L’equazione scrivere uguale conquistare rientra nell’esperienza attestata di molti autori, e non solo quelli e quelle che hanno teorizzato intorno all’agorafobia della pagina bianca, alla sincope del verso incompiuto, ma pure e soprattutto quelli e quelle che sono ammutoliti sotto il bavaglio della censura e dell’emarginazione o hanno urlato nell’eccesso della vis polemica e della rivolta. Diffusamente e con egregio spirito storico-critico, Giorgio De Piaggi ha trattato la Conquête de l’écriture [Fasano-Parigi, Schena-Nizet, 1993] da parte delle letterate francofone negli anni Settanta del secolo scorso, mostrando come ogni opera letteraria possa essere intesa quale presa di possesso di un territorio di parola, ovvero di uno spazio identitario e nella fattispecie, da parte delle scrittrici, di un dominio tradizionalmente concepito al maschile.
Compiuto, infatti, questo importante passo con i modi dell’affermazione ideologica e con una creatività sempre più qualificante, la presenza femminile nel mondo delle lettere di espressione francese ha acquisito diritto non solo di cittadinanza ma anche di rappresentatività, oltre che nella prosa narrativa pure nell’arte drammatica dove, in particolar modo in Québec, spiccano nomi di indubbio talento. Uno fra i primi è certamente quello di Abla Farhoud1, romanziera e drammaturga originaria del Libano e da più di un decennio affermata scrittrice della provincia canadese francofona.
Appartenente, dunque, alla cosiddetta écriture de la migration, l’opera di Abla Farhoud affronta problematiche generate dai grandi flussi umani – che, in epoca contemporanea, muovono attraverso i continenti – e dal modo di vivere conseguente all’incontro di culture diverse. Sono situazioni che vedono la donna implicata su più fronti: tanto nella difesa della sua persona, sovente minacciata per la fragilità fisica connaturale e per l’emarginazione impostale da alcune culture; quanto nella sperimentazione dei nuovi modi della comunicazione umana che stravolgono le mappe del pubblico e del privato, spazi sempre meno antagonisti, ma nel cui confronto si gioca ancora, presso molte tradizioni culturali, l’affermazione femminile.
Nel nostro mondo attuale di piccolo feroce pianeta, reso ancor più piccolo dalle maglie sempre più fitte delle relazioni mediatiche e rivelatosi ancor più feroce dall’incalzare di nuove onde di belligeranza, il teatro di Abla Farhoud offre tematiche di riflessione e schemi interpretativi di grande apporto. Una di queste componenti forti della sua drammaturgia è costituita dalla prospettiva originale da cui si considera il linguaggio verbale, il quale viene usato in quanto strumento di creazione dell’io, prima che mezzo di comunicazione nei rapporti fra soggetto e mondo interagente. Le sue pièces, infatti, danno corpo a personaggi femminili alle prese con un’incertezza esistenziale di fondo, derivante da vissuti tragici di esilio ed emarginazione, alle quali viene offerta un’opportunità di salvezza: quella, cioè, di mettere a distanza la parola – e quindi la realtà che essa veicola –, attribuendole una materialità esterna al locutore, con la sovra-determinazione del codice sonoro o del codice scritto. Scorporando la parola dal soggetto parlante, è come se si producesse una battuta di arresto nel caos mortifero dell’esistenza umana, tale da consentire di interrogarne i significati, elaborarne le catastrofi e giungere utopicamente a conciliarne le Alterità inerenti.
