cadre significa «cornice», corniche «cornicione» e cornichon «cetriolino». Il gioco potrebbe continuare - basti pensare che i cornichons non sono verdure, ma légumes, poiché il corrispondente italiano di verdure è «verde» o «verzura», mentre quello di légume è«verdura» - se non all’infinito, senz’altro ben oltre la nausea e la noia. Questi esempi, tuttavia, mi paiono sufficienti a dimostrare che la parentela linguistica, anziché semplificare i rapporti, spesso si rivela insidiosa.
Una parola dal significante ignoto impone l’uso del vocabolario, un termine dal suono familiare – come Paname - crea, invece, l’illusione della comprensione e trae in inganno. Per questo chi parte da un idioma che ha la stessa matrice del proprio rischia di incorrere in errori grossolani. Deve, quindi, rimanere doppiamente vigile, perché le liaisons fra le lingue sono spesso liaisons dangereuses e a volte i parenti possono essere veri serpenti!
Nella Traversée de la mangrove, non mancano certo gli inevitabili faux amis, terrore dei francesisti italiani e mio personale incubo. Alcuni peraltro sono così subdoli che conservano intatta la loro perfidia pur inseriti nel contesto, come avviene nel brano in cui i fratelli di Vilma, incaricati di recuperare la salma di Francis Sancher, trovano il cadavere dello straniero riverso nell’erba. Girando il corpo, i giovani vengono assaliti da un terribile fetore e scoprono che non ci sono tracce di sangue. A quel punto leggiamo nel testo che «Les six hommes se regardèrent estomaqués» (p.17). Nonostante le somiglianze e le circostanze, il participio passato estomaqués non significa «stomacati», bensì «sorpresi», come è facile appurare consultando un dizionario. Il Grand Robert ne dà, per esempio, la seguente definizione: «Très étonné, surpris. - Ahuri, épaté. Il est encore tout estomaqué d'avoir réussi aussi facilement».
Nel romanzo che ci interessa, le analogie insidiose non riguardano solo l’italiano, ma anche il francese. L’opera è infatti costellata di parole che, pur assumendo le parvenze di termini esagonali, hanno un significato diverso da quello della lingua standard, un significato creolo o caraibico. È un po’ come se un lettore italiano incappasse nell’espressione «odore di freschino», un calco che in Veneto ricorre anche nella parlata di persone provviste di una cultura media. Chi non conosce il dialetto di questa regione avrà indubbiamente difficoltà a decifrare il senso del sintagma. Un qualsiasi vocabolario italiano spiegherebbe che «freschino» è diminutivo di «fresco», e quindi lo strano abbinamento, malgrado la presenza della preposizione «di», rischierebbe di essere catalogato come sinestesia.
Per un veneto, invece, il significato della locuzione è ben diverso. «Freschino» rappresenta un ipercorrettismo: si tratta dell’italianizzazione del lessema dialettale «freschin» che designa un puzzo senza equivalenti, senza nome in italiano, quello del pesce, dell’acqua che ristagna, delle uova marce.La Traversée de la Mangrove è disseminata di vocaboli di questo genere: il primo che si incontra, un idiomatismo, coincide addirittura con l’incipit stesso del romanzo.
I falsi amici antillani possono apparire sotto varie sembianze e potrebbero essere suddivisi nelle seguenti categorie: falsamente ridondanti, totalmente omonimi, travestiti da inglesi e doppiamente perfidi.
Passerò ora in rassegna le diverse tipologie fornendo alcuni campioni esemplificativi. Visto che il calco viene reso in italiano con una traduzione letterale, la mia relazione verterà sul lavoro di documentazione e sulle riflessioni che sottende questa scelta. Mi soffermerò solo di tanto in tanto sulla traduzione. Come per la metafora, infatti, ciò che conta è l’interpretazione che evita di appiattire il testo, mentre la resa, di per sé, è in genere semplice, banale.
Strane coppie: le false ridondanze
In tutto il romanzo ricorrono coppie di parole, alcune basate sulla ripetizione dello stesso lessema, altre sulla giustapposizione di termini sinonimici. Ama Mazama, che prende in considerazione solo l’iterazione dello stesso vocabolo, cataloga questi fenomeni come calchi morfologici e precisa che «la réduplication [est] un procédé très fréquent en guadeloupéen», dove riveste un ruolo essenzialmente intensificativo (MAZAMA 1997: 73). La studiosa cita tre esempi – noire noire, vite vite e longtemps longtemps (MAZAMA 1997: 73) - che non mi paiono costituire, però, un vero e proprio scarto rispetto al francese esagonale. Come si legge nel Bon Usage (GREVISSE 1986 : 1451), il redoublement è, infatti, uno dei modi in cui si forma il superlativo assoluto, anche se certo – aggiungerei - non il più usato in Francia5.
Più interessanti mi sembrano i binomi costituiti da voci sinonimiche o apparentemente sinonimiche. La giustapposizione di termini dotati dello stesso significato risulta insolita per un lettore abituato alla lingua esagonale. In Guadalupa, la ridondanza non viene percepita in modo altrettanto netto o perché si tratta di pleonasmi consacrati dall’uso (come accade nel francese standard per prévoir à l’avance e sûr et certain) oppure perché molte di queste espressioni formano delle locuzioni, cioè dei segmenti fissi che corrispondono a un’unica parola, o infine perché uno dei lessemi è un calco dal creolo.
Ma vediamo subito tre coppie, prese a titolo esemplificativo - natif-natal, femme mariée e Négresse noire. Prima di esaminarle brevemente segnalo che solo uno di questi tre binomi è registrato nei dizionari francesi che ho consultato – GR, TLF, GL6 - mentre il loro uso nell’isola caraibica è attestato da diverse fonti.
Il primo è riferito a un pugile, un certo «Doudou Sugar Robinson qui se disait Américain de Washington DC, mais qu’on savait natif-natal du Moule» (pp. 35-36). Il sintagma natif-natal è falsamente ridondante perché forma un segmento fisso, assolutamente prevedibile, nella parlata guadalupeana. Ama Mazama inserisce, infatti, questi due aggettivi giustapposti fra le espressioni creole che Maryse Condé introduce nella sua opera (MAZAMA 1997: 74) e un’ulteriore conferma in questo senso ci viene anche dal Créole Gadeloupéen (TELCHID, POULLET 2004 : 76). Un antillano non troverebbe, quindi, quest’espressione originale. Per lui sarebbe anomala quanto né natif per un popolano marsigliese (GR) o «nato e cresciuto» per un italiano7.
Il secondo sintagma, femme mariée, è l’unico fra i tre elencati ammesso dal francese standard esagonale. Eppure questo abbinamento non può che suonare strano alla maggior parte dei lettori, non appena viene inserito in un brano della Traversée de la Mangrove. Il binomio compare in almeno due passi del romanzo. Prima nel monologo di Sonson, quando l’anziana veggente ricorda di aver cercato di convincere Francis Sancher a sposare Mira e di avergli chiesto di fronte alle sue obiezioni: «Est-ce que vous voulez dire que vous avez une femme mariée dans votre pays ? » (p. 94). E poi nel monologo di Rosa, nella parte in cui la donna ripensa a ciò che ha sentito raccontare sui prodigi della veggente: «C’est grâce à elle que Wilfrid est resté avec sa femme mariée alors que son cœur était déjà parti à Saint-Sauveur avec Rose Aimée» (173). La conoscenza della lingua esagonale non ci è di grande aiuto. Inutile sapere che la parola femme, polisemica, rimanda essenzialmente a due vocaboli italiani, «donna» e «moglie», o che il sintagma femme mariée, inserito nei vocabolari, corrisponde a «donna sposata». Visto il contesto, l’ipotetica traduzione «Vuole dire che ha una donna sposata nel suo paese?» non è certo proponibile. D’altro canto, il sintagma non equivale a «moglie», perché quando femme è usato nel senso di épouse nel francese di Francia non è accompagnato dall’aggettivo mariée,che risulterebbe tautologico, come in italiano «moglie sposata». L’espressione non suscita, invece, alcuna perplessità negli antillani. La presenza dell’aggettivo mariée è in realtà un calco dal creolo (MAZAMA 1997: 72) e il binomio è corrente nel francese della Guadalupa, dove la locuzione femme mariée è sinonimica di madame mariée e coincide con épouse (TOURNEUX, VARBOTIN 1990: 253). Si tratta quindi di una ripetizione apparente, falsamente pleonastica. Forse il raddoppio, finalizzato a eliminare ogni dubbio, si è imposto perché in queste isole caraibiche le forme di poligamia sono ancora molto diffuse e i figli illegittimi sono numerosissimi. Il sintagma sottenderebbe dunque uno specifico contenuto di civiltà.
La terza coppia di lessemi, Négresse noire, non solo sembra tautologica, ma anche razzista. In realtà, prima ancora che Césaire parlasse di négritude e fondasse un movimento destinato a esaltare le origini africane e l’appartenenza a una "razza" a lungo denigrata e disprezzata, la parola Nègre fu accettata e rivendicata dagli autori della Guadalupa e della Martinica (CONDÉ 1978: 57-59). Nelle Antille francesi, come ad Haiti, questo vocabolo – derivato dal latino attraverso la mediazione dello spagnolo - non comporta peraltro alcuna connotazione negativa, anzi, è sinonimo di «tipo», «individuo», «amico» ed è quindi usato per designare qualsiasi essere umano, anche bianco (COSTANTINI 2002: 98-99; FRATTA 2003: 17-19; TELCHID, POULLET 2004: 6, 162). Lo stesso avviene, del resto, per i lessemi formati a partire dalla stessa radice, come négrillon, «negretto», e il suo equivalente creolo négiyon (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 286) che possono sostituire la parola enfant nella parlata locale. Pertanto il sostantivo che compare nel sintagma è privo di valenze dispregiative e l’aggettivo noir non è affatto ridondante.
Il binomio compare, accanto a un altro calco, nel monologo di Xantippe, in un brano che è un inno a Gracieuse, la donna amata, arsa viva in un incendio il giorno di Natale. Ecco come inizia il racconto: «Dans le temps d’autrefois, j’ai vécu avec Gracieuse. Gracieuse. Négresse noire. Canne Kongo juteuse. Malavois à écorce brodée» (p. 256). È chiaro che, in questo passo, in cui un innamorato celebra la bellezza della propria compagna perduta, dal nome di per sé significativo, è poco verosimile che le parole contengano sfumature peggiorative. Xantippe, il discendente di nèg mawon, gli schiavi ribelli che fuggivano sulle montagne per riconquistare la libertà, usa certo Négresse nell’accezione creola, antillana di «donna nera». Eppure la traduzione recita: «Una volta vivevo con Gracieuse. La mia negra nera. Gracieuse… La mia succosa canna kongo. La mia preziosa malavois» (p. 190). Perché? Per motivi fonetici - i termini paronomastici «negra nera» creano un’assonanza con Gracieuse, restituendo i giochi sonori del brano francese - ma soprattutto culturali. «Donna nera» tradirebbe, infatti, il testo di partenza banalizzandolo.
Ho riprodotto il calco in italiano, introducendo una nota nel glossario, ogni volta che ho ritenuto che il calco presente nell’originale condensasse valori che non dovevano essere aboliti. Xantippe rivendica il significato del termine creolo in opposizione a quello corrente che è svilente e peggiorativo. In questo caso era dunque importantissimo mantenere lo scarto: eliminarlo avrebbe significato eliminare la rivendicazione, evidente soprattutto nel temine kongo, su cui mi riservo di tornare in una sezione successiva.
Il tranello della totale omonimia
Gli omonimi sono parole identiche dal punto di vista fonetico e nel nostro caso anche grafico, dotate, però, di significati diversi. Nella Traversée de la Mangrove, a un significante francese non sempre fa pendant un significato esagonale. Sotto l’involucro si può celare, infatti, un nocciolo creolo o caraibico. Tra i falsi amici antillani che incontriamo leggendo il romanzo, quelli che appartengono a questo gruppo sono i più numerosi e per questo dedicherò loro maggiore spazio.
In una prospettiva diacronica, sarebbe a volte più corretto parlare di polisemia più che di omonimia perché, come avverte Costantini (2002: 104-105), il significato di certe voci caraibiche può corrispondere ad accezioni che esistevano in francese, ma che sono poi cadute in disuso nella lingua standard esagonale. È del resto inevitabile che, in situazioni di lontananza geografica o politica, un idioma evolva in modo autonomo. In Guadalupa o in Canada, per esempio, il lessema cabaret continua ad essere usato col significato di «vassoio»8 (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 173, REBOULLET, TÉTU 1977: 12), mentre nel francese standard esagonale è stato sostituito dal termine plateau.
Ad ogni modo, a prescindere dall’origine, questi falsi amici si rivelano infidi per chi non conosca le varianti regionali o creole. In simili casi solo il cotesto o le conoscenze specifiche possono mettere in guardia il traduttore o il lettore esagonale. Vediamo, a titolo indicativo, alcuni campioni nel dettaglio.
Carême
Il lessema câreme, che nel francese standard significa «Quaresima», assume un altro significato in certi passi della Traversée de la Mangrove. Nel romanzo, il vocabolo appare per la prima volta in un brano che spiega i motivi per cui Moïse si sentiva infelice e frustrato prima di conoscere Francis Sancher: «parce que les femmes lui barraient l’entrée de leur cœur et de leur couche, que les hommes se moquaient de lui et qu’au fil des années ses rêves avaient séché comme pié-bwa en Carême» (p. 30).
Nello spezzone sopraccitato, il comparante non è immediatamente intelligibile per la maggior parte dei destinatari francesi e francofoni, benché il termine pié-bwa, che significa «albero» in creolo, venga spiegato dalla scrittrice in una nota. Il sostantivo Carême, infatti, risulta sibillino per chi non sappia che nel francese antillano questa voce designa la stagione secca, in opposizione a hivernage, la stagione delle piogge. Certo, decriptare il senso della figura retorica è comunque possibile: basta svolgere una serie di piccole operazioni logiche, forse le stesse che hanno determinato lo slittamento semantico del vocabolo ai Caraibi. Considerato che la Quaresima è un periodo caratterizzato dal digiuno e che per la flora digiunare equivale a essere privata d’acqua, si dedurrà che la Quaresima delle piante coincide con un periodo di siccità, in cui presumibilmente la vegetazione è meno rigogliosa. Questo giustifica, fra l’altro, l’uso del verbo sécher che si riferisce sintatticamente a rêves, ma semanticamente a pié-bwa.
Resta il fatto che il termine câreme sarà interpretato in senso metaforico da buona parte del pubblico, in senso antillano da una ristretta minoranza, benché l’accezione caraibica sia registrata in alcuni dizionari in più tomi, quali il GR e il GL9.
Gommier
Il sostantivo gommier indica un unico referente nel francese di Francia. Tuttavia nella Traversée de la Mangrove a questa voce corrispondono più significati. A titolo esemplificativo, trascrivo di seguito due passi :
Traditionnellement les gens de Rivière au Sel étaient des travailleurs du bois. Dans le temps, certains partaient à l’assaut des géants de la forêt dense. Ils vous couchaient et vous débitaient des acomats-boucan, des bois-rada ou des gommiers blancs en un tournemain (p. 38).
Je voudrais bien qu’elle vienne pour moi aussi la mort, et qu’elle couvre mes deux yeux rouges d’avoir tant veillé la souffrance et le deuil d’une épaisse couverture de velours noir. Mon corps est fatigué de tanguer et de rouler comme un gommier sur la haute mer.
Mes os craquent (p. 95).
Nel primo brano, che descrive il lavoro tradizionale degli abitanti di Rivière au Sel, accanto a due termini botanci riportati in creolo, compare gommier, vocabolo che appartiene per contro al francese esagonale e che designa l’«albero gommifero», come si può facilmente verificare sfogliando un qualsiasi dizionario bilingue. Nella traduzione, però, questa parola è stata resa con il sintagma «albero della gomma» (p. 28) che si armonizzava meglio col tessuto linguistico del romanzo grazie al suono più familiare e meno tecnico.
Nel secondo campione, tratto dal monologo interiore di Man Sonson, lo stesso lessema nasconde invece, sotto la foggia francese, un significato caraibico. Consultando un vocabolario creolo, si scopre infatti che la voce gonmyé ha due accezioni: la prima rimanda all’albero, l’altra definisce un tipo di imbarcazione « construite sur le modèle des pirogues caraïbes, le fond creusé dans un tronc d’arbre (“gommier” ou autre), les flancs montés avec des planches» (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 153). Visto il cotesto e l’affinità semantica che caratterizza gli elementi della frase - tanguer, rouler, haute mer - è assai verosimile che il comparante sia una sorta di piroga, per cui gommier è stato interpretato non come pianta, ma come barca. Nella traduzione (p. 96) ho usato la grafia creola, inserendo una nota nel glossario. In questo brano ho eliminato per contro un calco morfologico, che di norma ho mantenuto. Si tratta del numerale deux che nella Traversée de la Mangrove precede spesso parole come genoux o yeux. Come avverte Chaudenson (1995: 43), in certe varietà creole il corrispondente dé viene, infatti, sistematicamente anteposto agli «objets qui vont par deux» e rappresenta «[une] des marques de la dualité».
Maison haute et basse
Maison haute et basse è un sintagma formato da parole francesi, potrebbe quindi sembrare una locuzione esagonale. Nel francese di Francia standard contemporaneo, però, non viene usato e dell’espressione non si trova traccia nel TLF, nel GR e nemmeno nel Larousse enciclopedico.
In questo campione, sempre tratto dalla Traversée de la Mangrove, Alexis, dopo la morte dei genitori, decide di vendere il patrimonio immobiliare che ha ereditato: «C’est sans difficulté qu’il avait trouvé acquéreur pour leur maison haute et basse de Petit Bourg» (32).
Se ci soffermiamo a riflettere sullo strano segmento, come spesso accade, riusciamo ad afferrarne il senso. Possiamo supporre che una maison che è contemporaneamente haute et basse sia una costruzione formata da due case sovrapposte: quella bassa costituirà il pianterreno, quella alta, il piano superiore. Per trovare una conferma al significato della coppia di antonimi, intuitivamente comprensibile, bisogna comunque aprire ancora una volta un dizionario creolo (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 187), dove si appura che kaz-hotéba significa maison à étage, quindi «casa a due piani».
Habitation
Anche il vocabolo habitation ci riserva qualche sorpresa quando è usato ai Caraibi, dove assume significati specifici non contemplati dai dizionari francesi.
Il lessema figura per esempio in questo passo che descrive Gabriel Lameaulnes:
Il avait d’ailleurs de qui tenir. Le premier Lameaulnes, Diudonné Désiré, qui avait une Habitation-Sucrerie dans la région du Marin en Martinique, prenait la tête de ses esclaves pour cible et y logeait les balles de son fusil, se tordant de rire devant leur dernier rictus (p. 131).
Il binomio Habitation-Sucrerie risulta bizzarro se si ignora che alle Antille questo termine può designare sia la casa coloniale – in contrapposizione con le cases à nègre dove vivevano gli schiavi - come fa Maryse Condé nella Civilisation du Bossale (1978: 30), sia «l’unité de production agricole» e «[non] pas le lieu de résidence » dei coloni, come afferma Chaudenson (1995: 40).
Il traduttore si trova quindi a passare al vaglio diverse alternative più o meno sensate: la coppia di parole potrebbe riferirsi 1) a una casa coloniale adibita in parte a zuccherificio; 2) a uno zuccherificio trasformato in casa coloniale; 3) a una piantagione provvista di zuccherificio. Le prime due ipotesi sono senz'altro strampalate, la terza è l'unica plausibile. Per cui nella mia traduzione - «Del resto, buon sangue non mente! Dieudonné Désiré, il primo Lameaulnes proprietario di un’Abitazione-Zuccherificio nella zona di Marin in Martinica, usava la testa dei suoi schiavi come bersaglio e, quando li colpiva con una fucilata, si contorceva dalle risa guardando la loro ultima smorfia» (p. 96) - ho riprodotto il calco e inserito una nota in cui spiego che «abitazione» non indica una casa, ma un’unità di produzione agricola.
Coq
Nel francese esagonale, coq comporta molteplici accezioni, nessuna delle quali coincide, però, appieno con quella usata nella Traversée de la Mangrove. Il lessema figura nel passo in cui Aristide, dopo aver appreso che Moïse concupisce e tenta di insidiare Mira, la sua sorellastra, minaccia il pretendente «de tordre le cou à son coq avant de le rosser à grand coups» (p. 73). Date le circostanze, non è difficile immaginare quale sia il referente di coq, sapendo che il gallo simboleggia la virilità e la potenza maschile e che questo termine serve anche a distinguere in francese i gallinacei maschi dalle femmine, come in coq faisan o in coq de perdrix (GR).La supposizione viene confermata dal dizionario creolo che ci spiega che in Guadalupa kok è sinonimo di pénis e verge (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 195).
Tuttavia questa interpretazione sembra contraddetta dalla presenza della locuzione tordre le cou, «tirare il collo» che si riferisce in modo logico, pertinente, a un pennuto, più che all’organo sessuale maschile. La scelta inconsueta ci costringe a chiederci se il gallo che si propone di strozzare Aristide non sia dopotutto un semplice animale. L’ipotesi è meno assurda di quanto appaia di primo acchito: ai Caraibi i kok gym – i galli da combattimento – sono popolarissimi. Non è quindi inverosimile che qualcuno minacci di uccidere il gallo del nemico per rappresaglia. Nel romanzo, però, non si accenna mai alla passione di Moïse per questo genere di combattimenti. Inoltre, in tutta la Traversée de la Mangrove, l’autrice si diverte a giocare con i cliché, operando nello stesso brano bruschi passaggi dal significato proprio delle parole a quello figurato e viceversa. Sono quindi convinta che coq sia un calco dal creolo. L’inserimento del sintagma tordre le cou, come avviene in casi analoghi, costringe il lettore a riflettere sull’origine dell’immagine, ridotta a catacresi. In tal modo la metonimia viene rivitalizzata e spinta al limite della forclusione.
Bois du Nord e qualche divagazione sulla flora
Il sintagma bois du Nord ricorre con una certa frequenza nel romanzo in questione e figura per esempio in un brano consacrato a Rodrigue Ramsaran. Quest’uomo è un indiano arricchito che suscita invidia e stizza nei suoi compaesani, quando si fa costruire, al posto della casupola «en bois du Nord où il avait ouvert les yeux, une villa » (p. 20). La locuzione non è registrata né dal GR né dal TLF, mentre il GL riporta la seguente definizione: «sciage d’épicéa (bois blanc) et de pin sylvestre (bois rouge) importé des pays nordiques». Continuando la ricerca e andando alla voce sciage, apprendiamo che, per un processo metonimico, il termine indica nel linguaggio tecnico «du bois de sciage» e che sciage fin designa «des planches minces utilisées en ébénisterie». Ciò nonostante, l’espressione perde ogni ambiguità e diventa immediatamente decifrabile solo dopo aver sfogliato un vocabolario creolo. Il sintagma bois du Nord risulta, infatti, essere un calco di bwa-d’nò, locuzione che in Guadalupa designa il legno delle conifere, l’abete, il pino di importazione (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 71).
In tutto il romanzo del resto la traduzione dei termini botanici ha comportato grosse difficoltà. Moltissimi di questi vocaboli sono in creolo francesizzato. Per capire quale fosse il referente è stato necessario consultare dizionari specifici, che a volte comportano fra loro notevoli fluttuazioni e che peraltro forniscono quasi sempre equivalenti in latino o comunque dalla patina troppo scientifica per poter essere utilizzabili in un’opera narrativa di questo genere. Spesso quindi le mie ricerche non hanno avuto alcun effetto pratico sulla traduzione, anche se in parte ne rendo conto brevemente nel glossario della versione italiana.
Non mi è servito a nulla scoprire, per esempio, che raisinier bord-de-mer (p. 102) equivale al creolo rézigné-bò-lanmé (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 349) e che corrisponde a «coccoloba uvifera», come confermano altri testi sulla flora antillana (HATZENBERGER 2001: 494). Né mi è stato utile appurare che il sintagma ricorreva in articoli di giornali o in guide sui Caraibi (BENDURE, FRIARY 1995: 123). Per non trasformare la Traversée de la Mangrove in un trattato sulla flora caraibica, ho spesso optato per prestiti – talvolta creolizzati – o calchi. D’altronde mi sembra ancor oggi che «Oltre i rézigné del lungo mare, vedevo i francesi col windsurf» funzioni meglio di «Oltre le coccolobe uvifere del lungo mare, vedevo i francesi col windsurf». Senza risultare più trasparente, l’alternativa scartata mi pare senz’altro più cacofonica.
Inoltre anche i nomi di piante o frutti che ci appaiono familiari, alle Antille possono rimandare a referenti completamente diversi da quelli esagonali. In Guadalupa, ad esempio, figue (o fig) non è un fico, bannann non è una banana, pomme rose non è una mela rosa e prune café non è una prugna color caffè. Figue indica, infatti, la banana che si mangia cruda, mentre bannann rinvia a «plantano», un frutto ricco di amido, appartenente alla stessa famiglia, che viene consumato dopo cottura, fritto o cotto alla griglia (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 131, 43; BENDURE, FRIARY 1995: 44). Pomme rose designa, invece, il frutto del syzygium jambo, albero appartenente alle mirtacee come il guaiava (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 324); e infine prune café equivale, secondo certi testi, al frutto di un arbusto conosciuto con il nome scientifico di bunchosia nitida (SASTRE, PORTECOP 1985: 78), secondo altri, alla bunchosia polystachia (HATZENBERGER 2001: 477). Il proliferare di questi omonimi caraibici è dovuto al fatto che i coloni applicarono per analogia i nomi della flora francese a quella antillana (CHAUDENSON 1995: 115).
Del resto nella Traversée de la Mangrove i calchi dal creolo sono frequentissimi. Ancora una volta gli esempi si potrebbero moltiplicare fino alla noia: racine (p. 169) non significa «radice» ma «tubero»; thé (p. 115) non vuol dire «tè» bensì «tisana»... Quest’elenco, insomma, non mira all’esaustività, ma vuole essere meramente esemplificativo.
Falsi amici antillani travestiti da inglesi
La presenza di voci inglesi nel francese o nel creolo antillano non è di per sé sorprendente, tanto più che dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, le isole caraibiche furono teatro di continui scontri fra le potenze europee e che la stessa Guadalupa fu invasa e occupata più volte dalle truppe britanniche nel Settecento e nell’Ottocento. Ad ogni modo, pur contribuendo a tendere tranelli e a rendere più ardua la comprensione del testo, i falsi amici dal significante "albionico", rappresentano una semplice curiosità e non sono certo numerosi. Basteranno quindi due esempi, man e tray, presumibilmente di matrice diversa10.
Il primo ricorre varie volte nel romanzo, sempre all’interno dello stesso sintagma - «Man Sonson» -, che funge peraltro anche da titolo di un capitolo. A dispetto dell’omografia e dell’affinità sonora, la parola Man non ha nulla a che vedere con l’inglese: deriva dal creolo manman, che a sua volta deriva dal francese maman. Si tratta, infatti, di un lessema caraibico che non si riferisce a un uomo, ma a una donna, nella fattispecie una veggente. In Guadalupa questo sostantivo viene spesso anteposto ai nomi propri femminili col significato di madame (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 258). È tipico del registro popolare premettere termini affettivi ai nomi propri: anche l’equivalente maschile, papa, viene usato per designare uomini adulti, a prescindere dai legami di parentela, sia in Africa, dove assume una connotazione rispettosa (GR), sia in Francia, dove implica una sfumatura di simpatia (TLF). Del resto la parola creola man ha un omonimo squisitamente esagonale, nato sempre dalla contrazione fonetica di maman, di cui riproduce la forma più degradata della pronuncia volgare (Guiraud 1965: 108).
Invece il sostantivo tray, che figura nel monologo di Xantippe (p. 256), oltre alla grafia, dovrebbe avere un’origine inglese. Eppure anche questo vocabolo è corrente alle Antille. Consultando un dizionario creolo, si scopre che alla voce plateau– equivalente esagonale di tray– corrispondono due lessemi: kabaré e tré. Quest’ultimo termine indica un vassoio particolare – grande, di metallo o di legno - «sur lequel on transporte ou sur lequel on expose des produits à vendre » (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 407). Il referente è ben noto a chi abbia visitato mercati o sfogliato guide turistiche della Guadalupa. Incuriosisce il fatto che tray sia asteriscato nell’originale: nel romanzo l’asterisco rinvia sempre a una nota, una nota che in questo caso non esiste. È probabile che l’autrice abbia introdotto una modifica all’ultimo momento, e che per una dimenticanza o non sia stata inserita la glossa o non sia stato soppresso l’asterisco. Forse Maryse Condé ha anglicizzato il sostantivo, come ha francesizzato tante parole antillane di origine esagonale, perché non esiste una grafia creola uniformata oppure per facilitare il lettore non caraibico o, infine, per evidenziare le radici multiple del creolo. Sta di fatto che mentre le voci antillane francesizzate si mimetizzano nel tessuto linguistico dell’opera, la grafia inglese attira l’attenzione sul lessema, sottolineandone l’estraneità. Comunque sia, malgrado l’apparenza, questo sostantivo non è inglese, ma caraibico: l’anglismo, rivestiti panni antillani, si è perfettamente integrato nella parlata locale, come «viadotto» o «contattare» in italiano.
Falsi amici doppiamente perfidi
In questa categoria colloco i lessemi che tendono un duplice tranello. Sono doppi falsi amici: possono trarre in inganno un italofono che non abbia grande dimestichezza con il francese esagonale, ma anche un lettore che padroneggi perfettamente il francese non antillano. Si tratta infatti di voci che, da un lato, presentano somiglianze sonore e divergenze semantiche – totali o parziali - con termini italiani e che, dall’altro, sono omonimiche di parole caraibiche: un unico significante assume significati diversi - o implica uso, frequenza e registro difformi - in Francia e in Guadalupa. Questi vocaboli doppiamente infidi ricorrono in tutte le opere di Maryse Condé che ho tradotto.
In Rêves amers troviamo, per esempio, il termine jardin (CONDÉ 2001: 8). Ora, nonostante le analogie, il senso del lessema non collima con «giardino», come si può appurare consultando il GR – che ne dà la seguente definizione: «Terrain, généralement clos, où l'on cultive des végétaux utiles ou d'agrément» - o qualsiasi monolingue. Del resto gli appassionati di Voltaire ricorderanno certo la frase che chiude Candide, diventata poi proverbiale - «Il faut cultiver notre jardin» - e sapranno pertanto che nei jardins si coltivano sia frutti sia fiori, che nel racconto simboleggiano ciò che è bello e ciò che è utile.
In un testo ambientato alle Antille, a volte accade che questo falso amico ne nasconda un altro. Se nel francese esagonale jardin designa spesso un «orto» e non un «giardino», nella variante guadalupeana può indicare addirittura una «piantagione» o un «campo coltivato» (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 473 e 164). Con quest’accezione, il lessema figura nel libro sopraccitato, dove «Les jardins à sucre [qui] succédaient aux jardins à indigo et à coton» non sono ovviamente «giardini» di canna da zucchero, indaco e cotone, bensì «campi».
Ma vediamo, a titolo indicativo, due esempi tratti dalla Traversée de la Mangrove - case e couche – accompagnati da brevi divagazioni su altri lessemi, dettate da associazioni sonore o semantiche.
Couche
Nonostante le assonanze, il vocabolo - che ricorre spesso nell’opera - non rimanda certo alla cuccia dei cani, com’è facile capire non appena il termine è inserito nel contesto11. Un chiaro esempio in tal senso ci viene offerto dal brano in cui Mira, ex amante di Francis Sancher, giunge in ritardo e inaspettatamente alla veglia funebre dello straniero. La gente si chiede con ansia come avrebbe reagito la giovane donna incontrando Vilma, la rivale che l’aveva soppiantata: «Comment, comment allait-elle se comporter devant celle qui s’était glissée dans la même couche qu’elle?» (p. 23). La “stranezza” della scelta lessicale mi ha indotta a sfogliare il solito dizionario creolo. Lì ho trovato che kouch è l’equivalente perfetto del francese lit nella parlata guadalupeana, dove non comporta alcuna connotazione (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 465, 173, 209).
A onor del vero, anche nel francese esagonale e in italiano le parole couche e «cuccia» possono designare un letto, ma solo in tono scherzoso o nel linguaggio poetico. Ad ogni modo, nella traduzione, dopo vari tentativi e ipotesi che non risultavano soddisfacenti e che non funzionavano nelle diverse occorrenze, mi sono rassegnata a eliminare lo scarto. «Cuccia», «talamo», «piume» o «alcova» stonavano e rappresentavano insopportabili forzature.
Case
Chiunque abbia qualche rudimento di francese sa che l’equivalente di «casa» è maison e non case, a dispetto della somiglianza fonetica. Se un lettore scrupoloso decidesse di aprire un dizionario sui falsi amici troverebbe ulteriori conferme in tal senso. Oretta Rossetti (1983: 58-59) gli dimostrerebbe che il corrispettivo di case è «capanna», segnalandogli che alla Capanna dello zio Tom fa pendant, al di là delle Alpi, La Case de l’oncle Tom. E Raul Boch (1988 : 33) ribadirebbe che, nonostante le due parole paiano andare a braccetto, case «è la parente povera della casa italiana, soprattutto da quando emigrata in Africa e in altre contrade terzomondiste, si è declassata a capanna».
Eppure le osservazioni dei due francesisti, giuste in un’ottica esagonale, possono risultare fuorvianti se vengono applicate a un’opera francofona. In effetti, nella Traversée de la Mangrove, il cotesto sembra spesso contraddire quanto emerso finora, come si evince da questo breve campione: «Dans toutes les cases, l’électricité brillait et les postes de radio beuglaient les Informations» (p. 15). La descrizione non si riferisce a un villaggio turistico, ma a un paesino della Guadalupa, e per questo chi conosce l’isola non può che stupirsi di fronte a un’improbabile successione di capanne dotate di luce e corrente elettrica, tanto più che l’architettura dei centri urbani non è certo caratterizzata dalla presenza di capanne, ma è essenzialmente formata da casette.
L’incongruenza non appare più tale dopo un lavoro di ricerca. Fra i dizionari consultati, solo quello creolo (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 186-187), il GR e il TLF forniscono informazioni illuminanti a riguardo, che riassumo di seguito.
Ai Caraibi, come in Africa, il termine case non comporta alcuna sfumatura negativa. Per influsso dello spagnolo può riferirsi a qualsiasi tipo di abitazione: una villa, un appartamento o una casa a più piani12. Del resto, a quanto afferma Costantini (ROUMAIN 1995: 105), nelle Antille francofone, con questo lessema veniva già chiamata perfino la dimora dei coloni. Risulta quindi chiaro che il significato della voce non coincide con quello, ben più ristretto, di capanna, benché in italiano - come specifica il Devoto Oli (1987) - questo vocabolo designi anche un riparo costruito «in muratura» e indichi per estensione un’«umile casetta» o un «tugurio»13.
Il corrispondente nostrano di case varierà quindi secondo il cotesto e potrà essere in certi casi «capanna» - termine che ho usato spesso nella versione italiana di Segù 1 e Segù 2, i due tomi della saga africana di Maryse Condé (1988, 1994), che narra le vicissitudini dei Traoré ai tempi del regno bambara; in altri «casupola», «casetta» o semplicemente «casa», come ho fatto traducendo due romanzi della stessa autrice (2002, 2006), ambientati in Guadalupa e ad Haiti verso la fine del Novecento;in altri ancora appartamento.
Seguendo il filo dell’affinità semantica, segnalo da ultimo che nella parlata caraibica l’equivalente di «capanna» non è cabane – che rinvia a un materasso o a un letto - bensì ajoupa, termine che compare in una nota della Traversée de la mangrove (p. 43). Nella glossa l’autrice traduce così la parola jupa (sic), presente in una canzone creola citata nel romanzo. Ma per capire che questo lessema di origine amerindia significa hutte è necessario ricorrere ancora una volta a dizionari in più tomi – il GR e il TLF – oppure a un vocabolario creolo (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 171) – dove la voce è registrata, però, con la grafia joupa – o infine ai preziosi commenti di Costantini, specialista di letteratura haitiana, che annovera questo vocabolo fra i regionalismi antillani «estranei un tempo come ora al francese standard» che costellano Gouverneurs de la rosée (2002: 117).
Falsi amici riuniti
Per comodità, sono state analizzate le singole tipologie in modo distinto. Ma i tranelli si trovano spesso riuniti in un unico passo, talvolta in qualche riga. Nella stessa pagina in cui figurano tray, il falso amico antillano travestito da inglese, e Négresse noire, binomio falsamente ridondante, si condensano, ad esempio, campioni appartenenti a quasi tutte le sezioni proposte.
Vediamone subito un piccolo estratto, che dovrebbe suggerire ancor meglio quale lavoro di ricerca sia sotteso alla traduzione della Traversée de la Mangrove:
Parfois […] je descendais dans les savanes parmi les cannes en fleur. Je donnais dos aux hauteurs et je poussais vers la mer, recherchant les côtes basses, vaseuses que ronge l’eau braque des culs-de-sac marins. Je n’aimais que le sable noir, noir comme ma peau […].
Dans le temps d’autrefois, j’ai vécu avec Gracieuse. Gracieuse. Négresse noire. Canne Kongo juteuse. Malavois à écorce brodée»14(p. 256).
Passerò in rassegna le parole evidenziate, soffermandomi poi su Kongo.
Canne
Questa voce viene usata in ciascuno dei due paragrafi sopraccitati, prima in senso proprio, poi come immagine. Per un italofono rappresenta un falso amico esagonale e ancor più caraibico. Il suo referente, infatti, non è la pianta acquatica delle paludi di cui parlano Pascal o La Fontaine – che in francese si chiama peraltro roseau – ma una pianta erbacea delle Graminacee. Nella fattispecie, con questo termine il protagonista del monologo si riferisce alla canna da zucchero, la canne à sucre, indicata anche col semplice lessema canne, soprattutto nel francese antillano (GR). Questa lettura è avvalorata dalla presenza di termini appartenenti allo stesso campo semantico, savane e soprattutto malavois, iponimo che designa un tipo di canna da zucchero particolarmente pregiato15.
Nella seconda occorrenza il sostantivo ha un valore traslato. Il metaforizzante apparentemente banale, che evoca il corpo slanciato della giovane donna, si carica in un contesto caraibico di valori storici e culturali specifici, tanto che ritengo possa assurgere a simbolo della creolità. Da un lato, infatti, la canna da zucchero è legata ai neri da un rapporto metonimico: rappresenta la causa della loro deportazione alle Antille, determinata appunto dal bisogno di manodopera nelle piantagioni. Dall’altro, è all’origine della cultura creola e del codice che ne è l’espressione, «né dans le système de plantation et devenu langue maternelle» degli abitanti del luogo (CONDÉ 1995: 306). Inoltre, questa pianta così importante in Guadalupa costituisce un elemento originale, estraneo alla cultura europea e a quella del continente nero, un elemento tipicamente caraibico, capace di modificare e rinnovare perfino gli indovinelli africani. Il che non è poco, se si considera che questa è l’unica forma di letteraratura orale che - per la sua brevità - fu trapiantata nelle isole senza variazioni dagli schiavi (CONDÉ 1978: 27-28).
Donner dos
Anche questo sintagma ricorre più volte nel romanzo. Si tratta, però, di un calco dal creolo, come afferma Ama Mazama (1997: 72) e come si evince consultando un dizionario guadalupeano (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 109, 46). In effetti, quest’espressione non è altro che la traduzione letterale della locuzione ba dos, il cui equivalente esagonale è touner le dos, che corrisponde all’italiano «girare le spalle».
Braque
Il termine, che ricorre due volte nel romanzo, ci offre un esempio di totale omonimia. Allo stesso significante corrispondono due significati: il primo, che è al contempo esagonale e caraibico, coincide con un peu fou, écervelé, toqué; il secondo, che è prettamente antillano, rimanda a saumâtre (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 68).
Il senso della parola nella sua prima occorrenza non comporta alcuna ambiguità. L’aggettivo si trova in un commento riferito a Mira, una splendida mulatta, di cui si dice che «Toute braque* et fantasque qu’elle était, elle était assez belle et avait la peau assez claire pour attirer les maris» (p. 72). Il contesto è sufficiente a orientare l’interpretazione verso la “follia” o meglio la stranezza, escludendo l’accezione guadalupeana. Tutto sarebbe semplice se il lessema non fosse corredato di una nota a piè di pagina, ingiustificata quanto enigmatica, che specifica che il significato di braque è per l’appunto folle.
Perché introdurre questa postilla? La precisazione si rivela inutile sia per i lettori caraibici, nonostante la polisemia del termine, sia per quelli francesi o francofoni, visto che la voce è riportata in tutti i dizionari monolingui e bilingui in mio possesso. L’ipotesi che la glossa fosse stata inserita nella pagina sbagliata, pur non del tutto convincente16, mi è sembrata la più plausibile, tanto più che nella seconda occorrenza sopraccitata (p. 256) un calco dal creolo apparirebbe ridondante: notoriamente l’acqua del mare è salata, salmastra, sa di sale. Se così fosse, nel brano tratto dal monologo di Xantippe, Maryse Condé avrebbe usato l’aggettivo esagonale in senso traslato: l’acqua del mare è un’acqua anomala, bizzarra proprio perché salmastra. Del resto l’accezione antillana potrebbe essere una catacresi, nata dallo stesso procedimento metaforico, rafforzato dall’influsso del lessema inglese brackish, di matrice olandese, che comporta un’evidente affinità sonora con braque.
Questo ragionamento – opinabile - ha condizionato le mie scelte nella resa italiana. Considerato che la mancanza di spiegazioni impedisce alla stragrande maggioranza del pubblico di interpretare l’aggettivo secondo l’accezione creola e considerato anche che l’informazione fornita da tale accezione sarebbe risultata superflua e priva di contenuti di civiltà importanti, non provo particolari rimorsi: mi conforta il fatto che scartando l’opzione alternativa non ho comunque provocato gravi perdite.
Certo, forse, je me suis fourré le doigt dans l’œil : ancora oggi non mi sento affatto di escludere che «l’acqua balzana dei vicoli ciechi marini» (p. 190) sia semplicemente l’acqua più o meno salmastra delle lagune, sulle cui sponde crescono le mangrovie, quella che in creolo viene per l’appunto definita dlo-brak - de l’eau braque – (TELCHID, POULLET 2004: 88). Ma allora come spiegare quell’improvvida nota che intorbida le acque? Una risposta ci sarebbe. È possibile che queste glosse siano state vissute dall’autrice come una corvée, cui ha dedicato l’energia e l’attenzione che meritavano, visto che andavano collocate in un’opera narrativa. In quel momento, quel che le interessava era probabilmente l’elaborazione di una scrittura creativa e personale – realizzata in modo mirabile – e non il carcan esplicativo. C’è un tempo per essere artista e c’è un tempo per essere saggista. Confondere le due anime rischia di condurre all’impasse.
Dans le temps d’autrefois
Questa locuzione non figura, invece, in nessuno dei dizionari che ho consultato. Rispetto al francese esagonale, risulta pleonastica poiché fonde elementi perfettamente sinonimici - dans le temps e autrefois - che corrispondono entrambi a «una volta». La sovrabbondanza è, comunque, riscontrabile negli equivalenti guadalupeani di queste parole registrati nel mio vocabolario creolo (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 387, 248). Il sintagma potrebbe essere dunque un binomio inventato dall’autrice, un ammiccamento alla parlata locale e alle locuzioni falsamente ridondanti esaminate in precedenza.
Kongo
L’aggettivo kongo17 costituisce un calco dal creolo e figura in uno spezzone già citato, quello in cui si trova anche la coppia falsamente pleonastica, formata dal sintagma Négresse noire.
Come abbiamo visto, il sostantivo Nègre e le sue forme flesse nella Traversée de la Mangrove sembrano razziste, ma non lo sono. Rispetto agli omonimi esagonali, le voci antillane suonano anzi come un atto di emancipazione, poiché Nègre da termine dispregiativo diventa, in creolo, sinonimo di essere umano, iperonimo di bianco. Il colonizzatore, lo schiavista, viene così risucchiato, fagocitato, cancellato in una prospettiva negro-centrica. Questa parola rivendicata dai neri rappresenta un primo passo verso il superamento del complesso di lattificazione, forma particolare del complesso di inferiorità, descritto da Fanon (1996: 75-93 e passim). Lo schiavo – considerato un animale o, nella migliore delle ipotesi, un subumano, anello di congiungimento fra uomini e scimmie – fu sottoposto a un condizionamento psicologico di una violenza inaudita. Imitare il bianco diventò per lui l’unico modo di vedersi riconosciuto come essere umano. L’immagine di sé che gli veniva imposta era talmente inaccettabile che per accettarsi fu costretto a negare ciò che lo contraddistingueva, rifiutando le proprie origini e la propria identità. Incapace di giudicarsi se non attraverso lo sguardo svilente del colonizzatore, il colonizzato finì con l’introiettarne i valori.
Ora, il lessema Kongo, riferito ugualmente a Gracieuse nello stesso brano, è un condensato di alienazione che pare invertire la rotta e smentire l’interpretazione di Négresse. Questo perlomeno è ciò che emerge dal mio lavoro di ricerca di cui rendo subito conto.
Nel francese esagonale il vocabolo che ci interessa designa semplicemente una persona originaria del Congo (GR e TLF) e per estensione un individuo proveniente dall’Africa nera (TLF). Quest’ultimo significato è diffuso anche alle Antille. In una sua nota ai Signori della rugiada (ROUMAIN 1995: 99), Costantini spiega infatti che, alla fine dell’epoca coloniale, la maggior parte degli schiavi haitiani era rappresentata dai Nègres Congo, precisando che questa parola riuniva popolazioni provenienti da un’area geografica assai più vasta di quella delimitata dall’attuale Congo.
In Guadalupa, se non altrove, la voce implica, però, alcuni sensi lessicalizzati, ovvero abbastanza diffusi da essere registrati, dotati tutti di una valenza dichiaratamente dispregiativa, che riflettono la visione etnocentrica dei colonizzatori. In quest’isola, il sintagma nèg-kongo (Nègre Congo) è oltraggioso ed equivale a «selvaggio» (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 286). Il termine comprende, inoltre, tratti semantici che non figurano nel GR, nel TLF o nel GL. I semi in questione sono quellidell’estrema scurezza (da cui discendono verosimilmente gli altri due), della grossolanità, e della bruttezza.
Il riferimento al colorito molto scuro e alla rozzezza è palese nella definizione del lessema, fornita dal mio dizionario creolo, che recita: «rustre, sauvage, personne au teint très noir» (TOURNEUX, BARBOTIN 1990: 201). L’allusione al colore nerissimo della pelle è altresì evidente nella locuzione riportata subito dopo, «nwè kon kongo», che è tradotta con «noir comme du cirage» e che pertanto corrisponde grosso modo all’italiano «nero come il carbone». L’espressione ha quindi lo stesso valore di un superlativo: kongo rimanda alla sfumatura più cupa del nero, al nero assoluto, al nero più nero. Non è difficile intuire quali connotazioni possano essere associate a questa parola in un’ottica razzista. Basta ricordare la struttura della piramide schiavista – coi bianchi al vertice, al centro i mulatti e in fondo i neri - per capire che più scura era la pelle, più aumentava la distanza dai canoni europei, più profonda era la discriminazione.
Il richiamo alla bruttezza, infine, è altrettanto lampante nell’idiomatismo «laid comme un Kongo», citato dalla stessa Maryse Condé nella Civilisation du Bossale (1978: 31). L’autrice, nelle vesti di saggista, inserisce questo segmento fisso fra i modi di dire tipici delle Antille che tradiscono la visione poco favorevole che gli schiavi avevano di sé.
Nonostante quanto riportato finora, il valore ingiurioso della voce è incompatibile con il cotesto. L’aggettivo che indica per antonomasia chi è rozzo e ripugnante risulta impertinente sia nei confronti del metaforizzante – la canna da zucchero, simbolo della creolità, la cui esile forma evoca piuttosto l’eleganza – sia soprattutto nei confronti del metaforizzato – Gracieuse, la donna dal nome di per sé eloquente, oggetto di un amore imperituro, capace di sconfiggere la morte.
Come mai allora Xantippe, il discendente degli schiavi ribelli, il negro che si proclama artefice della cultura creola, sceglie di usare proprio questo aggettivo nel suo inno a Gracieuse? Un aggettivo che sa di insulto e di complesso di lattificazione? Lo fa in modo sovversivo o comunque per rivendicare la sua autonomia di giudizio. Xantippe è marron nell’accezione più ampia del termine, quella che Maryse Condé attribuisce al vocabolo nella Civilisation du Bossale: «le marron est celui qui refuse les règles de la société coloniale comme ses ancêtres avaient refusé l’esclavage» (1978: 7). E rifiutare le regole della società coloniale non significa per l’appunto rifiutarne il punto di vista, liberarsi dei complessi di inferiorità imposti dai bianchi, valorizzare la propria cultura – la cultura creola plasmata dai neri - e soprattutto la propria individualità? L’evoluzione del significato di Nègre nel francese caraibico dimostra che è possibile affrancarsi dai condizionamenti psicologici e che nella lingua le connotazioni possono provocare slittamenti semantici, rovesciare il significato dei lessemi. Il giudizio sulla realtà è soggettivo, dipende dal punto di vista di chi la osserva e la interpreta, ed è variabile, suscettibile di mutamenti nel tempo e nello spazio18. Del resto, come spiega Costantini (ROUMAIN 1995: 99), ad Haiti i Nègre Congo venivano definiti in modo antitetico, descritti ora come miti ora come sfrontati, ora come buoni lavoratori ora come fannulloni. Non è da escludere che anche in Guadalupa il binomio possa essere usato in modo diverso rispetto a quanto attestato dal mio dizionario creolo. Comunque sia, quel che è certo è sulle labbra di Xantippe assume una connotazione positiva.
Una triplice conferma in tal senso ci viene offerta dalla natura del romanzo, dalla conoscenza della scrittrice e dell’analisi del cotesto.
In primo luogo, tutta la Traversée de la Mangrove è incentrata sulla moltiplicazione dei punti di vista. Ogni capitolo offre un’immagine del protagonista diversa e in parte contraddittoria. Le testimonianze non convergono in una visione unica e monolitica. Non tratteggiano un ritratto, ma costituiscono una galleria di ritratti. La verità si sbriciola, si sfrangia in tante verità soggettive che riflettono il vissuto dei singoli personaggi. In un testo del genere non stupisce che l’aggettivo kongo pronunciato da Xantippe assuma un senso del tutto personale, carico di valori emotivi e affettivi.
In secondo luogo, se relativismo, antidogmatismo, ironia sono parole chiave per capire l’opera di quest’autrice, i suoi libri - pur lucidi e disincantati - tradiscono il coinvolgimento viscerale di chi non si rassegna, di chi si ribella di fronte a ogni ingiustizia, di chi respinge ogni convenzionalismo ideologico e linguistico. In questo senso va letta la guerra che Maryse Condé dichiara agli stereotipi, formule e immagini consacrate dalla tradizione, di cui per abitudine vengono accettate perfino le più assurde incongruità. La donna che ha militato nel movimento indipendentista, la saggista che ha studiato la civiltà degli schiavi africani trasportati alle Antille, può benissimo rovesciare in questo brano un cliché svilente e sovvertirne il significato. Trasformando Kongo, che in Guadalupa è un condensato di pregiudizi razzisti, in un simbolo di bellezza ed eleganza, la scrittrice sfrutta le sue capacità creative e le potenzialità linguistiche per compiere un atto di giustizia.
L’accezione positiva dell’aggettivo appare, del resto, chiara se l’espressione viene contestualizzata. Rivediamo il frammento: «Dans le temps d’autrefois, j’ai vécu avec Gracieuse. Gracieuse. Négresse noire. Canne Kongo juteuse. Malavois à écorce brodée» (p. 256). Il paragrafo in cui è inserito il vocabolo ha un accento indubbiamente lirico ed è giocato tutto sulla ripetizione, procedimento fondamentale del linguaggio poetico, che riveste fra l’altro un ruolo importantissimo nella letteratura africana e antillana. Com’è noto, l’iterazione sonora e semantica pone elementi linguistici affini in rapporto di equivalenza o comunque li avvicina in un’unica isotopia.
Parallelismi semantici collegano i tre sintagmi - Négresse noire, Canne Kongo juteuse, Malavois à écorce brodée - che rinviano tutti a Gracieuse. In particolare, una relazione di inclusione unisce due coppie di parole: canne e malavois da un lato, noire e Kongodall’altro. In entrambi i casi il primo termine è iperonimo del secondo. Visto che i metaforizzanti rispecchiano una gerarchia di valori - l’iponimo malavois rappresenta una varietà più pregiata del superordinato - la correlazione fra le due coppie induce a pensare che anche i membri dell’altro binomio siano disposti secondo un ordine intensivo e che Kongo costituisca per Xantippe una varietà più attraente e desiderabile del generico noir. La coloritura connotativa ed espressiva riguarda, del resto, l’intero spezzone investendo anche il primo segmento. Il sintagma Négresse noire, che può corrispondere in francese caraibico a «donna nera», non solo non è razzista, ma non è nemmeno neutro agli occhi di un innamorato. Tanto più che qualche riga prima lo stesso Xantippe aveva affermato che dei litorali caraibici gli piaceva solo la sabbia nera, nera come la sua pelle19.
Parallelismi sonori stabiliscono, inoltre, equivalenze fra Gracieuse, Négresse Noire e Canne Kongo juteusegrazie all’allitterazione [gRas/gRes ] e alla rima in [øz]. Nella fattispecie questo gioco di correlazioni e connotazioni fa sì che Négresse e Kongo non rispecchino l’immagine disumanata (orribile parola) che il bianco aveva del colonizzato.
Anzi, la negra nera è canna Kongo succosa, è malavois preziosa e soprattutto è Gracieuse, «graziosa», dotata di grazia divina, nel senso etimologico del termine.
Come il significato caraibico di Nègre segna la liberazione dal miraggio bianco e l’esaltazione delle radici e della cultura degli avi, così il sintagma canne Kongo sancisce, insomma, il superamento del miraggio africano e l’accettazione della creolità, esempio di cultura meticcia, magmatica, in continuo divenire.
E la traduzione? Conclusione. Non si trasferisce la mangrovia. Ma una mangrovia
E la traduzione?
Come premesso, nella versione italiana del romanzo ho riprodotto prestiti e calchi presenti nell’originale, introducendo note a piè di pagina o nel glossario20. Non sempre, però. Ci sono delle eccezioni21. E in numero non trascurabile.
Perché?
Perché la traduzione è in parte un lavoro scientifico nella fase preparatoria, e in parte un lavoro artistico nella fase della resa. Trapiantare un testo come laTraversée de la Mangroveignifica contemperare una coorte di esigenze.
Il recupero del creolo e del francese caraibico effettuato dall’autrice è innanzi tutto un’operazione letteraria. Se talvolta voci ed espressioni antillane vengono impiegate per nominare in modo preciso un referente e per colmare una lacuna del francese esagonale, spesso rivestono un valore espressivo, affettivo, poetico, fonosimbolico. Il senso di un’opera si fonda anche sulla sua componente materica, sonora, ritmica. Nella pratica della traduzione, come in quella della scrittura, non si possono applicare regole preconfezionate. Condivido appieno le riflessioni di Valéry espresse nelle Variations sur les Bucoliques (1957: 207-218) e l’analisi acuta che ne fa Lombardo (1990: 33): la traduzione, come la scrittura, è costruzione; non è attuazione di conoscenze; non è riconducibile a modelli preesistenti: è frutto di «una competenza compositiva che si acquista nel momento stesso in cui la si esperisce» (1990: 33). La resa delle singole parole va sempre valutata caso per caso, è vincolata allo specifico contesto in cui un termine è inserito, prima, nel testo di partenza e, poi, in quello di arrivo.
Mi sono ritrovata quindi a sacrificare certi calchi dal creolo e dal francese antillano - quelli che comunque non racchiudevano valori culturali importanti - sull’altare di altre priorità. Ogni scelta è soggettiva, opinabile. Ogni scelta, però, è motivabile. Giustificarle ad una ad una mi porterebbe a stilare centinaia di pagine. Non avrebbe senso. Anche perché una traduzione deve giustificarsi da sé, nel suo complesso.
In un passo memorabile del romanzo di Maryse Condé, il lettore scopre che Francis Sancher, il protagonista, sta cercando invano di scrivere un libro, un libro che non è il trattato di un pedante mezzo matto, ma un libro vero con tutti gli ingredienti che lo contraddistinguono: sangue, risa, lacrime, paure, speranze. Lo straniero sa che non riuscirà mai a finirlo. Quando spiega a Vilma, la sua seconda amante, di averne già trovato il titolo, Traversée de la Mangrove (p. 202), la giovane donna gli conferma che l’impresa è votata al fallimento: «Non è possibile attraversare la mangrovia. Ti infilzi nelle radici aeree degli alberi. Sprofondi e soffochi nel fango salmastro» (p.150).
Eppure Maryse Condé l’ha attraversata. E ha scritto il romanzo che il suo personaggio aveva solo tratteggiato. E io ho amato a tal punto quest’opera, che non ho saputo resistere alla tentazione di compiere a mia volta la stessa traversata per riscriverne la mia variante. Prima di portare a termine questo viaggio è stato necessario sbrogliare un’inestricabile matassa, effettuare un enorme lavoro di ricerca, mediare, soppesare pro e contro, e soprattutto operare continue scelte. La traduzione italiana non è l’originale, ma una versione soggettiva, frutto della mia interpretazione.
Le moi est haïssable, mais - hélas ou heureusement – surtout dans la traduction des chefs-d’œuvre, il est incontournable
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Note
↑ 1In un articolo consacrato all’ibridazione, mi concedo a mia volta qualche calco. «Esagonale» ed «Esagono» sono usati in alternativa a «francese di Francia» e a «Francia», con l’accezione che hanno questi lessemi al di là delle Alpi.
↑ 2Non fornirò alcuna indicazione bibliografica perché il mio scopo non è quello di mettere il presunto colpevole alla berlina, ma di dimostrare appunto che tenere il piede in due staffe non è poi così semplice anche – e per certi versi soprattutto – quando le lingue sono dello stesso ceppo.
↑ 3Nella «Bustina di Minerva» (L’espresso, 4 ottobre 2007), per rifarsi a un esempio recente, Umberto Eco scrive che «Il traduttore dovrebbe fare il massimo per rendersi invisibile. È solo nei libri mal tradotti che si avverte come nella lingua d’arrivo si stabiliscano delle forzature se non delle inverosimiglianze».
↑ 4Nella fattispecie uso il termine calco quando a una parola corrente del francese esagonale viene aggiunto un senso che appartiene al creolo o al francese della Guadalupa, riproponendo l’accezione fornita dal Dizionario di linguistica, di cui cito questo esempio chiarificatore: «la parola realizzare, il cui significato è “rendere reale, effettivo”, ha assunto anche il significato di “comprendere esattamente” (Egli ha realizzato la situazione) per calco dell’inglese to realise» (1979: 43).
↑ 5 Il caso di noire noire mi sembra comunque diverso dagli altri due e merita che venga aperta una piccola parentesi. Come il bianco possiede tutta una gamma di sfumature lessicalizzate dagli eschimesi, così avviene per il nero alle Antille. Per esempio, Déodat Timodent, un personaggio del romanzo, è «un Nègre rouge» (p. 151). Allo stesso modo alla parola «mulatto» corrispondono molteplici equivalenti caraibici, che ricorrono nella Traversée de la Mangrove. Ogni lingua veicola una diversa visione della realtà, strettamente connessa alla cultura che esprime. La pluralità linguistica contrasta, nella fattispecie, con il cliché del colonizzatore, secondo cui i negri erano tutti uguali.
↑ 6 Le sigle rimandano rispettivamente al Grand Robert, al Trésor de la langue française e al Grand Larousse enciclopedico.
↑ 7 Mi sembra peraltro che Maryse Condé usi il sintagma proprio con questa accezione in Penser la créolité (CONDÉ 1995: 310), quando afferma che ormai lo scrittore caraibico non è più natif-natal – nato e cresciuto alle Antille – visto che parte della letteratura haitiana si scrive in America in inglese o in francese in Québec.
↑ 8 Senza dover attraversare oceani, vale forse la pena di ricordare che lo stesso vocabolo italianizzato, «cabarè», ha conosciuto una sorte analoga nel nostro paese, dove è ancora vivo, benché sia un po’ antiquato. Nell’Italia del Nord, infatti, può ancora capitare di sentire qualcuno chiedere un «cabarè di paste».
↑ 9 Del resto, nella Traversée de la Mangrove, il rischio di incomprensione non è limitato alle similitudini che attingono alla lingua o alla cultura caraibica o africana, ma può derivare da fenomeni di intertestualità esterna o più semplicemente dalla polisemia che caratterizza le opere letterarie. A volte, peraltro, la citazione resta enigmatica anche se si risale alla fonte. Quando ad esempio Joby, paragona la voce di Léocadie a quella della «chèvre de Monsieur Séguin» (p. 105), non sarà facile capire il senso dell’allusione, perché il racconto di Daudet non fornisce indicazioni precise al riguardo (DAUDET 1979: 27-34).
↑ 10La prudenza è d’obbligo perché non esistono dizionari etimologici creoli.
↑ 11 Anche lo spezzone citato a proposito di Carême, nella sezione degli omonimi, non lascia dubbi a riguardo. Per di più il corrispondente creolo di «a cuccia» - che figura due volte nel romanzo (p. 13 e p. 258) - è mache,parola di matrice esagonale, che comporta l’omissione della «r», assai frequente nei Caraibi francofoni. Per essere più precisi questa consonante, posta alla fine di una sillaba, viene spesso eliminata o si trasforma in «w» nella parlata antillana (REBOULLET, TÉTU 1977: 178) .
↑ 12Vedere al riguardo l’espressione maison haute et basse, che costituisce un calco dal creolo, di cui parlo nella sezione dedicata agli omonimi.
↑ 13 Case ha, invece, un’estensione simile a quella di baraque nel francese familiare esagonale: il referente di entrambi i lessemi può essere una costruzione qualsiasi, perfino lussuosa.
↑ 14Le sottolineature o le diverse evidenziazioni usate in seguito sono sempre mie.
↑ 15 Ho ricavato quest’informazione da una nota di Richard Philcox, traduttore inglese della Traversée de la Mangrove – nonché marito dell’autrice e dedicatario del romanzo - che recita «A highly-prized variety of sugarcane» (CONDÉ, 1995: 202).
↑ 16 Può darsi invece che si tratti di una svista dovuta alla doppia pressione del creolo brake dell’inglese brackish. Al riguardo vale la pena di ricordare che Maryse Condé ha scritto questo romanzo interamente in Guadalupa, che ha insegnato a lungo negli Stati Uniti e che è sposata con un inglese.
↑ 17 La grafia più frequente è senz’altro congo. Tuttavia il Larousse registra l’aggettivo con la k.
↑ 18 Si pensi ad esempio ai lessemi «camerata» e camarade che, pur avendo la stessa matrice, designano persone appartenenti a schieramenti politici opposti in Italia e in Francia e alle connotazioni che veicolano.
↑ 19 Quest’arena nera è menzionata spesso nel romanzo, anche se i dépliant e le guide turistiche propongono solo le spiagge bianchissime della Guadalupa.
↑ 20 A priori sarei contraria all’inserimento di glosse esplicative: solo la scoperta personale dello scarto provoca piacere e stabilisce un legame di complicità con l’autore. Nel caso dei calchi, però, questa eventuale gioia intellettuale era riservata esclusivamente al pubblico antillano, l’unico in grado di cogliere il significato caraibico, smascherando il significante esagonale. Per non perdere tutto, mi sono rassegnata a trasmettere l’informazione: servirà almeno ad avvicinare il lettore italiano a una cultura lontana dalla sua.
↑ 21 Dal punto di vista teorico, sono convinta che il meticciato e la componente guadalupeana debbano essere assolutamente mantenuti perché il ricorso a calchi e prestiti non è una concessione all’esotismo, ma è dettato da ragioni stilistiche e idelogiche. Le dichiarazioni di Maryse Condé non lasciano dubbi sulla sua posizione riguardo ai processi ibridativi. Nel saggio Penser la créolité, l’autrice afferma, infatti, che «Il faut valoriser les nouveaux métissages culturels […]. Le métissage a toujours été la terreur des sociétés constituées qui veulent protéger le ventre de leurs femmes contre le sperme des mâles étrangers et par conséquent contre le changement» (CONDÉ, M. COTTENET-HAGE 1995: 309). Nella Traversée de la Mangrove, ritengo che i prestiti servano sia a valorizzare il creolo - poiché in genere l’importazione di vocaboli è legata al prestigio di cui gode l’idioma o il popolo che lo parla – sia a favorire appunto nuove forme di ibridazione. Assieme ai calchi, essi contribuiscono, inoltre, a provocare quei cambiamenti, che veicolano nuove visioni del mondo, considerati così fecondi dalla scrittrice. Una lingua, infatti, non è mai neutra, ma è un filtro attraverso cui si vede la realtà. Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto, fra l’altro, a scartare l’ipotesi di attingere ai dialetti per rendere il fenomeno di diglossia che caratterizza il romanzo. Del resto, parlando della traduzione inglese di una sua opera teatrale, in un’intervista rilasciata a Françoise Pfaff (1993 : 121-122), Maryse Condé critica la scelta di usare termini anglofoni presi dal pidgin giamaicano per rendere voci creole. Riguardo al lessema béké, che nel francese antillano designa un bianco nato ai Caraibi, dice ad esempio che : «Traduire “béké” par son équivalent jamaïcain “bakra” n’a pas de sens […]. [i:lang=fr]Je pense qu’il est préférable de garder le mot “béké” […] qui est fidèle à l’original». Tuttavia, rendere in modo puntuale, contabile, lo scarto con lo scarto può generare insopportabili forzature. Alcuni tentativi di riprodurre l’argot o lo slang tradiscono, per esempio, gli originali in modo clamoroso, trasformando il brio e l’immediatezza della fonte in un assurdo coacervo di battute artefatte e inverosimili. Quando la lingua d’arrivo non contempla un sistema linguistico-espressivo omologo di quello presente nel testo di partenza, può essere preferibile rinunciare a certi valori estetici. Meglio appiattire, ancor meglio ricorrere alla compensazione. Inoltre, bisogna tener conto che la componente antillana del romanzo ha un impatto diverso sul pubblico che legge l’originale. Da un lato, una parte dei destinatari – anche se minima – è rappresentata dagli abitanti dei Caraibi francofoni, che sono in grado di cogliere appieno le sfumature del testo. Dall’altro, se è vero che al lettore esagonale sfuggirà quasi sempre il significato dei prestiti e dei calchi dal creolo, è altrettanto vero che, rispetto al lettore italiano, egli ha maggiore dimestichezza con la cultura della Guadalupa e della Martinica, che in fin dei conti sono Dipartimenti d’Oltremare francesi.