Il narratore prende ciò che narra dall'esperienza - dalla propria o da quella che gli è stata riferita - e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia.
(Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov)
Nel Giardino dei sentieri che si biforcano Borges attribuisce a Le Mille e una notte una circolarità che, ai suoi occhi, renderebbe l'opera infinita:
m'ero chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. Non potei pensare che a un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente. Mi rammentai anche della notte centrale delle Mille e una notte, dove la regina Shahrazad (per una magica distrazione del copista) si mette a raccontare testualmente la storia delle Mille e una notte a rischio di tornare un'altra volta alla notte in cui racconta, e così all'infinito1.
Allo sguardo del lettore questa circolarità è, però, invisibile: nessun copista distratto ha, infatti, permesso che il re oda la propria storia dalla bocca dell'indefessa narratrice. Per quanto inesatta, l'osservazione dello scrittore argentino attesta, tuttavia, la molteplicità di versioni, rielaborazioni, trasformazioni che un'opera come Le mille e una notte ha involontariamente prodotto nel corso dei secoli. Opera senza fine non, come vorrebbe Borges, perché la prima e l'ultima frase coincidono ma in nome di quella seconda possibilità di cui gode l'infinito narrativo: la facoltà dell'opera di circolare, di essere tramandata anche a costo di deformazioni e aggiunte. «Pensai - continua l'autore - anche a un'opera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri»2. Possibilità alternativa ma che, in realtà, si iscrive in uno dei virtuali destini cui convergerebbe anche la serie degli innumerevoli racconti di Shahrazàd. Non è un caso che tra i vari finali possibili delle Mille e una notte, uno di questi corrisponda al 'libro infinito' cui Borges ambisce. Secondo la versione che leggiamo nella traduzione di Joseph Charles Mardrus3, per ordine del re Shahriyàr storici e scribi registrano tutto l'accaduto, depositando i racconti con cui la narratrice conquista il diritto alla vita in un manoscritto in trenta volumi stilato in lettere dorate che il re colloca nell'armadio d'oro del regno sotto stretta sorveglianza, permettendo, tuttavia, che esso circoli in un cospicuo numero di copie quale insegnamento alle generazioni future. Una versione completamente diversa da quella tramandataci dall'edizione Habicht, secondo cui il re avrebbe deposto nella sua biblioteca i trenta volumi vietandone in tutti i modi la diffusione al fine di preservare la loro perfezione. Al di là della circostanza da cui scaturiscono, le due versioni sottendono due diverse concezioni della letteratura, come fa notare Lavagetto:
Due soluzioni antitetiche, dunque, e che sembrano configurare un duplice destino, o un duplice uso, della letteratura. Da un lato il testo, che una volta scritto, viene fissato nella sua immobilità ieratica: non deve essere letto, ma salvaguardato dalla lettura, perché la lettura è - inevitabilmente - deformazione. (…) Dall'altro lato, viceversa, il testo viene esposto al proprio destino, a essere letto, riraccontato, deformato e contaminato quotidianamente, anche se il manoscritto originale è depositato nell'armadio d'oro del regno e potrà servire come paradigma di controllo4.
A una circolazione infinita della letteratura nello spazio dei possibili narrativi fa riferimento l'universo creativo di Assia Djebar che spesso convoca autori e personaggi delle più varie espressioni artistiche attingendone spunti e suggestioni. Femmes d'Alger dans leur appartement, raccolta di novelle che vertono sul tema centrale della condizione femminile in Algeria, ad esempio, deve il suo titolo all'omonimo quadro di Delacroix, che l'autrice evoca nella postfazione al volume Regard interdit, son coupé5. Del breve soggiorno ad Algeri nel 1832, come ricorda Assia Djebar, Delacroix conserva sulla tela, in due successive versioni, la propria visione dell'harem che ha avuto l'opportunità di visitare. Le tre donne raffigurate sotto il tendaggio sollevato da una serva appaiono «femmes en attente»6, «prisonnières résignées d'un lieu clos»7, «dolentes assises»8 che non stabiliscono con lo spettatore alcun rapporto, «absentes à elles-mêmes, à leur corps, à leur sensualité, à leur bonheur»9. In tale percezione visiva la scrittrice scorge «une approche d'un Orient au féminin»10 che non ha equivalenti nella pittura europea, «habituée à traiter littérairement le thème de l'odalisque ou à évoquer seulement cruauté et nudité du sérail»11. Vero e proprio «sguardo rubato», il quadro del pittore francese rende visibili donne che non si avrebbe il diritto di guardare e il cui sguardo è altrettanto vietato e pericoloso perché rappresenta una minaccia all'«esclusività ottica» prerogativa dell'uomo. «Suono tronco», esso trasmette, inoltre, solo l'assenza del linguaggio perché le due figure femminili, sorprese a conversare, comunicano in realtà una parola muta, quello stesso silenzio inculcato alle donne arabe sin dalla più tenera infanzia e avvertito come una seconda mutilazione. Una visione pittorica, questa, sicuramente diversa da quella di Picasso che, in quindici tele e due litografie, si era confrontato con l'esperienza artistica di Delacroix sullo stesso tema. Nei primi anni della guerra d'Algeria l'ardita interpretazione dell'harem da parte del pittore spagnolo, nel proporre donne nude che danzano in un'esplosione vitale innovativa all'interno di un luogo ora senza porte, sembra presiedere e preconizzare un mutamento dei costumi, un'emancipazione che restituisce alle donne il proprio corpo:
Picasso renverse la malédiction, fait éclater le malheur, inscrit en lignes hardies un bonheur totalement nouveau. Prescience qui devrait, dans notre quotidien, nous guider12.
I due artisti guidano dunque il percorso della scrittrice, il suo ascolto delle donne dell'Algeria e la speranza in un futuro per loro diverso:
Je ne vois que dans les bribes de murmures anciens comment chercher à restituer la conversation entre femmes, celle-là même que Delacroix gelait sur le tableau. Je n'espère que dans la porte ouverte en plein soleil, celle que Picasso ensuite a imposée, une libération concrète et quotidienne des femmes13.