Il primo Altro cui abbiamo a che fare siamo noi stessi, e da questo rapporto dipende la nostra rete sociale. La relazione è biunivoca, poiché il balbettio dell’infante è espressione del sé interiore e, al contempo, risposta al mondo circostante e sua conquista. Come Prometei moderni, all’epoca della riproducibilità tecnologica della parola umana, abbiamo tentato di rubare la scintilla del suo fuoco per metterla in scatola, ma con ciò non l’abbiamo domata; anzi si è forse verificato l’opposto, come mette in guardia il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein circa le condizioni di sensatezza del linguaggio2. Le prime battute del teatro di Abla Farhoud giungono agli spettatori attraverso una voce femminile registrata al magnetofono. Nel retrobottega di un piccolo spaccio montrealese, Kaokab, una delle due protagoniste di Les filles du 5-10-15¢, riascolta l’inizio del proprio messaggio ai genitori – libanesi emigrati in Québec –, nel quale tenta maldestramente di esprimere insoddisfazione e richiesta di aiuto. Di là dal mezzo che le consente lo sfogo personale, la funzione della macchina per riprodurre parole si rivela essere, tuttavia, prioritariamente, quella di stabilire un contatto non tanto fra lei e i destinatari del suo messaggio, quanto fra lei e la sua elocuzione stessa come avvallo del suo io. Kaokab parla in francese, ma avverte l’artificio di tale medium nel contesto familiare. Prova, allora, in libanese, ma le sue competenze sono troppo ridotte. È un impasse dal quale si sforza di uscire grazie al registratore:
Cher papa, chère maman…Non, je ne peux pas dire ça, ça sonne faux en français. Je recommence. … Ya bayé, ya immé…ana Kaokab, [Papa, maman…c’est moi Kaokab. (Traduzione francese in nota, F 5)] tout ce que je vais vous dire, Amira va vous le traduire…C’est trop difficile pour moi de vous parler en arabe. Je sais seulement des mots de tous les jours, des mots pour boire et pour manger. Mais depuis que je travaille ici tout est différent et… même en français… je trouve ça… difficile à dire. J’espère qu’Amira pourra me comprendre et traduire comme il faut… (F 5)
Il linguaggio registrato diventa il supporto da usare come una riserva di materiale, quasi un minerale grezzo a partire dal quale agire nella speranza di ricostruire un cosmo, anzi di fondarlo. Il progetto si pone timidamente con una configurazione non individualista, poiché delinea un disegno collettivo nell’invocare l’intervento della traduzione della sorella o della decifrazione dei destinatari-genitori. La situazione che Kaokab confessa è quella di un analfabetismo di ritorno, di un’afasia avviatasi dopo che il padre l’ha ritirata dalla scuola per imporle la conduzione di un negozietto di merceria – a lei sedicenne insieme alla sorella di tre anni maggiore, Amira – così da permettere al loro fratello di proseguire gli studi e allo stesso padre di tentare la fortuna con un commercio di calzature che stenta a decollare.
Il registratore appare, dunque, come uno strumento che, pur avendo in sé qualcosa di mostruoso, di disumano, funge da protesi, da sostegno tecnico a una menomazione, un’infermità inabilitante. Infatti, benché la pièce sia stata composta negli anni 80, il magnetofono nella didascalia viene descritto in questi termini:
« Kaokab est devant un énorme tape recorder des années 60. Il est placé dans un endroit retiré du magasin, un peu comme s’il n’appartenait pas à ce décor fait de comptoirs bourrés de choses à vendre. » (F 5)
Nonostante la sua utilità, per l’aspetto e per la collocazione nell’insieme scenico, l’apparecchio risulta aver la consistenza di un corpo estraneo e, come tale, attira l’attenzione ed enuclea la suspense. La discordanza dell’apparecchio è consona con lo stato di estraniazione di Kaokab (potrebbe rappresentarne la proiezione spaziale), tanto riguardo alla sua situazione di commessa (che lei detesta, come avremo modo di apprendere dalle sue confessioni al magnetofono) quanto rispetto alla diglossia incerta fra due codici, entrambi di dubbia auto-identificazione: l’arabo e il francese.
La registrazione iniziale introduce l’azione e rivela l’antefatto :
Ya bayé. Ya immé, vous dites toujours qu’Allah est bon… que rien n’est grave… que tout va passer… mais… est-ce qu’est grave de faire une chose… qu’on n’aime pas… et continuer pareil ? Toi tu n’aimes pas le Canada… et tu veux partir… Ya bayé, ya immé… pourquoi… on est parti de notre pays ? Pourquoi… je travaille ici? Est-ce que je suis née… pour travailler ici ? (F 5)
A più riprese, Kaokab aziona l’apparecchio ricorrendo al tasto rewind, con il quale cerca disperatamente il coraggio di esprimere quello che sente e quello che vorrebbe far sapere ai genitori, con risultati di balbuzie mentale:
Ya bayé, ya immé…Je veux vous dire… Je veux vous dire… (Elle n’arrive pas à continuer, des sanglots lui montent à la gorge. Elle stoppe l’appareil. Elle se ressaisit et recommence après avoir pris une grande respiration) Ya bayé, ya immé… Je veux vous dire… j’ai beaucoup de choses à vous dire… mais je n’arrive pas… Je veux vous dire… (F 10)
Improvvisamente, al terzo tentativo, la ragazzina invece di servirsi del registratore come di un supporto espressivo e comunicativo, per formulare e trasmettere il proprio pensiero ai familiari, intraprende una via di progressivo distacco dalla realtà. Nei ritorni indietro del nastro magnetico da lei manovrato, la raggiungono frammenti di quotidianità lontane con le quali le sue parole interferiscono e risuonano diversamente indirizzate:
(Kaokab joue ave le tape recorder. Elle cherche quelque chose. On entend des voix d’hommes qui parlent en arabe. Elle fait passer. On entend une voix de femme qui chante une chanson triste sans accompagnement musical […] Enfin, elle trouve un vide. Elle enregistre sa voix. Kaokab: - Allô, allô. Un, deux, un deux, trois. Ça fait bientôt deux mille ans que je travaille dans le magasin de mon père… Pour être plus précise, ça fait un an, quatre mois et dix jours que je suis là. […] (À Amira) Amira, veux-tu enregistrer quelque chose, c’est pour les Martiens. (F 23)
Nel decisivo mutamento di tono da parte di Kaokab rispetto agli altri tentativi falliti di registrazione del proprio pensiero, la nota amaro-umoristica e un po’ surreale rende ancor più disperato il ricorso al medium meccanico: il suo SOS si configura adesso come quello della bottiglia affidata ai flutti o del messaggio via etere perduto nel vacuum stratosferico. In questo intrattenimento falsamente distaccato, il registratore diventa il microfono di una radiocronaca immaginaria del tran-tran quotidiano delle giovani emigrate: la comparsa dei topi nella boutique, il rinvio perpetuo della richiesta di vacanze per entrambe che Amira dovrebbe rivolgere al padre, e soprattutto l’incomprensibile rassegnazione al grigiore della routine manifestata dalla sorella maggiore. «Kaokab (au micro) : Aujourd’hui, nous avons été envahies par les rats. Ma sœur Amira ne trouve pas ça grave. (F 25)»
Proseguendo nella nuova parte che si è improvvisata, Kaokab finge di intervistare la sorella e la trascina in una specie di gioco della verità che per Amira risulterà estremamente destabilizzante. Il registratore si trasforma nell’appendice immaginaria di un altro marchingegno, il medium radio-televisivo, mentre, per un rovesciamento di posizioni, è Amira che aderisce con maggior rigore alla parodia dell’intervista rispettandone criteri e stereotipi. Secondo i presupposti di un’immagine standard, e perciò forzosamente positiva, da offrire a un ipotetico pubblico, la maggiore risponde ai rimproveri della sorellina circa la falsità delle sue affermazioni, sottolineando che alla televisione non si dicono certo « les vraies affaires » (F 28). Ne segue uno scambio di battute assai significativo dove Kaokab rivela una terza funzione dell’apparecchio, quello di archivio della memoria quale parziale rimedio all’alienazione presente:
Kaokab: Mais là c’est pour nous autres, pour se rappeler quand on va être grandes.
Amira : Tu vas écouter ces niaiseries quand tu vas être vieille ?
Kaokab : Je les écouterai peut-être pas, mais je saurai que c’est là, que c’est pas effacé. … Un jour on pourra peut-être arriver à comprendre pourquoi… » (F 28)
Attraverso ripetuti fallimenti, il suo tentativo di trasmettere ai genitori la propria desolazione si fa penosamente strada:
…Bayé… Je voulais te dire… Yammé… je voulais te dire… Je ne suis pas née… pour pleurer en silence… Il y a autre chose que la souffrance… Je suis sure… il me semble… qu’il y a autre chose. (F 28)
Non è più ad essi, tuttavia, che la ragazzina rivolge l’appello di aiuto, bensì a se stessa, interpellandosi alla terza persona in un moto di ribellione:
…Quand j’étais petite… y avait pas de magasin… j’en peux plus…laissez-moi… laissez-moi partir…Kaokab va-t-en… va-t-en, Kaokab… va-t-en… Tu peux pas rester enfermée… Va n’importe où… (F 36)
Il magnetofono diventa, così, l’alter ego che le consente di dar corso allo sfogo dissacrante e liberatorio nel quale usare le parole riprodotte come armi per colpire padre e madre:
Oui, je sais maintenant ce que je voulais vous dire. Je sais. Je vous hais, je vous déteste, je vous déteste de m’avoir fait tant souffrir. Je veux vous dire que Kaokab est indestructible, INDESTRUCTIBLE. Vous ne l’empêcherez pas de vivre. (F 40)
Ma è un ingenuo, paradossale richiamo alla vita attraverso la riproduzione automatica del flusso vocale ed esistenziale. Inoltre, l’invocazione all’urgenza della libertà di vivere suona quale sinistro presagio di un’impossibilità che si confermerà, in concreto, senza appello. Per un’azione di transfert, sarà la mite e sottomessa Amina che, esasperata dallo sconforto della sorella dopo il rifiuto paterno a concedere la sospirata vacanza, gestirà il sabotaggio del negozio, quale unica via d’uscita. L’incendio doloso, però, il cortocircuito simulato degenera in tragedia proprio perché Kaokab si lancia fra le fiamme per recuperare il suo magnetofono, forse la sua unica identità. Di lei rimarrà solo la voce riprodotta artificialmente e ripetitivamente a chiudere il ciclo della sua vicenda di sradicamento, vicenda apertasi appunto sulla registrazione del suo balbettio, segno dell’impossibilità esperita ad essere persona autentica e totale:
Voix de Kaokab: Quand j’étais petite, je courais pieds nus sur la terre rouge, je courais pieds nus sur la terre rouge, je courais pieds nus, je courais, je courais, je courais, je… (F 47)
Quelle parole registrate fondano il fragile io di Kaokab, che ad esse si aggrappa fino al sacrificio della sua vita esile e incolore, in quanto quell’eco meccanica costituisce la sola prova tangibile della sua realtà. Si tratta di una realtà artificiale, discontinua, ripetitiva, ma nondimeno, e paradossalmente solo per questa via, eterna, assoluta. D’altra parte, in modo quasi speculare, tutta la consistenza del mondo sembra giungere fino alle protagoniste soltanto attraverso mezzi strumentali tali da consentire loro di fruire esclusivamente di una esistenza di seconda mano. La radio le inizia alla Psychologie de la vie quotidienne (F 15), mediante un programma così intitolato; la radio trasmette la musica che le fa danzare un breve momento (F 20) e non manca, poi, di inquietarle con la minaccia della guerra (F 20, 22) : l’emittente contrappone insomma il fluire contraddittorio della realtà esterna alla staticità funerea (« ennui mortel » F 20) delle giornate passate nel bugigattolo.
Coerentemente con questa prima opera, in tutto il teatro di Abla Farhoud, rielaborazioni e stilizzazioni dell’azione verbale umana sono ricorrenti, talvolta per mezzo di strumenti atti a captare e riprodurre il linguaggio vocale, quali apparecchi di registrazione, talaltra tramite tutto ciò che enuclea e condensa la proferazione di parole, come gli aforismi e le citazioni, oppure di gesti, come i giochi di pazienza e i solitari. Nell’universo immaginario della scrittrice libanese, dove incombe l’ossessione di scenari tanto soffocanti e immobili da risultare rarefatti e irreali, queste cristallizzazioni agiscono da mise en abyme dell’azione drammatica e, al tempo stesso, sono l’unico punto di riferimento per edificare un reale riconoscibile. L’ipotesi sottesa sembra, perciò, essere quella che solo nel tempo differito (la registrazione di un messaggio orale o l’evocazione scritta di un evento), e nel tempo abolito (la ripetizione delle stesse frasi e degli stessi atti) si possa definire il proprio io e provare a dare un senso al reale in cui è calato.
Nella pièce Jeux de patience, tre donne libanesi sono chiamate a confrontarsi con l’assurdità della vita e della morte, e soprattutto con le parole e i silenzi dell’esistenza. Ancora una Kaokab – scrittrice questa – da trent’anni esiliatasi in Québec dove ha barattato il suo nome con quello più occidentale di Monique. Costei accoglie una cugina – anonimamente indicata fra i personaggi come La Mère – appena giunta dagli orrori della guerra libanese nella quale ha perso la figlia quindicenne, Samira, che pure è presente sulla scena come proiezione dei sentimenti delle due donne, delle loro domande, delle risposte impossibili, della storia che Monique sta scrivendo con grande fatica.
Monique/Kaokab[…] Je n’arrive plus à respirer. C’est mon pays d’enfance, moi aussi, C’est mon enfance, moi aussi. Mes pieds courent encore là-bas, sur la terre rouge. Je dois les couper à jamais ou les revisser à mon corps, si je veux vivre. Est-ce que tu comprends ? Je me protège pour ne pas mourir tout à fait, mais plus je me protège, plus je m’éloigne de ce magma de sang et plus je m’enfonce dans un magma imaginaire, dans un magma de mots. […] Je ne veux pas mourir pour rien. Je ne veux pas mourir avant d’avoir écrit. Je ne veux pas mourir avant d’avoir compris ! (J 51)
Scrivere per capire. Ma come riuscirci nella follia del mondo di cui il « magma de mots » è un sintomo prepotente? Nulla e nessuno è ormai identificabile attraverso i nomi propri: Kaokab l’ha cambiato per non sentirsi troppo diversa, e Samira l’ha fatto per non annullarsi nei troppi Salam suoi coetanei. Alla Mère, che non conosce ancora come si chiama il paese dove si è rifugiata, Monique fa notare che « Ce pays n’a pas ancore choisi son nom » (J 25). Bisogna, poi, districarsi tra le parole ambigue : « Innsèn, dans notre langue, ça veut dire humain et oublier, en même temps » (J 54) ; e quelle che annebbiano le capacità cognitive : « Trente ans de vie à l’étranger et tu dis encore noushkor Allah, merci mon Dieu, comme ceux qui voient le sang couler à côté d’eux et même sur eux. Quand ils peuvent encore respirer, ils disent noushkor Allah. Ils s’habituent au pire, et le pire finit par arriver parce qu’ils s’y habituent. » (J 28)
Fra un « mot de sucre blanc » (J 29) e un « mot exotique » (J 29), nell’incalzare di « expressions anciennes » (J 31) e di « mots rares » (J 37) si dispiega un’ipersensibilità linguistica da parte di Abla Farhoud tramite i suoi personaggi. Per dirla con Lise Gauvin, è quella tipica « surconscience de la langue »3 presente nelle scritture migranti, a sigillo della quale in quest’opera sta la dichiarazione faustiana di Monique/Kaokab : « j’ai emprunté une langue et j’ai prêté mon âme. » (J 39) A costei non resta che la scrittura, dunque, come esercizio di concretezza e chiarificazione:
Monique/Kaokab. On ne peut pas tout effacer et recommencer…Il faut continuer. Rentrer de plain-pied dans la fêlure et la transformer. De croire que je peux transmettre ma mémoire et la mémoire des miens est pure vanité… Il le faut pourtant…[…] Rentrer dedans et en ressortir… vivants…Écrire… pendant que je suis encore vivante… (J 76)
Nella terza opera teatrale di Abla Farhoud, Quand le vautour danse, il raddoppio dell’azione non si ha soltanto con un va e vieni fra il presente e il passato della vita dei protagonisti – la danzatrice e coreografa Suzanne e suo fratello Simon, affetto da turbe mentali – ma fra il testo di un’antica leggenda assiro-babilonese e la vicenda ambientata in epoca moderna. La Possession du Prince – favola tragica incentrata sulla vendetta della déesse Vautour gelosa dello straordinario affetto reciproco che unisce i fratelli Darios e Vénusia – costituisce il testo di fondo sia della coreografia che Suzanne sta approntando, sia di tutto il dramma costruito sul rapporto tormentato fra la donna e il congiunto segnato dalla malattia, nonostante l’amore che li lega. Il gioco di moltiplicazioni spazio-temporali, di linee spezzate e di battute d’arresto all’azione, che risulta dalla sequenza delle scene, è solidale dell’alternanza delle fasi schizofreniche del ragazzo.
Lo sfasamento fra il fatto e il detto (o l’indicibile) avviene anche qui non soltanto in virtù dell’antico testo narrativo riletto più volte dai personaggi, bensì si appoggia, una volta ancora, a uno strumento meccanico che collega i protagonisti, ma lo fa come un ponte sospeso sull’abisso di cui non si vede la riva opposta. Si tratta del répondeur con il quale la sorella tenta di arginare gli assalti del fratello durante le crisi, pur accogliendolo, per quella via mediata, nel suo privato e nella sua sofferta compassione sempre in bilico fra miraggi di eutanasia e di auto-annientamento. L’azione è scandita dall’apparecchio che trasporta, e traspone fra due contesti distinti, le richieste senza risposta dell’uomo, nei vari stadi del suo delirio.
Voix de Simon: Ton calice de répondeur, tu pourras te le mettre dans le cul. Maudite lesbienne, suceuse de pelote. Je comprends pourquoi y’a jamais un gars qui veut rester avec toi. T’es pas venue me porter l’argent. (V 15)
Voix de Simon : Danse. Danse. Tu oublies toujours que c’est grâce à moi, si t’es vivante aujourd’hui, c’est grâce à moi. T’auras juste à me jeter l’argent. (V 17)
Voix de Simon : Allô, Suzanne. T’aurais un peu d’argent à me passer ? Je sais que t’es là. Réponds-moi. J’attends… J’suis pas mal fier de toi, ma Suzy, on parle de toi dans les journaux. (V 41)
Ancora un décalage, un ulteriore tentativo di interrompere il flusso irrazionale della vita che, troppo spesso, incalza come un fiume in piena e non manca di travolgere con furia cieca. In quanto agli strumenti salvifici, essi sono, con coerenza, sempre gli stessi: isolare la parola e in un certo senso reificarla, fissarla quasi si intendesse studiarla in vitro. E, con quell’atto, scoprire l’antidoto al morso della vita. È quanto accade, pur in differita, nella quarta pièce di Abla Farhoud, Maudite machine, dove l’alterità, inquietante e spesso dolorosa, è proiettata definitivamente fuori dall’io. Accade, come se, dopo il caso estremo della schizofrenia di Simon, la difficoltà a esistere e comunicare con gli altri, trovasse un’imputazione esterna sulla quale operare con esorcismi e formule incantatorie.
Nel monologo Maudite machine – dove gli interlocutori della protagonista sono due missive, da lei medesima lette ad alta voce, e una segreteria telefonica – le parole sono nuovamente in primo piano come una realtà a sé stante, dotata del potere misterioso di condizionare il mondo, di sostituirlo addirittura. Tale è l’esperienza di Sonia Bélanger, pensionata di origine ucraina, addetta alla sorveglianza dei passaggi pedonali davanti alle scuole, la quale nella stessa giornata riceve due buste affrancate. La prima contiene il messaggio del compagno Tancrède, abituato a corteggiarla con teneri bigliettini poetici e naïfs, redatti in un linguaggio che incanta la donna: « Comment il fait pour trouver ces belles tournures-là? » (M 20) La seconda busta contiene una lettera che, ben altrimenti, provoca nella protagonista un’inquietudine difficile da controllare, anche se lei ripete a se stessa: « C’est rien qu’une lettre. Des mots. Des mots, ç’a jamais mangé personne. Y a juste les mots qu’on dit pas qui nous mangent, les mots qu’on dit pas qui nous grugent. » (M 23)
Parole pronunciate o parole taciute, il passato, il presente e il futuro sono esclusivamente edificati su di esse. La pièce è costituita infatti da un lungo riepilogo delle frasi che hanno segnato la vita di Sonia, come i consigli saggi della nonna, gli ordini secchi della matrigna, fino all’appropriazione di una frase-chiave con cui avvia l’indipendenza personale dall’egemonia del marito: « J’ai eu la force de dire: - Sonia, ça fera. Robert, ça va faire. - » (M 38) ; e oltre, verso la conquista della lettura come autetico spazio vitale : « j’ai appris à entrer dans le creux des mots et des pensées, à l’endroit même où quelqu’un nous reçoit dans son monde pourvu qu’on prenne le temps d’entrer. » (M 55) ; e soprattutto sino allo scrollarsi di dosso « le poids du silence » (M 85) sotto cui per anni viene soffocata la sua condizione di ragazza-madre sedotta e abbandonata, costretta a dare in adozione la bambina avuta dal figlio del proprio datore di lavoro. Ferite profonde lasciano le parole, quelle ascoltate e quelle vanamente sperate: Sonia soffre meno per gli insulti ricevuti dalla matrigna che per la freddezza laconica del padre, il quale pur conosceva tante belle poesie per consolarla : « Un poème qui arrive au bon moment, au moment où on en a besoin c’est un miracle. […] Un poème ça te fait voler dans les airs puis ça t’emmène dans un endroit où tu serais pas allé normalement par toi-même…» (M 61)
Dopo aver lasciato il marito, la donna si è messa alla ricerca di quella figlia, ormai grande e madre a sua volta. E ora sul tavolo sta la risposta di costei – nella seconda di quelle due lettere, infine aperta e letta – recante il consenso ad avviare un dialogo, ma a condizione che avvenga attraverso la corrispondenza scritta o la segreteria telefonica. Banché Sonia confessi a se stessa «J’haïs ça, parler aux machines! » (M 95), ella entra nel gioco della comunicazione differita, dove le due donne si parlano con domande-enigmi che, in quanto tali, aprono possibilità logiche a dismisura, concentrando tutta la realtà nel fatto di linguaggio: « Moi aussi, je vais t’en poser, une question. C’est une énigme qu’un grand sage hindou avait posée à ses élèves pour jouer. Qu’est-ce qui, pour chacun de nous, est inévitable ? Réponds-moi si t’as envie. Je suis là. » (M 96)
L’ultima tappa, per ora, del percorso teatrale di Abla Farhoud è rappresentata dalla pièce Les rues de l’alligator, che ci conduce fuori dalle stanze chiuse in cui si consumavano i drammi precedenti. Evadiamo, dunque, per percorrere strade animate, evocate dal titolo in associazione alla figura dell’alligatore, attinta dal Dictionnaire des symboles e spiegata in esergo come quella del «cosmophore ou porteur du monde ». La voracità di questo animale rimanda alla notte che divora il giorno con forza ineluttabile, pari a quella della « mort pour que revienne la vie ».
Il rapporto morte/vita costituisce, ancora, il tema centrale dei dialoghi fra i vari personaggi, soprattutto come misura degli affetti:
Sophie-Catherine : Est-ce que vous l’aimez ? (Sonia rougit. Ne répond pas.) […]
Est-ce que vous pourriez mourir pour lui?
Sonia : […] Je me suis rendu compte, tout d’un coup, comme une lumière qui s’allume, que s’il venait qu’à mourir, il me manquerait…[…]
Sophie-Catherine : Coralie, je l’aime, c’est ma sœur. Elle est morte depuis sept ans. (R 32-33)
Ècon la vita, però, che ci si misura in questa città la quale potrebbe essere Montréal, come viene indicato nelle didascalie, oppure « une autre ville où il y a quatre saisons », quelle dell’eterno ritorno. Ma come non smarrirsi nel divenire inarrestabile, nel fracasso del caos? La scommessa di Abla Farhoud a favore della parola-entità salvifica prosegue. Gli argini dell’alluvione vengono ricomposti dalle pietre di citazioni poetiche di Tobie Nathan, Pablo Neruda, Anne-Marie Alonzo, Anne Hébert, Gatien Lapointe e altri, dette da Blanche Villalobos « poète de la rue, performeuse » che esordisce, e fa esordire l’azione scenica, declamando: « Il me reste la parole/ pour ne pas mourir enterrée par le bruit. » (R 15)
Sonia Bélanger soprattutto, la ritrovata brigadière di Maudite Machine, attribuisce ad esse quel potere taumaturgico efficace a lenire le piaghe esistenziali e a contrastare la cosificazione della persona. L’agglomerato urbano, scala ridotta del mondo, si trasforma, in tal modo, da paese dei morti a « pays des mots », come lo sottolinea Pierre L’Hérault nell’introduzione alla pièce. Con la sua pervicacia, Sonia è il cuore della fiducia nel potere generatore e rigeneratore del linguaggio reso tangibile da una forma che lo fissi. Insistentemente chiede all’amico Tancrède delle belle frasi che la facciano star bene. E costui si prodiga generosamente attingendo alla sua vena lirico-popolare, come nell’esempio seguente:
Sonia: /…/ Hey, Tancrède, donne-moi donc une phrase avant de t’en aller.
Tancrède : … Si tu m’aimes pas ma belle Sonia, après un mois, c’est l’église ou la boisson, les lampions ou le bourbon. » (R 31-32)
L’interlocutrice principale di Sonia è Sophie-Catherine, una ragazzina che, avendo perso la sorella, vive nel senso di colpa per non esser morta lei in vece sua. Unica consolazione sono le letture fatte a una bambola che tiene sempre con sé. Per aiutarla in un momento di crisi, Sonia chiede anche a lei l’esercizio della parola: « Sonia: Va-t’en pas! Sophie-Catherine ! Donne-moi une phrase! Je t’en supplie, enferme-toi pas! Il faut parler, crier si tu veux ! » ( R 57)
Abla Farhoud mette qui in scena un vasto campionario di personaggi che ricoprono tutti, ciascuno a suo modo, la medesima funzione di sottolineare le virtù della parola demiurgica. La Femme au T-shirt, sulla cui maglietta è stampata la scritta; « Moi j’irai au paradis parce que de l’enfer j’en reviens», narra come quella frase indossata abbia generato una sequela infinita di incontri fortuiti, risoltisi in forti sodalizi per il fatto che individui estranei gli uni agli altri abbiano riconosciuto ciascuno la propria dolorosa esperienza in quel motto scritto sul cotone (Cfr. R 70-71).
Nella stessa direzione vanno l’esclamazione dell’ottimista da bande dessinée Monsieur J’adore, che a primavera constata gioiosamente: « On se met à s’apercevoir qu’on a des voisins, qu’ils sont pas tous morts pendant l’hiver…qu’ils savent même parler! » (R 47) ; o la soddisfazione dell’Homme soliloqui, che proietta sugli altri il proprio vizio fondamentale: « C’est phénoménal! Toutes ces personnes parlent seules, c’est phénomémal ! » (R 77). Costituite ugualmente di linguaggio sono le esistenze dell’Homme effacé, cui è necessario per sentirsi vivo l’archivio sonoro del proprio « babillard » (R 29), ora invece reso muto dalla compagna fedifraga mediante un sabotaggio che rischia di portarlo sull’orlo del suicidio. Oppure la vita programmata della Femme à la mallette, la donna in carriera che si esterna in una litania di frasi nominali, dettate forse a un qualche registratore microscopico con cui finisce per identificarsi : « Restructuration. Rationalisation. Coupure. Mondialisation. Globalisation. Coupure. Qualité totale. Informatisation. Re-engineering. Coupure. Timing. Opportunité. Compétitivité. Coupure. Avenir. Profil de carrière. Coupure. Évolution. Re-re-restructuration. Coupure. » (R 41)
A prescindere dalla pratica dell’intertestualità autoriflessiva e della serialità di situazioni e personaggi – segno piuttosto diffuso, peraltro, di una certa tendenza neo-barocca caratteristica delle lettere postcoloniali – un elemento, più sostanziale, della forte unità che struttura l’opera di Abla Farhoud è dato dalla costante ricerca delle vie e dei modi di edificazione della persona. Si tratta di un percorso di definizione dell’io, per allargarsi poi al mondo, che « fait penser à cette fameuse histoire de Lacan, le stade du miroir ». [Jacques LACAN, Écrits, Paris, Seuil, !966, p.186.]
L’ideatore del Séminaire – del cui complesso e articolato pensiero non pretendiamo di restituire qui neppure una minima parte – ci sembra offrire una griglia ermeneutica al teatro della nostra autrice con gli scritti del 1946, Propos sur la causalité psychique, [Cfr. ibidem, pp. 151-196.] e del 1949, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je. [Cfr. ibidem, pp. 93-100.] In questi studi, Lacan descrive lo stadio dell’evoluzione psichica del bambino fra i sei e i diciotto mesi – e dunque ancora immaturo sul piano dell’autonomia fisica – con la propria immagine riflessa dallo specchio. