In una ininterrotta conversazione interiore, Enfance di Nathalie Sarraute rievoca, per lo più al presente, i ricordi infantili della scrittrice in una serie di sequenze narrative punteggiate di blancs che seguono generalmente un ordine cronologico, anche se non mancano incertezze o indeterminazioni temporali ora implicite ora esplicitate nel testo. In forma auto-critica1, attraverso il dialogo tra due voci, il racconto d’infanzia si interroga sulla memoria, sulla “reconstitution” del vissuto per mezzo della scrittura e sullo stesso gesto autobiografico. Ma se interrogarsi sul senso, i mezzi e la portata di tale gesto è una caratteristica propria dell’autobiografia, quale discorso in cui la scrittura stessa è “mise en scène”2, in Enfance non solo il dialogo tra le due voci ma gli stessi ricordi assumono un valore metadiscorsivo, a partire da quelli evocati nei primi due capitoli. Così l’ostinata masticazione della bambina, quando si rifiuta di ingoiare il cibo prima che sia divenuto “aussi liquide qu’une soupe”, sembra richiamare la “parole qu’aujourd’hui la narratrice rumine pour en explorer le sens et l’enjeu”3. Allo stesso modo, il gesto compiuto da Natacha quando lacera la tappezzeria del divano, contravvenendo alle ingiunzioni della governante, si fa specchio del desiderio trasgressivo che conduce la scrittrice a “évoquer [ses] souvenirs d’enfance” contro le “mises en garde” del suo doppio, istanza critica dell’io narrante che misura la distanza apparentemente incolmabile tra il progetto autobiografico e la sarrautiana écriture du tremblement4.
Alle ripetute intimazioni della governante tedesca (“« Nein, das tust du nicht »… « Non, tu ne feras pas ça »”) la piccola Natacha risponde, infatti, in un tono di sfida: “« Doch, Ich werde es tun » (…) « Ich werde es zerreissen »”. “« Si, je le ferai » (…) « Je vais le déchirer »”: sono le prime parole attribuite nel testo all’io narrato, seguite dall’immagine di una mano che affonda la punta delle forbici nella tappezzeria di seta del divano provocandone uno squarcio da cui fuoriescono lembi di imbottitura:
j’enfonce la pointe des ciseaux de toutes mes forces, la soie cède, se déchire, je fends le dossier de haut en bas et je regarde ce qui en sort… quelque chose de mou, de grisâtre s’échappe par la fente… 5.
Come risposta della voce narrante alle obiezioni sollevate dal doppio (“ce que je crains, cette fois, c’est que ça ne tremble pas… pas assez…”), tale ricordo non solo richiama l’attenzione sul valore trasgressivo del discorso autobiografico ma trova nell’evocazione della materia molle e grigiastra che fuoriesce dalla fenditura un’espressione figurata della ricerca sarrautiana nell’informe e sotterraneo territorio dei tropismi in una scrittura che si origina nel movimento dell’effraction6. Primo ricordo narrato (derogando palesemente all’ordine cronologico), il passo citato si offre, dunque, come mise en abyme del gesto doppiamente trasgressivo compiuto dalla scrittrice nell’affrontare il vissuto autobiografico senza abbandonare la dimensione in cui si colloca l’intera sua opera ma anzi fornendone un’immagine originaria e fondatrice7.
Ed è proprio sull’immagine del “déchirement de soi(e)” che si vuole riflettere in queste pagine – a partire da un’analisi delle diverse occorrenze del verbo “déchirer” e dei suoi derivati – considerando i significati letterali, figurati e simbolici che essa assume nel testo autobiografico a livello dell’enunciato, dell’enunciazione e della costruzione dell’opera stabilendo un rapporto dialettico tra io narrato, voci narranti e autore implicito.
Richiamato più volte nel testo insieme alle sue forme derivate, il verbo “déchirer” (dal francique “skerian” che significa “séparer, partager”) contempla, secondo il Grand Robert, diverse accezioni, tra cui:
Mettre en pièces ou faire une ouverture à, dans (qqch.) en tirant des deux côtés opposés, sans se servir d’un instrument tranchant.
Causer une vive douleur physique.
Fig. Causer un déchirement, une vive douleur morale, une grande émotion ou une profonde affliction.
Séparer par de tragiques divisions (…) Être déchiré entre deux sentiments contraires.
Ognuna di queste accezioni si può ritrovare nel testo autobiografico il cui incipit, come spesso accade nell’opera romanzesca di Sarraute, richiama e prefigura l’intero racconto. Del resto, la prima definizione riportata nel dizionario, secondo cui l’azione di “déchirer” non contempla l’utilizzo di uno strumento “tranchant”, fa emergere l’uso improprio del verbo nel passo citato, dove sono appunto le forbici impugnate dalla bambina a provocare la déchirure della seta. Se la scrittrice preferisce questo verbo ad un più appropriato sinonimo, non è forse per la sua densità semantica, così da evocare sulla soglia stessa del libro, unitamente o in controluce al gesto trasgressivo della bambina, la sua sofferta, e déchirée, condizione infantile?
Diversamente dall’ordine del racconto, in quello della storia narrata il verbo “déchirer” compare inizialmente nella forma dei suoi derivati facendo affiorare nel presente dell’evocazione il vissuto affettivo della bambina e, come vedremo, il suo rapporto con il linguaggio, essendo questi due aspetti tra loro indissociabili.
Dechirée, l’infanzia di Natacha lo è innanzitutto perché divisa, non tanto tra due paesi – la Russia e la Francia –, due lingue e due culture, quanto tra i due genitori. Affascinata dalle giovani governanti inglesi, di cui immagina “les « vraies » enfances vécues dans l’insouciance, dans la sécurité, sous la ferme et bienveillante direction de parents unis” (p. 262), ella non conserverà alcun ricordo condiviso con entrambi i genitori, tanto che l’io narrante non può nemmeno immaginare l’uno in presenza dell’altra: “je ne les ai jamais vus, je ne peux pas les imaginer se rencontrant, lui et ma mère…” (p. 57). Quelli di Enfance sono ricordi di esperienze parallele e incomunicabili dove “ici” e “là-bas” (Francia e Russia, casa del padre e casa della madre) si susseguono in una rapida alternanza variando di volta in volta il loro rapporto referenziale. Su questa frattura, o distanza incolmabile, si fonda la rievocazione dell’infanzia, in cui si può seguire, come osserva Monique Gosselin8, il côté de la mère e il côté du père, in un racconto in cui spesso i ricordi si raddoppiano presentando esperienze simili vissute in modo diverso a fianco dell’uno e dell’altro genitore.
Da questa frattura del vissuto deriva la sensazione di étrangeté che si insinua nella bambina sia presso il padre, in quanto giunta da “un lieu étranger où ils [il padre e la governante] n’ont pas accès, dont ils ignorent les lois” (p. 18), sia nella dimora materna, dove l’io narrante ricorda di aver avvertito – spinto dalle sollecitazioni del doppio che, in tal caso, svolge la funzione dell’ascolto psicoanalitico9 –, un senso di estraneità ai giochi affettuosi che univano la madre e Kolia: “J’étais un corps étranger… qui gênait…” (p. 75). Non a caso The Prince and the Pauper di Mark Twain è il racconto più amato da Natacha di cui si ricordano le immagini raffiguranti i due sosia protagonisti quando vedono scambiati i loro rispettivi ruoli e identità ritrovandosi a vivere in luoghi a loro estranei, di cui ignorano i rispettivi codici di comportamento (cfr. pp. 79-80)10.
L’esperienza del “déchirement” come “douleur morale” o “profonde affliction” si colloca invece esclusivamente nel côté de la mère essendo indissociabile dalle sue frequenti e lunghe assenze: déchirant è l’addio rivolto a Gacha, che si occupa della bambina durante i suoi soggiorni in Russia in compagnia della madre (p. 105); déchirante è la nostalgia delle vere e vaste praterie che assale Natacha, di ritorno a Parigi, alla vista della spoglia vegetazione del parc Montsouris (p. 114); un “nouveau déchirement” è quello che Véra, la nuova compagna del padre, avrebbe voluto evitarle, secondo una delle successive congetture dell’io narrante, facendola sentire un’ospite in procinto di ricongiungersi con la madre (p. 131). Ancora più esplicitamente, una sensazione di déchirement accompagna la separazione evocata nelle pagine finali del testo, quando lo scoppio della guerra interrompe bruscamente il soggiorno in Francia della madre – preoccupata di raggiungere in Russia l’amato Kolia –, da cui Natacha (e la stessa opera autobiografica) prende congedo nella stazione di Royan, davanti al treno in partenza:
Je l’ai accompagnée à Royan, au train… j’étais déchirée… et ce qui me déchirait encore davantage c’était sa joie qu’elle ne cherchait même pas à dissimuler… (p. 260).
Queste sofferte esperienze si ripercuotono nella vita interiore della bambina generando una divisione dell’io che rischia di trasformarsi in una vera e propria follia, o una sorta di schizofrenia, quando strane “idées” l’assalgono in presenza della madre. Si tratta di pensieri o immagini che ella sente giungere da un altrove sconosciuto: “quelque part hors de moi, dans un lieu que je ne connais pas…” (p. 99) e in cui non può riconoscersi: “ce n’est pas moi qui ai pensé ça” (ibid.). Comparse improvvisamente, le “idées” intaccano la figura materna mettendone in dubbio la bellezza o la generosità, in un primo e sofferto tentativo di liberarsi dal suo dominio. Ma, nel momento stesso in cui cercherà di condividerle, in modo da renderle inoffensive, al posto della sperata liberazione Natacha si sentirà sopraffatta dal peso di una inopinata sentenza: “« Un enfant qui aime sa mère trouve que personne n’est plus beau qu’elle »” (p. 95). Di qui il senso di colpevolezza e di emarginazione della bambina che, non potendo più confidarsi, resterà in balia di un nuovo déchirement, sofferenza interiore dell’être divisé: “l’idée me déchire, me dévore…” (p. 103).
Tuttavia, se fino alla fine dell’opera assistiamo alle déchirantes separazioni dalla madre, Enfance disegna un percorso di progressivo affrancamento dal suo dominio e dal suo linguaggio normativo che predilige i grands mots e le formule stereotipate; quello che Yvette Went-Daoust definisce, riprendendo le categorie di Bakhtine, una “parola autoritaria” che ricorre frequentemente alla forma astratta dell’assioma o della sentenza11.
Tale percorso si riconosce nel diverso ruolo assunto da Natacha in rapporto al verbo “déchirer”. Ai citati episodi in cui la bambina riveste il ruolo passivo dell’oggetto su cui ricade l’azione o lo stato descritti dal verbo o dai suoi derivati, si contrappongono infatti altri due ricordi in cui, come nella scena inaugurale, ella diventa soggetto attivo dell’azione di “déchirer”. Il primo presenta la sua reazione alle parole della governante: “« Quel malheur quand même de ne pas avoir de mère »” (p. 121); parole che la feriscono suscitando nello stesso tempo la sua ribellione, il suo rifiuto:
- « Quel malheur ! »… le mot frappe, c’est bien le cas de le dire, de plein fouet. Des lanières qui s’enroulent autour de moi, m’enserrent… (…) Cette femme le voit. Je suis dedans. Dans le malheur. Comme tous ceux qui n’ont pas de mère. Je n’en ai donc pas. (…)
- Je sors d’une cassette en bois peint les lettres que maman m’envoie, elles sont parsemées de mots tendres, (…) il est évident que nous ne sommes pas séparées pour de bon, pas pour toujours… Et c’est ça, un malheur ? (…)
- Je reste quelque temps sans bouger, recroquevillée au bord de mon lit… Et puis tout en moi se révulse, se redresse, de toutes mes forces je repousse ça, je le déchire, j’arrache ce carcan, cette carapace. Je ne resterai pas dans ça, où cette femme m’a enfermée… (pp. 121-122).
Il secondo episodio ci riporta ancora una volta, ma illuminandole di una nuova luce, alle lettere della madre il cui linguaggio stereotipato, come quello dei contes de fée di cui è autrice, non sembra rivolgersi alla figlia, che si sente dimenticata e che vorrebbe “briser pour toujours ces liens” ma che finirà per soccombere davanti alle espressioni di affetto con cui si chiudono le missive, incapace di compiere il gesto trasgressivo e liberatorio:
- A qui s’adressent-elles donc, les cartes postales, les lettres que m’envoie maman ? (…)
- Elle ne sait plus qui je suis maintenant, elle a même oublié qui j’étais. (…)
- J’ai envie de ne plus jamais recevoir aucune lettre, de briser pour toujours ces liens, mais chaque fois les mots tendres, caressants de la fin me retiennent, m’enveloppent… je suis toute amollie, je ne peux pas déchirer le papier sur lequel ces mots ont été tracés, je le range pieusement dans ma cassette (p. 126).
I due passi citati mostrano il progressivo distacco critico da parte della bambina che per la prima volta si ribella contro le parole, quali carcerieri o sirene che, di volta in volta, l’imprigionano o l’ammaliano provocando lo stesso malessere. Dopo aver cercato nelle missive l’antidoto con cui combattere la sentenza della governante, le stesse parole della madre si rivelano inautentiche: sostituendosi alla sua presenza, esse ne materializzano la distanza, suggerendo l’insufficienza di un affetto divenuto semplice e vuota parola: grand mot scollato dalla realtà e ridotto a oggetto-feticcio che Natacha vorrebbe, senza però averne la forza, “déchirer”12.
Nel percorso di affrancamento dal dominio della madre risulterà fondamentale l’apprendistato di due nuovi linguaggi che si contrappongono a quello materno separando il vissuto affettivo dall’espressione verbale: la comunicazione ‘silenziosa’ del padre e l’uso scolastico della lingua. Sarà infatti sotto l’effetto anestetizzante delle parole del genitore che ella potrà trovare la forza di “briser ces liens” attraverso una simbolica operazione chirurgica, una sorta di amputazione cui lei stessa risolverà di sottoporsi quando sarà costretta ad assumersi la responsabilità della propria vita, decidendo di restare in Francia presso di lui:
ce sera douloureux de trancher moi-même ce lien qui m’attache encore à ma mère, (…) mais les paroles de mon père (…) agissent comme un anesthésiant qui m’aide à achever d’arracher sans trop souffrir ce qui s’accroche encore… voilà, je l’ai fait, « C’est ici que je veux rester » (pp. 174-175).
A poco a poco, egli saprà comunicarle la certezza di un costante sostegno basato su un affetto che non necessita della ratificazione della parola. Ricordato più volte nel testo, il rapporto con il padre, che detesta i “grands mots”, ricuce il déchirement affettivo sofferto dalla bambina trasmettendole la sicurezza di “un lien invisibile” (p. 116), un “lien si fort” (p. 154), un “lien à part qui [les] unit” (p. 270); il legame di un affetto quotidiano e silenzioso:
aucun mot ne doit aller lui porter ce que je ressens… et même si je ne sentais pas envers lui ce que les autres appellent l’amour, mais ce qui entre nous ne se nomme pas, cela ne changerait rien, ma vie lui serait aussi essentielle… plus peut-être que la sienne ?… en tout cas autant… (p. 175)13.
L’apprendimento scolastico ha invece come oggetto un linguaggio diverso da quello della vita quotidiana; un linguaggio spogliato di ogni valenza affettiva che richiede esclusivamente l’adesione dell’intelligenza, l’impiego delle capacità intellettuali nel riconoscere e applicare correttamente le regole su cui si fonda, in uno sforzo premiato con la scoperta progressiva di un mondo stabile e conoscibile. Ma se la sicurezza offertale dal padre (con l’esperienza di un affetto svincolato dalla parola) e dalla scuola (con l’esperienza di una parola svincolata dall’affetto) accompagnano Natacha nel suo cammino verso l’autonomia, l’io narrante assume nei confronti dei due diversi linguaggi un diverso rapporto, rispettivamente di identificazione e di distanziamento14. Mentre l’hymne au père15 si prolunga fino al presente della scrittura, l’esperienza scolastica è oggetto di un’ironica apologia che sottende un’implicita denuncia.
Le parole apprese a scuola, attraverso i dettati, gli esercizi, le letture e le composizioni, rappresentano per Natacha il viatico per una nuova vita (“ma vraie vie”, p. 166) che sembra garantirle sicurezza e legittimità: “C’est apaisant, c’est rassurant d’être là toute seule enfermée dans ma chambre… personne ne viendra me déranger, je fais « mes devoirs », j’accomplis un devoir que tout le monde respecte” (p. 134). Ma, come suggerisce il ricordo della composizione affidatale dalla maestra, dal titolo “Mon premier chagrin”, si tratta piuttosto di un “refoulement du vécu profond”16, ovvero di una rimozione della déchirure.
Nell’intento di dedicarsi alla scrittura di un ricordo immaginario (“un modèle de vrai premier chagrin de vrai enfant”, p. 209), Natacha si propone di “déployer des splendeurs” dando sfoggio alle belle parole apprese nei dettati e nelle letture, ben diverse dalle parole “grigiastre” di ogni giorno, rispettandone le apprese consuetudini grammaticali:
Les mots parmi lesquels je me suis posée ne sont pas mes mots de tous les jours, des mots grisâtres, à peine visibles, assez débraillés… ces mots-ci sont comme revêtus de beaux vêtements, d’habits de fête… la plupart sont venus de lieux bien fréquentés, où il faut avoir de la tenue, de l’éclat (…). Et pour les relier entre eux il existe des règles strictes auxquelles on doit se conformer (…). Même mes mots à moi, ceux dont je me sers d’ordinaire sans bien les voir, lorsqu’ils doivent venir ici acquièrent au contact des autres un air respectable, de bonnes manières (p. 211).
Tuttavia, nel momento stesso in cui cerca di ignorare il suo personale vissuto (“Un vrai chagrin à moi ? (…) Et quel avait été le premier ? Je n’avais aucune envie de me le demander…”, p. 208), questo riaffiora a sua insaputa nel lavoro della scrittura. Non è infatti difficile riconoscere il dramma dell’infanzia di Natacha attraverso la storia immaginaria del cagnolino che i genitori, riuniti nella finzione, le regalano per il suo compleanno. Descritto come un bianco batuffolo – immagine dell’innocenza nonché dell’ovattato e nevoso scenario dei primi ricordi infantili – , il cucciolo sarà dilaniato da un treno in corsa; treno che, nell’esperienza della bambina, è l’emblema della separazione e della sua infanzia déchirée tra i genitori divisi17. Contro ogni sforzo d’immaginazione, sotto il rivestimento o mascheramento delle parole, il déchirement continua ad abitare la sua scrittura, la cui trama, pur nel rispetto di tutte le regole grammaticali – che permettono di acclimatare ciò che è ‘straniero’ e di unire le parole d’ici a quelle giunte da là-bas –, è sempre troppo larga per poterlo celare. La composizione infantile si propone, dunque, come immagine antitetica della scrittura autobiografica che non solo, come si è mostrato, scava nella déchirure dell’infanzia ma, come vedremo, fa di essa il principio stesso della sua scrittura grisâtre, riconoscibile a livello dell’enunciazione nello sdoppiamento dell’istanza narrativa e, a livello della costruzione dell’opera, nella frammentazione o éclatement del racconto.
Nel commentare il feuilletage d’énonciations che caratterizza il testo sarrautiano, Lejeune18 mette in evidenza la costruzione in abyme delle voci: all’interno del suo dialogo con il doppio, l’io narrante rievoca le esperienze di Natacha restituendo o mimando in lunghe sequenze la voce della bambina (in una transizione facilitata dall’uso dello stesso pronome personale, dal carattere ‘orale’ delle due voci e dal loro prevalente ricorso al presente); a sua volta, la voce mimée della bambina si fa mimeuse della parola altrui o propria, come in questo passo esemplare:
Comment est-il possible que j’aie pu éprouver cela il y a si peu de temps, il y a à peine un an quand elles arrivaient, s’introduisaient en moi, m’occupaient entièrement… « mes idées » que j’étais seule à avoir, qui faisaient tout chavirer, je sentais parfois que j’allais sombrer… un pauvre enfant fou, un bébé dément, appelant à l’aide… « Tu sais, maman, j’ai mes idées… Je pense que tu as la peau d’un singe… » J’imite comme je peux ce ton que j’avais, un ton éploré, piteux, grotesque… (…) Comme il est délicieux, le contraste avec ce que je suis maintenant… comme maintenant mon esprit paraît net, propre, souple, sain… (p. 135).
Oltre che un esempio delle “vertigineuses stratifications”19 delle voci, si potrebbe riconoscere nel passo citato una rappresentazione del discorso autobiografico antitetica all’enunciazione dialogica di Enfance. Nelle parole di Natacha, il rapporto tra io-presente (“propre, souple, sain”) e io-passato (“enfant fou, bébé dément”) presuppone infatti un punto di vista univoco sull’esperienza vissuta, in assenza del dialogo io-tu che inscrive nello stesso presente dell’evocazione una prospettiva mouvante in cui si alternano le diverse interpretazioni riconducibili allo stesso, duplice, soggetto dell’enunciazione.
In Enfance, la conversazione interiore che fa da cornice e accompagna la rievocazione dei ricordi infantili20 costituisce il fondamento stesso del discorso autobiografico: come si suggerisce nelle prime pagine, è infatti il rapporto con il “tu”, l’ascolto della sua voce, che spinge l’“io” a evocare i ricordi d’infanzia. Tale dialogo rappresenta uno degli strumenti che permettono a Sarraute di praticare il racconto autobiografico nell’ère du soupçon21, posando uno sguardo auto-critico sul vissuto e sulla scrittura del vissuto che, in tal modo, acquistano il respiro e il valore di un’incessante ricerca sfuggendo al rischio delle “etichette” psicologiche e di quella forma figée ripetutamente contestata dalla scrittrice. Le due voci che dialogano ora si uniscono ora divergono, assumendo di volta in volta ruoli diversi. In linea generale, all’io narrante è ascrivibile il progetto autobiografico e la rievocazione dei ricordi, mentre il doppio, come è stato suggerito, svolge alternativamente le funzioni di ascolto, collaborazione e controllo22 incarnando, secondo la stessa scrittrice, “un côté plus raisonnable, un côté qui relit et demande : pourquoi tu dis cela ?”23; o, come osserva Yvette Went-Daoust, la figura del narratario con cui la scrittrice previene le possibili reazioni del lettore24.
La presenza di un soggetto scisso in “io” e “tu” sembra riproporre simbolicamente, a livello dell’enunciazione, la déchirure che definisce il soggetto dell’enunciato25. Per chiarire il rapporto dialettico che si stabilisce tra i due livelli testuali, si considereranno ora, senza soffermarsi sulle diverse funzioni delle due voci, le rappresentazioni che si offrono nel testo autobiografico del soggetto dell’enunciazione, focalizzando l’attenzione sui riferimenti al suo presente. Come preannuncia il titolo, Enfance si concentra sui primi undici anni della vita della scrittrice; al di là di questo limite temporale gli scorci sul vissuto sono rari ma forse, proprio per questo, non trascurabili. Oltre ai contenuti prolettici che riguardano l’attività letteraria, alle riflessioni sul progetto autobiografico e sulle problematiche della memoria, vi sono alcune interessanti allusioni all’aujourd’hui:
Quand mon père revient, je lui raconte que je n’en ai pas voulu, de cette confiture… elle est mauvaise, (…) elle avait un goût écœurant… Ce n’est pas de la confiture de fraises… Il m’observe, il hésite un instant et il dit : « C’était bien de la confiture de fraises, mais ce que tu voyais, c’était un peu de calomel. On l’avait mélangé avec elle, on espérait que tu ne t’apercevrais de rien, (…) il faut absolument que tu en prennes… »
L’impression un peu inquiétante de quelque chose de répugnant sournoisement introduit, caché sous l’apparence de ce qui est exquis, ne s’est pas effacée, et parfois même aujourd’hui elle me revient quand je mets dans ma bouche une cuiller de confiture de fraises (p. 46).
Ici, je ne sais pas pourquoi, j’ai peur seule le soir dans ma chambre et papa a consenti à rester auprès de moi jusqu’à ce que je m’endorme… Il est assis sur une chaise derrière moi et il me chante une vieille berceuse… sa voix basse est incertaine, comme un peu éraillée… il ne sait pas bien chanter et cette maladresse donne à ce qu’il chante quelque chose d’encore plus touchant… je l’entends aujourd’hui si distinctement que je peux l’imiter et j’avoue que parfois cela m’arrive… (pp. 52-53).
Le due citazioni si prestano a una lettura in chiave metadiscorsiva: il primo episodio, che Newman definisce come “anti-madeleine”26, richiama la presenza di una verità nascosta dietro le apparenze alludendo alla ricerca sarrautiana dell’autenticità; nel secondo, la parola che si fa canto sussurrato e incerto sembra invece richiamare il tâtonnement che caratterizza il linguaggio letterario sarrautiano e la stessa scrittura di Enfance, con le sue frasi sospese, esitanti e fluttuanti in cui la parola si fa ricerca della materia viva della sensazione. Nei due casi, soprattutto, si pone l’accento sulla continuità di una sensazione, uditiva o gustativa, come punto d’incontro dell’io presente con l’io passato.
Nella sensazione ritrovata e rivissuta al presente – tempo verbale che domina sul passato prossimo e l’imperfetto27 – il discorso autobiografico trova il suo punto culminante mentre suggerisce che, al di fuori di essa, ogni rievocazione finisce per trasformarsi in una visione stereotipata dell’infanzia, nutrita di luoghi comuni. È quanto commentano le due voci nel ricordare le parole “Ce n’est pas ta maison” con cui Véra rispose alla bambina che le chiedeva di rientrare a casa:
Tout à fait ce que la méchante marâtre aurait pu répondre à la pauvre Cendrillon (p. 130).
Per restare nella complessità del vissuto occorrerebbe abitare la sensazione di allora:
Il faudrait pour retrouver ce qui a pu faire surgir d’elle ces paroles réentendre au moins leur intonation… sentir passer sur soi les fluides qu’elles dégagent… Mais rien n’en est resté (p. 131).
Dimenticati il suono e l’intonazione delle parole, ovvero la sensazione che le ha accompagnate (a differenza di quella suscitata dalla ninna nanna paterna) non resta, come osserva l’io narrante, che ricorrere all’immaginazione quale unica possibilità di sfuggire al conte de fée28:
Mais ne pourrait-on pas, cette fois, pour se maintenir dans la réalité, essayer d’imaginer que ces paroles… (pp. 130-131).
Come si può ricavare anche da uno dei primi passi dialogici, la perdita della sensazione è un vuoto che solo il collante senza vita dei luoghi comuni può colmare:
en tout cas rien ne m’en est resté et ce n’est tout de même pas toi, qui vas me pousser à chercher à combler ce trou par un replâtrage (p. 24).
Materia senza vita che ricompone superficialmente e maldestramente la trama del racconto autobiografico, il replâtrage si contrappone nel testo a un’altra immagine introdotta dal doppio in una successiva, e significativa, allusione all’aujourd’hui:
un docteur m’examine… il prend une pince et coupe un à un les boutons sur mon bras.
On en voit encore aujourd’hui les cicatrices (p. 224).
Nelle pagine autobiografiche di Enfance, queste parole del doppio presentano un interesse particolare in quanto introducono l’unica rappresentazione del corpo del soggetto dell’enunciazione. La sua presenza corporea si identifica nelle cicatrici di un’operazione chirurgica infantile, immagine del déchirement sofferto da Natacha (a un’operazione chirurgica era assimilato, come si è visto, il suo distacco dalla madre). Ma attraverso il vissuto affettivo della bambina, aperto alle diverse interpretazioni del soggetto dialogante, i segni riconoscibili nel ‘corpo’ dell’enunciazione si riferiscono allo stesso discorso autobiografico, rappresentato simbolicamente come spazio di una cicatrizzata déchirure.
Nel discorso di un soggetto duplice, diviso e unito nello stesso tempo, le cui voci risuonano ora all’unisono ora discordanti, l’être divisé diventa être de dialogue per abitare la déchirure, intesa come frattura che separa il linguaggio dallo sfuggente contenuto affettivo, senza cadere nei vuoti clichés o luoghi comuni (come quelli delle missive o dei contes de fée della madre) né rifugiarsi nell’eloquente silenzio della dimensione in cui si muovono i tropismi (silenzio di cui il padre rappresenta, a livello dell’enunciato, un’emblematica incarnazione). Percorrere la déchirure è quanto si propongono di fare le due voci nel dialogo inaugurale:
- Mais justement, ce que je crains, cette fois, c’est (…) que ce soit fixé une fois pour toutes, du « tout cuit », donné d’avance…
- Rassure-toi pour ce qui est d’être donné… c’est encore tout vacillant, aucun mot écrit, aucune parole ne l’ont encore touché, il me semble que ça palpite faiblement… hors des mots… comme toujours… des petits bouts de quelque chose d’encore vivant… (p. 9).
Il doppio vigilerà sulla riva dei luoghi comuni per impedirne l’approdo mentre l’io narrante dovrà cercare di strappare al silenzio l’inafferrabile sensazione perché trovi “un milieu propice” in cui “parvienne peut-être à vivre” (p. 8).
Voce che abita l’entre-deux, l’enunciazione dialogica di Enfance si rispecchia in una cicatrice che viene a colmare, senza cancellare, lo spazio aperto tra la parola che fige e la sensazione vissuta “hors des mots”. Quale tessuto vivo, essa non può infatti che rappresentare – in antitesi al replâtrage – la matière vivante di cui tutta l’opera sarrautiana si fa ricerca (nel duplice significato, psicologico ed estetico, che tale ricerca riveste nella poetica della scrittrice) e di cui Enfance ripercorre la genesi.
Attraverso l’infanzia di Nathacha, il testo autobiografico racconta così l’infanzia della scrittura sarrautiana29; di una scrittura generata simbolicamente dall’impossibile incontro del linguaggio del padre con il linguaggio della madre che si confrontano nell’ininterrotto dialogo di un’opera singolare, dove le parole cercano di “atteindre, accrocher, dégager” ciò che la stessa parola, ad ogni momento, minaccia di distruggere.
Con la scelta della frammentazione e della discontinuità, la costruzione dell’opera ripropone una nuova immagine della déchirure de soi(e) nella quale si riconosce e si identifica l’autore implicito30. Il testo presenta una forma frammentaria disseminata di blancs che non solo distinguono i settanta capitoli – privi di titolo e di numerazione – ma che separano, di volta in volta, le repliche della conversazione interiore, la parte dialogica da quella narrativa e le successive sequenze narrative di cui si compone talora lo stesso capitolo, in modo da isolare i diversi ricordi o la rievocazione del vissuto dal commento che ne offre l’io narrante31.
Se la volontà dichiarata di recuperare “des petits bouts de quelque chose d’encore vivant” (p. 9) giustifica la forma frammentaria dell’opera e la sua discontinuità narrativa motivando, nello stesso tempo, la selezione dei ricordi in base alla forza ancora intatta della sensazione in essi racchiusa, non tutti i ricordi presentano la stessa intensità. L’alternanza dei tempi verbali, delle parti dialogiche e narrative, del racconto singolativo e iterativo non solo permette di variare incessantemente la distanza tra io-presente e io-passato e di conciliare, in tal modo, la presenza della sensazione con il distacco critico dell’analisi ma anche, e soprattutto, di creare una rete di rapporti formali tra i singoli capitoli che si sovrappone a quella stabilita dalle associazioni tematiche e che contribuisce alla costruzione del senso. È ad esempio significativo che l’unico capitolo presentato esclusivamente in forma dialogica metta in scena un dialogo madre-figlia (pp. 29-30) mentre l’unico capitolo privo del contrappunto dialogico in cui il ricordo è interamente evocato al passato abbia come oggetto il loro ultimo incontro (pp. 259-260). La costruzione dell’opera si fa così interpretazione del vissuto evidenziando l’evoluzione del rapporto di Natacha con la madre: dal massimo grado di vicinanza del dialogo al massimo grado di distanza della narrazione al passato.
Altrettanto significativo risulta l’ordine in cui si presentano i diversi ricordi nel testo, o meglio le asincronie o alterazioni dell’ordine cronologico. Oltre ai primi due ricordi, già citati, che compaiono nel testo – la cui posizione iniziale è giustificata dal loro valore simbolico o metadiscorsivo –, nell’“ordre chronologique d’ensemble rigoureux”, di cui Lejeune ricostruisce le tappe principali32, si possono infatti riconoscere almeno due significative, e in un certo senso speculari, asincronie. Si tratta, nell’ordine del racconto, delle ultime due evocazioni della figura materna e paterna. Il ricordo della madre, e della sua improvvisa partenza motivata dallo scoppio della guerra, costituisce un evidente contenuto prolettico dal momento che il testo autobiografico sarrautiano fa coincidere la “fine” dell’infanzia con l’inizio degli studi superiori di Natacha (nell’autunno del 1912). Meno evidente risulta invece lo spostamento di cui è oggetto l’ultimo ricordo del padre, riportato nel capitolo 68 del testo autobiografico. L’episodio si colloca nel décor di Vanves, dove egli “s’efforce de reconstituer en bien plus petit sa « fabrique de matières colorantes » d’Ivanovo” (p. 268); ma già nel capitolo 29 si può leggere che il padre “essaie de fonder à Vanves une petite usine fabriquant les mêmes produits chimiques que son usine d’Ivanovo” e che ogni giorno esce di casa per recarsi al lavoro mentre la famiglia attende il suo ritorno, la sera, in una pensione di Meudon (p. 117): i due ricordi risalgono verosimilmente allo stesso periodo. La scelta di richiamare uno di essi nelle pagine finali del libro, confondendo la cronologia, risulta antitetica a quella che determina la precedente asincronia. Mentre nell’ultima apparizione della madre il contenuto di una dichiarata prolessi si trasforma nel ricordo più “remoto” (nel senso che si tratta, come si è detto, dell’unico capitolo interamente narrato al passato e privo del contrappunto dialogico), nel caso del padre, con una dissimulata analessi, si riduce la distanza del ricordo evocato. Quest’ultima scelta sembra rispondere al desiderio di congedare la figura paterna con un’immagine particolarmente cara (“une image, lui aussi, celle de la détermination, de l’énergie… son visage est plus jeune et plus heureux que d’ordinaire…”), accompagnata dall’eco delle sue parole (“« Bon. Alors à demain… (…) Allons viens, ma fille »”) in cui Natacha avverte “l’affirmation un peu douloureuse d’un lien à part qui [les] unit… comme l’assurance de son constant soutien, et aussi un peu comme un défi…” (p. 270). Ma l’immagine del genitore e quest’ultima sensazione di “sfida” acquistano il loro pieno significato solo alla luce del contesto da cui sono stati estrapolate: l’epoca che precede la nascita di Lili, quando Natacha è ancora la sua unica figlia. È infatti nello stesso capitolo 29, dopo aver evocato la fabbrica, che l’io narrante ricorda: “j’apprends je ne sais plus comment qu’elle [Véra] attend un enfant” (pp. 117-118). In un testo che passa completamente sotto silenzio le reazioni e gli stati d’animo della bambina alla notizia della nascita di Lili, la struttura dell’opera rivela molto di più di quanto non facciano gli stessi ricordi evocati – anche se in modo così discreto da passare inosservato a una prima lettura – contribuendo alla costruzione del senso ma lasciandone al lettore il compito e la responsabilità.
In una perfetta osmosi, mentre la struttura dell’opera getta luce sul più intimo significato dei ricordi, altri ricordi si fanno interpreti della sua stessa struttura che, secondo la chiave di lettura proposta, si potrebbe rappresentare come un tessuto déchiré o mis en pièces da parte dell’autore implicito. Questo gesto, che abbiamo già incontrato nell’episodio della rilettura delle missive materne, è richiamato in un ricordo successivo che l’autore implicito suggerisce di mettere a confronto con il precedente dal momento che si tratta di due (dei rari) capitoli privi di contrappunto dialogico in cui si adotta esclusivamente la prospettiva dell’io-passato senza abbandonare il presente (iterativo) della rievocazione33. Corrispondenze lessicali, strutturali e tematiche stabiliscono, infatti, un implicito rapporto tra il citato episodio delle lettere e il seguente ricordo:
Dans les grandes feuilles de papier bleu qui servent à recouvrir mes cahiers et mes livres, je découpe des petits carrés que je plie et replie comme on me l’a appris pour en faire des cocottes en papier. Sur la tête de chacune j’inscris d’un côté le nom et de l’autre le prénom d’une élève de ma classe: trente en tout et je suis l’une d’entre elles. (…) et moi, leur maîtresse… (…)
Ainsi je peux apprendre sans souffrance, et même en m’amusant les leçons les plus assommantes. J’ai devant moi mon livre d’histoire ou de géographie et je pose à mes élèves et à moi-même des questions… aux cancres, quand je ne connais pas encore bien la leçon… ils bafouillent, disent toutes sortes de choses stupides et drôles que j’invente en les imitant… (…)
Certains jours arrivent des inspecteurs… des inspecteurs de toutes sortes… (…) et moi aussi je me transforme, je change comme je veux mon aspect, mon âge, ma voix, mes façons… (pp. 220 e 221).
Alle tessere di carta su cui la bambina scrive il proprio nome, insieme a quelli delle compagne e della maestra, si contrappongono le missive prive di reale destinatario (“A qui s’adressent-elles donc, les cartes postales, les lettres que m’envoie maman ?”) in cui Natacha non può riconoscersi né al presente né al passato (“Elle ne sait plus qui je suis maintenant, elle a même oublié qui j’étais”). Al gesto iniziale della bambina che spezza i fogli per ricavarne le “cocottes” si contrappone il suo desiderio irrealizzato di fare a pezzi le lettere della madre (“je ne peux pas déchirer le papier sur lequel ces mots ont été tracés”); e, soprattutto, se in un caso Natacha vorrebbe strappare quelle lettere per mettere fine ad un inautentico dialogo, infarcito di luoghi comuni, nell’altro, un simile gesto le permette di inventare un nuovo, immaginario dialogo. Infine, al sentimento di resa con cui la bambina “range pieusement [le papier des lettres] dans [sa] cassette”34 fa eco il dispiacere con cui ripone le tesserine di carta nella loro scatola mettendo fine alla rappresentazione: “Quel dommage (…) de ramasser toutes les cocottes en papier, de les ranger l’une contre l’autre dans leur boîte” (p. 222).
Se dal punto di vista dell’io-passato il rapporto tra i due episodi suggerisce la crescente autonomia della bambina – ma anche la sua solitudine, momentaneamente interrotta dalla presenza di “babouchka”, la madre di Véra –35, dal punto di vista qui adottato i due ricordi, nel loro mutuo richiamarsi, presentano ancora una volta un valore metadiscorsivo.
L’immagine di Natacha che, in un diverso contesto, “déchire le papier” come avrebbe voluto fare con le lettere della madre rispecchia il gesto compiuto dall’autore implicito. Nel déchirer la continuità narrativa del racconto autobiografico, in particolare attraverso la forma frammentaria e l’enunciazione dialogica (figurata nuovamente nel duplice ruolo di attore-spettatore di Natacha), egli realizza infatti su un piano diverso il desiderio attribuito alla bambina di strappare le immagini-cliché contenute nelle missive della madre e nei suoi contes de fée, basati su una visione stereotipata dell’infanzia36. Nello stesso tempo, déchirer la trama cronologica del racconto significa, come suggerisce la rappresentazione “teatrale” di Natacha, costruire un nuovo, immaginario dialogo.
Il dialogo che caratterizza il testo sarrautiano a livello dell’enunciazione, attraverso la conversazione interiore di un soggetto che è, nello stesso tempo, narratore e narratario, si inscrive simbolicamente nella stessa struttura dell’opera attraverso gli spazi bianchi e i punti di sospensione che spezzano la continuità narrativa. Nel confondersi con i silenzi che separano le repliche della conversazione interiore, i blancs aprono nella pagina lo spazio per il nuovo dialogo che il testo, o l’autore implicito, stabilisce con il lettore implicito. Come osserva Lejeune, la “fragmentation propre au dialogue porte toujours sens (objection, adjonction, commentaire, question…) si bien que la fragmentation du récit, plus elliptique, a tendance à s’inscrire dans le même espace de méditation”37. Una meditazione che, d’accordo con la poetica sarrautiana, non può che essere dialogica, come suggerisce l’excipit de Les fruits d’or38 con l’anonimo lettore che si rivolge, interpellandolo con il “vous”, al testo letterario oggetto della sua lettura. Nella sua raffinata ed elaborata costruzione, l’opera déchirée o mise en pièces è un’altra immagine dell’opus incertum che, secondo Lejeune, permette di “ouvrir, sans le saturer, un espace d’interprétation. Et de le rendre… insaturable”39.
Déchirer, in definitiva, significa preparare la lettura dell’altro, come suggerisce il ricordo in cui Natacha separa con il tagliacarte le pagine del libro intonso per predisporne la lettura della madre:
J’ai l’embarras du choix, il y a des livres partout, (…) je jauge l’effort que chacun va exiger, le temps qu’il va me prendre… J’en choisis un et je m’installe avec lui ouvert sur mes genoux, je serre dans ma main le large coupe-papier en corne grisâtre et je commence (…). Tout ce que je peux me permettre pour diminuer l’ennui, alléger le tournis, c’est quelques variantes : m’occuper d’abord seulement des « difficiles », en passant les « faciles »… que je garderai « pour le dessert ». Ou alors, au contraire, commencer par les faciles et terminer par les difficiles, ou soumettre à une de ces différentes méthodes des groupes dont je varierai à mon gré l’épaisseur… par exemple, trois feuillets où les difficiles et les faciles vont alterner… cinq où je ne m’occuperai d’abord que des faciles… (pp. 81 e 82).
Lo stesso “effort” con cui la bambina si dedica al suo lavoro definisce nel testo la sofferta e faticosa “reconstitution” del vissuto da parte dell’io narrante:
Tu sais bien que jusqu’à ces derniers temps je n’ai guère été tentée de ressusciter les événements de mon enfance. Mais maintenant, quand je m’efforce de reconstituer comme je peux ces instants (…) (p. 85).
Cela ne pouvait pas m’apparaître tel que je le vois à présent, quand je m’oblige à cet effort… (p. 86).
Allo stesso modo, l’alternanza delle pagini “facili” e di quelle “difficili” e la variazione dei “metodi” applicati a gruppi di pagine di diversa estensione sembrano richiamare (e racchiudere in abyme) il segreto della costruzione déchirée dell’opera sarrautiana, aerata dai silenzi che attendono la voce interpellante del lettore, la sola che (d’accordo con l’etimologia del verbo “leggere”), potrà infine “raccogliere” e riunire gli sparsi frammenti ricomponendo la “déchirure de soi(e)” nel tessuto vivo della lettura.
Pour citer cet article :
Anna Bucarelli, « La “déchirure de soi(e)”: Enfance di Nathalie Sarraute», in Femmes de paroles, paroles de femmes. Hommage à Giorgio De Piaggi, Publif@rum, 3, 2006, URL : http://www.publifarum.farum.it/n/03/bucarelli.php
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