Lo sguardo romanzesco dell'autrice si sostituisce così a quello pittorico di Delacroix e Picasso nelle novelle che in Femmes d'Alger dans leur appartement offrono episodi e riflessioni sulle donne algerine dalla fine dell'Ottocento agli anni Sessanta del Novecento, sulle loro voci che invitano all'ascolto, sulle loro parole di amore e di sconfitta che chiedono comprensione, sui loro silenzi su cui grava l'interdizione della parola. E se Delacroix è ancora presente sulla copertina di L'amour, la fantasia che riproduce L'enlèvement de Rebecca così come su quella di Oran, langue morte, con un dettaglio di La Mort de Sardanapale, è un altro artista a intercedere presso la scrittura dell'autrice nel primo di questi volumi. Si tratta questa volta di Eugène Fromentin che, percorrendo un iter inverso rispetto a quello della Djebar, passa dal pennello alla penna, «de la sensorialité iconique à la rationnalité linguistique»14, alla ricerca, nelle parole, di quel contatto viscerale con l'«objet palpé»15 che sfuggirebbe all'immagine. La narratrice di L'amour, la fantasia traduce alla zia analfabeta Une année dans le Sahel, il romanzo di Fromentin citato, a sua volta, in esergo al volume (e rievocato anche in Ombre sultane). Ma l'importanza di tale autore supera la singola circostanza e investe tutta la scrittura dell'autrice, come rivelano le ultime pagine dell'opera:
Eugène Fromentin me tend une main inattendue, celle d'une inconnue qu'il n'a jamais pu dessiner.
En juin 1853, lorsqu'il quitte le Sahel pour une descente aux portes du désert, il visite Langhouat occupée après un terrible siège. Il évoque alors un détail sinistre : au sortir de l'oasis que le massacre, six mois après, empuantit, Fromentin ramasse, dans la poussière, une main coupée d'Algérienne anonyme. Il la jette ensuite sur mon chemin16.
È lo stesso Fromentin, quindi, ad aver guidato la mano di Assia Djebar in quest'opera autobiografica che alterna capitoli di vita vissuta a capitoli sulla storia della nazione algerina, che mette in scena un «io» plurale coniugando autobiografia e storia, che intercala la dimensione privata a quella collettiva del genere femminile allo scopo di riportare in vita le voci di donne obbligate al silenzio, quell'oralità di cui la scrittura sfida l'oblio:
Plus tard - afferma la narratrice - je me saisi de cette main vivante, main de la mutilation et du souvenir17.
Nel passarle il testimone, Fromentin si pone come ombra tutelare del percorso dell'autrice verso la scrittura. L'amour, la fantasia si struttura, infatti, proprio a partire da due figure paterne: la prima, rievocata sin dalla pagina iniziale del testo, è il padre che tiene per mano la figlia il primo giorno di scuola. Insegnante di francese, è grazie a lui che l'autrice-narratrice può frequentare la scuola francese, accedere così al mondo della cultura e dell'emancipazione. La seconda, da cui l'io narrante prende congedo nell'ultima pagina del romanzo, è «la silhouette paternelle»18 di Fromentin che l'ha accompagnata nel suo vagabondaggio offrendole quella «mano della mutilazione» con cui e di cui scrivere, «comme si cette main encore vivante avait pour mission d'établir un pont entre le passé enfoui et l'avenir qui s'annonce, par le biais de ces strates du souvenir qui confèrent sa véritable épaisseur au présent»19.
Ed è ancora la 'mano' di un ulteriore scrittore ad ispirare il titolo di un altro testo autobiografico dell'autrice: Vaste est la prison20, come spiega l'epigrafe in esergo al volume («Vaste est la prison qui m'écrase, d'où viendras-tu délivrance ?»), deriva da una canzone berbera tratta da Chants berbères de Kabylie di Jean Amrouche.
Lo sguardo di Delacroix, il pennello di Picasso, la penna di Amrouche, di Fromentin e, ancora, di Ponge, Camus e di tanti altri si incrociano, quindi, con disinvoltura nella scrittura di Assia Djebar, intervengono in modo significativo a supporto di un'opinione, a sostegno delle parole quali voci da ascoltare, riferire e dalle quali partire per riproporre un nuovo testo e una nuova lettura: «Toute la littérature est capteur de voix. C'est à capter cette écoute que s'emploie l'écriture de Assia Djebar en ses dispositifs subtils où s'aiguise l'ouïe»21. Dalle voci della letteratura alle voci delle donne cui è negato il diritto di parlare pubblicamente, tutta la scrittura dell'autrice insiste sull'urgenza della parola e della sua trasmissione, unico mezzo per attenuare il dolore e scongiurare la violenza. D'altronde, ella sostiene:
Je ne vois pour les femmes arabes qu'un seul moyen de tout débloquer : parler, parler sans cesse d'hier et d'aujourd'hui, parler entre nous (…). Parler entre nous et regarder. Regarder dehors, regarder hors des murs et des prisons ! … La femme-regard et la femme-voix (…)22.
La femme-regard e la femme-voix: in questa immagine di speranza si converte il secolare regard interdit, son coupé immortalato da Delacroix; riappropriandosi dello sguardo e della parola la donna recupera il proprio corpo e il proprio ruolo nella storia, quell'identità che finalmente libera da vincoli coercitivi può manifestare la propria ebbrezza vitale come nei dipinti di Picasso.
Nell'intera opera dell'autrice, l'importanza accordata alla voce, vero e proprio «événement, avènement à l'existence»23, spiega, in particolare, la forte ascendenza questa volta non di un autore, ma di un personaggio della letteratura: la sultana delle Mille e una notte. In La femme en morceaux24, racconto incluso nella raccolta Oran, langue morte, la scrittrice algerina ospita proprio una delle tante storie di Shahrazàd all'interno di una dichiarata dinamica intertestuale che, per definizione, si fa, qui più che altrove, dialogo tra testi. Nel racconto in questione, Assia Djebar riprende, rielabora e interpreta il mito aprendo la strada alla letteratura e alla scrittura, soli mezzi per esorcizzare la violenza che governa la nazione algerina.
Unico conte di Oran, langue morte - raccolta di récits e nouvelles -, La femme en morceaux chiude la prima parte del volume intitolata Algérie, entre désir et mort. Esso occupa una posizione centrale e privilegiata all'interno di un testo che anche nella parte successiva, Entre France et Algérie, attraverso storie dolorose, frammenti di vita e di immaginario, rinvia al «monde muet»25 delle donne magrebine. Trattate come cose, esse tentano disperatamente di impossessarsi di una lingua «où déposer, cacher, faire nidifier leur puissance de rébellion et de vie»26, come spiega l'autrice in «Le sang ne sèche pas dans la langue», postfazione al volume che, sin dal titolo, evoca quella capacità di indagare sulla lingua che contraddistingue un autore come Francis Ponge il quale, durante l'occupazione tedesca, rifugiatosi al centro della Francia, si mise a scrivere sul… sapone. L'ammirazione della scrittrice per l'autore francese che esplora il linguaggio alla ricerca dei suoi segreti più intimi passa attraverso il suo sguardo. Arrivato in Algeria prima della guerra di liberazione, Francis Ponge è, secondo Assia Djebar, il primo straniero a guardare le donne dall'esterno, a riconoscerne, come gli uomini del paese, il tratto distintivo nelle caviglie rosate, unico lembo di pelle che si offre alla vista. Alla ricerca della parola adeguata che possa contemplare la singolarità di un tramonto sulla Mitidja, caratterizzato dal colore rosa «ardent, intense, un peu violet…»27 del cielo, Ponge, riferendosi proprio al rosa delle caviglie delle algerine velate, ricorre a un'espressione rara, «un rosa sacripante»:
J'ai senti que c'était un rose qui ressemblait un peu au rose des chevilles des femmes algériennes. C'est une des seules choses qu'on voit de leur peau28.
Il corpo delle donne algerine si iscrive così nel corpo della lingua, in cui, appunto, «nidifica la propria potenza di ribellione e di vita», corpo nel quale scorre anche il sangue di coloro che, vittime del loro sapere o della loro professione29, vengono uccise ingiustamente ma che nella lingua, prima, e nella scrittura, successivamente, trovano una nuova forma di vita:
quelle que soit l'approche tentée pour les écrire frémissantes, le sang - leur sang - ne sèche pas dans la langue, quelle que soit cette langue, ou le rythme, ou les mots finalement choisis30.
Per impedire che tanta violenza sia dimenticata, è doveroso ricorrere, quindi, ad ogni costo, al racconto e sottrarsi alla tentazione del silenzio:
Le récit, non le silence, ni la soumission tourbe noire, les paroles, en dépit de tout posent jalon, avec la rage, la peine amère, et la goutte de lumière à recueillir dans l'encre de l'effroi31.
Shahrazàd «des jours d'encre»32, la scrittrice «se désigne, comme ses compagnons voilées dont elle recueille les voix, «diseuse », «conteuse », «parleuse », «scripteuse». Jamais auteur : «tout au plus transit d'un dit, un chanté, un pleuré (…)»33. Come quella di Shahrazàd, la sua parola è salvezza del genere femminile, è sfida contro la morte e sua sospensione, è ritorno all'ordine.
Non sorprende quindi che la mitica eroina delle Mille e una notte sia più volte evocata nei testi dell'autrice così come lo è, tra l'altro, in numerose opere di scrittori e scrittrici della letteratura magrebina contemporanea. Colei che rappresenta il potere seduttivo della voce e del racconto, che mette fine alla fatalità di una condizione femminile sottomessa, mutando il corso del destino senza violenza, anzi, rispondendo alla violenza con l'incanto della parola, fa la sua prima significativa apparizione nella scrittura di Assia Djebar già nel 1987 con Ombre sultane. Il romanzo alterna la vita e la memoria della narratrice Isma, la prima moglie, che è riuscita a liberarsi dalle imposizioni e a scegliere liberamente l'uomo da amare, all'esperienza della seconda moglie, la giovane Hajila, la quale, reclusa e passiva, scopre all'improvviso il mondo esterno sfuggendo clandestinamente alla prigionia cui la vita coniugale e il ruolo tradizionalmente attribuito alla donna l'avevano consegnata. Il suo desiderio travolgente di vivere una vita propria viene raccontato e filtrato nel testo attraverso il racconto della prima moglie, che un giorno ha abbandonato il marito e la figlia alla ricerca della propria libertà e che, moderna Shahrazàd, diventa gradualmente il grido di dolore, la voce disperata della concubina, colei che in arabo viene chiamata «derra», ossia «ferita», ma con cui Isma stabilisce una relazione «sororelle». Hajila è quindi l'ombra che sollecita la parola di Isma, che desta la sua voce per sostenere la liberazione del genere femminile e il rapporto tra le due consorti si specchia dichiaratamente nella relazione necessaria e vitale che si stabilisce tra Shahrazàd e la sorella Dunyazàd . Infatti, nelle Mille e una notte, come ricorda Assia Djebar, la vittoria della prima è resa possibile dalla presenza della seconda che, sdraiata ai piedi del talamo nuziale, ha il compito di chiedere a Shahrazàd, nel cuore della notte, una delle sue bellissime storie, per poi congedarsi da lei prima del nuovo giorno. Nello scarto tra il tempo dell'oscurità e quello del racconto si gioca, così, la vita della regina delle notti che, dovendo interrompere la sua accattivante storia, al sorgere dell'alba ne promette il seguito al re purché le conceda una proroga, annunciando sempre nuovi e più straordinari episodi. La curiosità obbliga il sultano a rinviare di giorno in giorno la fatale condanna, almeno sino alla milleunesima notte allorquando, facendo appello al sentimento paterno, la regina, mostrandogli i tre figli che intanto ha dato alla luce, gli chiede la grazia di sfuggire alla sorte prevista: quella morte che lui ha destinato a tutte le donne che, di volta in volta, sposa e all'alba uccide per vendicarsi del tradimento della prima moglie nella quale, inizialmente, aveva riposto la più assoluta fiducia.
Se il racconto della regina può differire il tempo della morte è proprio grazie a Dunyazàd che veglia e la sveglia, e le permette di procedere nella sua eroica narrazione:
Et la sultane sera sauvée par un jour encore, pour un deuxième, parce qu'elle invente, certes, mais d'abord parce que sa sœur a veillé et l'a réveillée34.
Al tempo stesso, come afferma ancora la narratrice,
Aujourd'hui, pour secourir une concubine, je m'imagine sous le lit, éveilleuse et solitaire, je déploie l'image proférée autrefois. Celle de femmes - «jambes dénudées» -, elles qu'on prétend amoureuses la nuit et qu'on fait esclaves sitôt le soleil levé…35.
Solo il racconto, dunque, può salvare dalla morte ed esso è reso possibile da due figure: colei che narra, destinata a divenire sultana, e colei che, ombra della prima, sollecita la parola dinanzi al sultano facendosi musa ispiratrice e testimone del verbo:
Éclairez Dinarzade de la nuit ! Sa voix sous le lit aiguillonne, pour que là-haut l'intarissable conteuse puisse chasser les cauchemars de l'aube. Et notre peur à toutes aujourd'hui se dissipe, puisque la sultane est double36.
Ma cosa succederebbe - si chiede l'autrice - se Shahrazàd fosse uccisa prima che proferisca parola o se sua sorella allentasse la vigilanza e si addormentasse?
E cosa succederebbe se, proprio a causa di un racconto, si perdesse la vita? Quale, in tal caso, il potere della voce, della trasmissione, della letteratura?
Atyka37, la protagonista de La femme en morceaux, è una giovane professoressa di francese ad Algeri nel 1994. Nell'aula della scuola in cui insegna irrompono cinque uomini armati che la condannano a morte per aver narrato ai suoi allievi una 'storia oscena'. Il conte che registra tale episodio contiene anche il racconto 'maledetto' proferito dall'insegnante, il quale viene ampiamente discusso e analizzato nella classe di seconda. Assia Djebar gioca, così, sui due livelli narrativi alternando nel testo il carattere tondo al corsivo.
La narrazione 'oscena' che costa la vita ad Atyka è proprio una storia delle Mille e una notte38. A partire dal ritrovamento nel fiume Tigri del cadavere mutilato di una giovane donna, essa mette in scena una serie di personaggi maschili i quali, chiamati a giustificare l'accaduto dinanzi al califfo, trovano salvezza attraverso un racconto, proprio o altrui.
Il racconto di Shahrazàd, che l'insegnante riferisce ai suoi allievi con qualche lieve modifica, si apre, quindi, a Baghdad con la casuale scoperta da parte di un pescatore del cadavere di una giovane donna - i pezzi avvolti con cura in un velo di lino bianco, leggermente macchiato di sangue e adagiato su un tappeto prezioso, a sua volta arrotolato e posto in una cesta di foglie di palma finemente cucita con fili di lana rossa, deposta in una cassa pesante, chiusa a chiave e immersa in fondo al Tigri -. La ricerca del colpevole, su ordine del califfo Haroun el Rachid, conduce al marito della donna che, assumendosi la responsabilità dell'omicidio, racconta quanto accaduto. Per esaudire un desiderio della moglie tanto amata, egli le ha donato tre mele rosse a lungo cercate, felice di ridestare il sorriso ormai spento sul volto della donna ma, qualche giorno dopo, nota nelle mani di un aitante schiavo nero uno dei frutti tanto ambiti. L'africano, un eunuco probabilmente a servizio del califfo, ignorando l'identità del suo interlocutore gli riferisce di aver ricevuto la mela dalla sua amante, donna premurosa e innamorata. Spinto dalla gelosia, l'uomo uccide la moglie prima ancora di conoscere la verità su quanto accaduto dal figlioletto piangente: un Nero, incontrato per strada, aveva sottratto al bambino la mela che, a sua volta, egli aveva, di nascosto, portato via alla madre. Il visir Djaffar, costretto dal califfo Haroun el Rachid a cercare il Nero diffamatore, pena la sua stessa morte, identifica casualmente il colpevole proprio in uno dei suoi schiavi. Baratta, quindi, la vita dell'eunuco con una storia di cui il sultano avrebbe indubbiamente riconosciuto e apprezzato il carattere straordinario. Djaffar, nuovo narratore, racconta così la storia di due fratelli, figli del visir del Cairo, uniti da un profondo amore sino al momento in cui litigano per un motivo insignificante e le loro strade si dividono: Chems ed-Dine («Soleil de la fois») regnerà al Cairo, Nur ed-Dine («Lumière de la fois») a Bassora. Entrambi avranno un figlio, rispettivamente una femmina e un maschio; a quest'ultimo il padre racconterà la propria storia e consegnerà, prima di morire, raccomandandosi di non perderlo, un manoscritto nel quale è trascritta la disputa avuta con il fratello e la conseguente rottura della loro relazione:
Voici que Nur ed-Dine tombe malade : se sentant affaibli, il fait venir son fils - maintenant adolescent et paré de toutes les grâces. Il lui raconte l'histoire, au Caire, de sa dispute avec le frère tant aimé, génératrice de la séparation. Il fait inscrire ce récit de l'origine sur un manuscrit que Badr ed-Dine promet de porter toujours sur lui. (p. 204)
Intanto, al Cairo, Chems ed-Dine vede crescere Sitt, la sua bellissima figlia, già in età da marito…
Il contenuto di questo racconto delle Mille e una notte è distribuito su quattro delle cinque lezioni previste da Atyka e rivolte a una ventina di adolescenti. Distinto tipograficamente perché in carattere tondo, esso è intercalato, sino a un certo punto del testo, da altrettante scansioni diegetiche, scritte in corsivo, atte a introdurre la professoressa di francese, le sue meditazioni sul contenuto delle lezioni da svolgere e i commenti generati nella classe dalla lettura della storia di Shahrazàd.
La presentazione dell'insegnante, ad opera di una voce anonima, si concentra in un'unica e basilare annotazione: il suo bilinguismo, scelta volontaria, spazio di libertà di movimento e di dialogo tra culture:
Alger, 1994. Atyka, professeur de français : une langue qu'elle a choisi, qu'elle a le plaisir d'enseigner. (p. 167)
A differenza dei suoi genitori, obbligati a compiere i loro studi in lingua francese, Atyka, figlia dell'indipendenza, ha avuto la possibilità di scegliere:
Pas comme autrefois son père et sa mère qui, à l'école coloniale, n'ont pu faire des études qu'en français, alors que le premier parlait berbère, et la seconde arabe…
Atyka, née l'année même de l'indépendance, choisit, à vingt ans, de faire sa licence en français…(p. 167)
Contro le aspettative del padre e sotto la benedizione materna, la giovane donna aveva optato per una lingua che, non più nemica, le permettesse di reintegrare il linguaggio quotidiano e affettivo ascoltato nell'intimità domestica e, al tempo stesso, di conquistare quella libertà di movimento del corpo e dello spirito che altrimenti le sarebbe stato impedito:
- Cela me surprend, lui dit le père. Toi qui es si forte en arabe, je te voyais en linguistique arabe, en exégèse islamique, en spécialiste de droit musulman, que sais-je ?
- Laisse-la, lui dit la mère. Tu vois bien qu'elle nous entend à la maison rire ou nous quereller en quoi… en français ! C'est nous deux qu'elle aime dans cette langue !
Et Atyka, qui sait le goût de sa mère pour les histoires, pour la littérature, de répondre :
- Je serais professeur de français : mais vous verrez, avec des élèves vraiment bilingues, le français me servira pour aller et venir, dans tous les espaces, autant que dans plusieurs langues ! (p.168)
Come spesso accade nei testi di Assia Djebar, la lingua francese, associata alla scuola, e quindi alla lettura e alla scrittura, è legata al movimento del corpo nello spazio, a «un andirivieni continuo tra due vite», a «un mettere radici nell'andare»39 ma nei testi autobiografici è fondamentalmente inscindibile dalla figura del padre. La pratica scolastica della lingua francese, come l'autrice ricorda in L'amour, la fantasia, è inaugurata sin dai cinque anni sotto il patrocinio paterno (è il genitore, insegnante di francese, che la iscrive e l'accompagna alla scuola francese) e si oppone alle tradizioni della madre: «ce fut comme si je développais au-dehors, dans ce petit village d'une plaine coloniale algéro-française, une partie masculine de moi-même, et que mon côté féminin restât dans l'appartement derrière les persiennes, aux côtés de ma mère voilée et qui ne sortait pas»40. Se nella sua autobiografia Djebar «fonda così una sorta di mito privato, che postula l'abbandono del 'corpus' della madre per accasarsi nell'extra-territorialità di una lingua che, nonostante o proprio perché «altra» o «nemica», è in grado di affrancare dalla gabbia della tradizione e dagli auto-divieti che ad essa si accompagnano»41, nella finzione ribalta la particolarità del biografico e si riappropria, tramite il personaggio di Atyka, di una figura materna emancipata che difende e sostiene la scelta della figlia contro il parere del genitore. Perché ora il francese, da bottino di guerra è diventato, nello stesso itinerario della scrittrice, lingua madre, lingua cioè che accoglie come un grembo materno sollecitazioni diverse (a cominciare dalla letteratura orale) provenienti da spazi e culture variegate.
Gli stessi allievi di Atyka partecipano a questa doppia appartenenza42; coinvolti e interessati, maschi e femmine con o senza tchador, in lingua araba o francese, esprimono la propria opinione e confrontano le varie versioni e traduzioni dell'opera. «Il s'agit dans ces scènes au présent contemporain d'une prise de parole par divers interlocuteurs dont le dispositif d'énonciation désigne avec soin la spécificité et les différences : prise de parole au masculin et au féminin, dans la langue française et dans la langue arabe, selon des convictions musulmanes et laϊques»43 nel pieno rispetto dell'altrui pensiero, in base alle norme del dialogo e della discussione costruttiva. Gradualmente, agli occhi degli studenti, la storia della donna fatta a pezzi si presta a interpretazioni in chiave ora politica ora femminista ora religiosa che l'insegnante tenta di contenere, ricordando loro che non stanno seguendo un corso di scienze politiche o di religione. La preoccupazione di Atyka verte unicamente sulla possibilità di portare a termine l'obiettivo prefisso, ossia di finire in tempo il racconto delle Mille e una notte:
Puisque elle a la chance d'avoir cette même classe, cinq jours de suite, son pari est de longer, en libre inspiration, le récit qui frange au moins une dizaine de nuits de la sultane ! (p. 168)
«Souci pédagogique banal auquel les circonstances donnent un sens tragique»44: la porta dell'aula si apre senza preavviso, cinque uomini armati interrompono la quarta lezione di Atyka, interrogano, inveiscono e uccidono:
Vous êtes bien Atyka F., soi-disant un professeur, mais qui raconte, paraît-il, à ces jeunes gens, des histoires obscènes ? (p. 209)
La violenza integralista di coloro che si presentano come «forces de l'ordre» (p. 208), promotori di un ordine patriarcale45 che non consente dialogo e plurilinguismo, si concentra sull'insegnante, «la professeur», come la designa in un francese deformato uno dei cinque uomini. Non fa in tempo, dunque, Atyka a terminare la storia delle Mille e una notte riportata nel corpo del testo, a raccontare il ritrovamento e l'unione di Badr ed-Dine e Sitt grazie proprio al récit de l'origine che il primo ha ereditato dal padre, manoscritto che attesta i legami familiari e parla di una fratellanza divisa immotivatamente: una pallottola la colpisce al cuore, uccidendola, e uno dei cinque uomini le trancia il collo e pone la testa sulla cattedra.
Delle cinque lezioni che lei aveva previsto, solo quattro le sono, di fatto, concesse. Tuttavia, sebbene le avventure riportate da Djaffar rimangano in sospeso, l'insegnante non rinuncia a presentare, miracolosamente, il lieto fine della milleunesima notte, la notte della liberazione della sultana, argomento previsto per il giorno successivo, il quinto giorno di lezione:
Atyka, tête coupée, nouvelle conteuse, Atyka parle de sa voix ferme. Une mare de sang s'étale sur le bois de la table, autour de sa nuque. Atyka continue le conte, femme en morceaux.
- Cinq jours durant, nous avons vécu avec Shéhérazade, la sultane… avec le mari qui a avoué son crime… avec Djaffar qui a imaginé les deux frères, fils de vizir, dont le fils et la fille finiront par être réunis…
(…)
- C'est la fin de la mille et unième nuit que j'aurais voulu relater. Mille et unième qui apporte à la sultane enfin délivrance ! (pp. 211-212)
A parlare della grazia ottenuta da Shahrazàd è, quindi, solo la testa di Atyka, testa mozzata che svolge così dalla cattedra la quinta lezione e si ostina a riferire la liberazione della sultana, una salvezza leggendaria e lontana, utopia di un presente che nega al racconto quella facoltà salvifica che solo la letteratura può concedergli, un presente in cui il racconto nulla può fare contro il potere e la sua follia.
«La nuit, c'est chacun de nos jours, mille et un jours, ici, chez nous, à…»: sono le ultime parole pronunciate dalla voce della testa mozzata di Atyka, nuovo Orfeo che ad ogni costo vuole portare a termine il compito prestabilito concludendo la sua narrazione. Sono, questa volta, parole della stessa docente e non più riportate dalla voce di Shahrazàd, come fa notare Omar, lo studente che tanto ammirava la sua professoressa e che ha voluto, sino all'ultimo, prestare attenzione alla sua voce avvicinandosi alla cattedra su cui la testa della donna annegava in una pozza di sangue. E Omar - ultimo studente ad allontanarsi dall'aula -, fedele e attento ascoltatore, probabile narratore cui Djebar- Shahrazàd -Atyka passano il testimone del racconto («Il dira plus tard - que (…)») come in una corsa a staffetta, per giorni e giorni percorrerà la città di Algeri alla ricerca della voce dell'insegnante ossessionato dal colore bianco della città, unico colore che la sua vista possa sopportare «pour éviter les mots qui le hantent, qui le font absent» (p. 215). Assente a se stesso, in uno spazio sospeso tra l'Algeria contemporanea e la Bagdad delle Mille e una notte, Omar ode in continuazione i singhiozzi del califfo Haroun el Rachid sul corpo della giovane sconosciuta fatta a pezzi.
'Corpo fatto a pezzi' non è solo quello della protagonista del racconto di Shahrazàd: in questo testo la mutilazione e la frammentazione investono il tempo, lo spazio e la stessa Atyka. Il tempo: quello passato e quello attuale. Lo spazio: quello immemoriale della corte del sultano e quello di un'Algeria a noi più vicina. Anche il corpo di Atyka è un corpo lacerato: mutilato ingiustamente avrà diritto allo stesso trattamento di sepoltura della donna senza nome (il velo bianco, la cesta cucita col filo di lana rossa, la cassa di legno d'ulivo) con cui giunge, nella morte, a identificarsi totalmente46. E corpo fatto a pezzi è il racconto stesso frammentato in due tipologie di testo, in due caratteri tipografici che si alternano: quello delle Mille e una notte in tondo, la storia di Atyka in corsivo. Corpo frammentato, testo frammentato, tipografia frammentata, spazio e tempo frammentati: l'onnipresente dualità trova la sua riconciliazione solo sulla pagina bianca.
Nell'unità della pagina il lettore assiste a un ribaltamento di prospettiva, accuratamente codificato nel linguaggio tipografico: a partire dal momento della sua uccisione, Atyka entra a far parte del conte da lei riferito in qualità di personaggio narrato al pari della sconosciuta martoriata dal marito; il soggetto dell'enunciazione, cioè, diventa oggetto dell'enunciato. La storia di colei che racconta si fa storia raccontata e quindi, ponendosi graficamente sullo stesso piano, si sottrae all'attualità del presente cui il carattere corsivo l'aveva sacrificata e diviene 'fatto letterario'. Scritta in tondo come la storia tratta dalle Mille e una notte - «en romain c'est-à-dire dans le corps du conte où s'incorpore, par métaphore et métonymie, le récit d'Assia Djebar» -47, l'uccisione di Atyka si presta ad essere oggetto di riflessione e discussione per il lettore.
Ma non si tratta dell'unico ribaltamento: paradossalmente il racconto della liberazione della sultana che la testa di Atyka si ostina ad esporre non si colloca sulla stessa linea discorsiva del racconto di Shahrazàd come ci si aspetterebbe. Esso cambia registro e viene presentato non in tondo ma in carattere corsivo iscrivendosi quindi nella realtà del presente, nella contemporaneità dell'Algeria del 1994 dove l'insegnante opera e viene uccisa: messaggio di speranza di una vita che, molto diversa dalla letteratura, in essa trova le vie dell'impossibile. Come sostiene Mireille Calle-Gruber «l'italique prend ici une fonction toute différente : s'il fait irruption, c'est pour interrompre l'interruption ; pour continuer à présent le travail de la pensée. Davantage : en faisant à Atyka, morte, revenante, l'implaçable place fictionnelle, sans référentialité possible, sans réalisme, le récit d'Assia Djebar choisit délibérément l'utopie, ce non-lieu que seule la littérature a les moyens de convoquer»48.
Ad una più attenta lettura, tuttavia, la scelta dei due caratteri tipografici tradisce un'importanza più profonda e di non immediata identificazione. Il corsivo si rivela la scelta tipografica atta a designare la parola: la parola viva e appassionata dell'insegnante e dei suoi allievi, la voce proferita ad ogni costo dalla testa senza corpo. Il tondo è, invece, il carattere dell'assenza della voce femminile: quella ridotta per sempre al silenzio della donna di Baghdad, uccisa ingiustamente dal marito senza aver avuto la possibilità di giustificarsi, e quella di Atyka, colpita a morte e sulle cui tracce Omar vaga ammutolito. La stessa alternanza si figura nel corpo stesso del racconto di Shahrazàd in cui il corsivo irrompe per, ad esempio, sottolineare tra parentesi le riflessioni dell'insegnante (p. 169), o riportare la voce della cantante georgiana (p. 205) o il poème de l'amour partagé (p. 174), voci della letteratura che sopravvivono alla violenza della storia.
Ed è la letteratura, ancora, a convocare Omar, ultimo personaggio e, al contempo, potenziale narratore. La parte che lo vede protagonista alla ricerca ossessiva del destino della voce della sua insegnante («- Le corps, la tête. Mais la voix ? Où s'est réfugiée la voix d'Atyka ?») è riportata in tondo, carattere dell'assenza di voce e carattere del 'raccontato', al pari della storia della donna di Baghdad e di Atyka.
Personaggio del racconto e involontario testimone dell'orrore, Omar non può sottrarsi al ruolo di narratore che l'insegnante gli delega con gli occhi aperti e posati su di lui anche quando la sua voce smette di parlare. Come la giovane donna martoriata sepolta nel Tigri, che non ha diritto al nome, tanto meno alla parola, vedrà trionfare la propria innocenza solo grazie alla voce di Shahrazàd, così Atyka, uccisa per essersi arrogata il diritto alla parola, avrà la possibilità di sopravvivere solo nel futuro e possibile racconto di Omar49 e nel testo di Assia Djebar. Quel bianco che tanto ossessiona il ragazzo è il colore dell'ultima notte della sultana, «la notte più bianca della faccia del giorno»50, la notte della liberazione, la notte a partire dalla quale non ci saranno altri racconti se non quelli già narrati, che potranno infine essere consegnati nel libro che li contiene. Ma il bianco, che solitamente nella scrittura di Djebar è il colore del lutto - su cui si costruisce il récit Le Blanc de l'Algérie dedicato a tre amici scomparsi violentemente, uno psichiatra, un sociologo (entrambi anche autori) e un drammaturgo -, il colore dell'oblio51 e della perdita della memoria storica, è qui anche «traccia di pazienza»52, colore della scrittura, una scrittura di provocazione, «la reine blanche»:
L'écriture est dévoilement, en public, devant des voyeurs qui ricanent… Une reine s'avance dans la rue, blanche, anonyme, drapée, mais quand le suaire de laine rêche s'arrache et tombe d'un coup à ses pieds auparavant devinés, elle se retrouve mendiante accroupie dans la poussière, sous les crachats et les quolibets53.
Se dévoiler - ricorda l'autrice - significa, «comme le souligne [l'] arabe dialectal du quotidien, vraiment « se mettre a nu »54 nella lingua del conquistatore. Affinché non si replichi il saccheggio dei secoli precedenti, occorre che questa accolga la tradizione araba orale e si faccia trasmissione della voce, trasposizione della parola; solo in tal modo la scrittura in lingua francese può garantire protezione:
Écrire en Algérie (…), oh oui, écrire, ce serait garder au-dessus de sa tête, planant et placide, une lune pleine.
Lune protectrice : « Badra », prénom de bon augure. Les nuits de pleine lune ne sont jamais rives de la mort, mais fontaines de l'espoir, annonciatrices d'amour pour nous en abreuver55.
Luna protettrice è dunque la scrittura: nella pagina bianca si raccoglie una voce che altrimenti rischierebbe di perdersi. E come in una pagina bianca vergata di inchiostro, nel bianco venato di riflessi bluastri delle case di Algeri ridipinte a calce Omar cerca la voce perduta di Atyka.
È significativo che anche la fine del racconto narrato da Atyka coincida con un riferimento alla scrittura. L'esposizione da parte dell'insegnante della storia di Shahrazàd si arresta, infatti, nel momento in cui il visir di Bassora lascia in eredità al figlio le sue memorie scritte, storia di una fratellanza ingiustamente mancata. Sarà proprio attraverso quel documento - come si narra nelle Mille e una notte - che, dopo le più stravaganti avventure, il giovane potrà ricongiungersi alla donna amata, figlia dello zio, attestandole la propria identità e conquistando credibilità e fiducia.
L'impressione che conserviamo delle Notti è che la parola vi regni sovrana. La comunicazione avviene da bocca a orecchio; non si leggono delle storie, le si ascolta. A un'indagine più attenta, però, ci si accorge che la narrazione orale è qui solo una prima tappa; la seconda, decisiva, consiste nella registrazione scritta della storia. Questo passaggio avviene così frequentemente (…) da costringerci a formulare la seguente conclusione: una storia non riceve la sua autentica e definitiva sanzione che quando sfocia in un libro56.
È partita dai libri Shahrazàd che incanta il sovrano con le storie che ha letto in innumerevoli volumi nel corso della sua giovane esistenza, aprendo così la propria biblioteca alla salvezza del genere femminile, ed è partita dal libro di quelle storie Assia Djebar per scrivere, o meglio riscrivere, La femme en morceaux. Non solo perché ricorre alle Mille e una notte (a personaggi che si fanno narratori per sopravvivere) per raccontare, attraverso la storia del corpo mutilato della donna senza nome e senza voce (quindi di colei che non ha diritto al racconto che forse l'avrebbe salvata), la storia di Atyka che, diversamente da Shahrazàd e dai suoi personaggi, sacrifica la propria vita per una storia. Ma perché la stessa Atyka è un personaggio citato nel mitico universo di Shahrazàd.
Nella Storia del pescatore e il jinn un genio rinchiuso da Salomone in un vaso viene liberato una prima volta da un pescatore che egli, irriconoscente, cerca di uccidere. L'uomo allora lo rinchiude nuovamente nel vaso, pronto a rigettarlo in mare, ma il genio lo supplica di concedergli la libertà e tenta, attraverso l'offerta di un racconto, di rubare tempo alla sua prigionia:
«No, pescatore, non farlo! » implorò allora l'‘ifrît gridando a più riprese per lo spavento. «Lasciami rimanere sulla terraferma, liberami! Non ci guadagnerai niente a punirmi per la cattiveria con cui mi sono comportato verso di te. (…) Non ti comportare come Imâma si è comportata con Âtika! »57.
Alla curiosità del pescatore di saperne di più, il genio baratta il racconto di Imâma e Âtika con la propria libertà: l'uomo, diffidente, non cade però nella tentazione dell'ascolto del racconto e, se più tardi, libererà il genio è perché questi avrà giurato solennemente di non nuocere più alla sua esistenza e di farlo diventare ricco. La storia di Âtika è quindi una storia annunciata ma mai più ripresa e raccontata, una storia misteriosa e lasciata in sospeso. La stessa Storia del pescatore e il jinn in cui si evoca l'esistenza di questo personaggio femminile contiene, inoltre, un altro sorprendente collegamento tra i racconti di Shahrazàd e quello di Assia Djebar: una testa mozzata che parla, determinata a vendicare così chi l'aveva tradita58.
Se è vero che «un narratore - così come un autore - è circondato dai suoi doppi: da coloro che ascoltano la sua storia e se ne impadroniscono; che catturano i suoi segni e li fanno esplodere in sensi multipli, disseminati su diversi circuiti di narrazione»59, Assia Djebar sembra aver raccolto e condotto verso altre direzioni questi segni: il nome di Âtika, voce muta e mai ascoltata, diviene la testa senza corpo che parla e vanifica l'atto dei suoi carnefici facendosi essa stessa racconto e poi scrittura.
Fatto straordinario, scandaloso; ma il turbamento si attenua quando si pensi che ogni libro è una testa tagliata che parla. La lettura è il dialogo fra un lettore vivo e un autore morto (o assente). Benché morto, l'autore parla, nel suo libro, e risponde alle domande del lettore. La morte non ostacola la comunicazione. Prodigio di una testa che conserva l'uso della parola, il libro è l'appuntamento dell'assenza con la presenza, della morte con la vita60.
Attraverso la scrittura, quindi, e a partire dal mito, da una dimensione atemporale e leggendaria, Assia Djebar approda all'attualità del suo paese, di un'Algeria in guerra fratricida la cui unica speranza risiede proprio nella letteratura, rifugio privilegiato - «car là où il n'y a plus d'espace de liberté pour vivre, parler, écrire, espérer, survivre, il faut qu'il y ait la liberté de l'espace littéraire où se retrancher»61 - ma anche luogo elettivo di creazione e ricreazione senza fine. E in tale spazio di vita la letteratura, «lieu de simulacre et de verité, lieu de la vérité du simulacre»62, «qui se mesure à son économie propre, à sa faculté d'être en puissance et de coudre ensemble tel rhapsode des morceaux de texte»63, è il punto di partenza e di arrivo di questo racconto. Nell'assicurare una posterità alla leggenda e alla cruenta verità della storia, La femme en morceaux trasforma gradualmente il soggetto dell'enunciazione in oggetto di futuri e potenziali enunciati contemplando, quindi, e attuando la vera forza della scrittura letteraria di cui si fa specchio e che, mai fine a se stessa, permette di raccogliere l'eredità del passato per interpretare il presente e diventare esperienza del futuro grazie alla presenza del lettore. E proprio il lettore, al pari del padre e di Eugène Fromentin, è l'ultima ombra tutelare della scrittura di Assia Djebar. Destinatario della sua arte, egli ne è anche l'ispiratore:
Qu'est-ce qui a guidé - si interroga Assia Djebar nella postfazione di Oran, langue morte - ma pulsion de continuer, si gratuitement, si inutilement, le récit des peurs, des effrois saisis sur les lèvres de tant de mes sœurs alarmées, expatriées ou en constant danger ? Rien d'autre que le désir d'atteindre ce «lecteur absolu» - c'est-à-dire celui qui, par sa lecture de silence et de solidarité, permet que l'écriture de la pourchasse ou du meurtre libère au moins son ombre qui palpiterait jusqu'à l'horizon…64.
La scrittrice supera, così, la dicotomia tra voce e scrittura65 che ha da sempre esperito nell'universo femminile algerino e, concedendosi liberamente a una scrittura che accolga la voce, compie un'azione trasgressiva e resistente insieme, rifiuto dell'oblio e memoria indelebile, porta aperta verso la speranza.
«Après tout - si chiede Assia Djebar -, si Shéhérazade ne contait pas à chaque aube, mais écrivait, peut-être n'aurait-elle eu besoin que d'une nuit, et pas de mille, pour se libérer?»66
Pour citer cet article :
Margaret Amatulli, « Voci della letteratura e scrittura della voce. Dalle Mille e una notte a La femme en morceaux di Assia Djebar, una rapsodia in bianco», in Femmes de paroles, paroles de femmes. Hommage à Giorgio De Piaggi, Publif@rum, 3, 2006, URL : http://www.publifarum.farum.it/n/03/amatulli.php
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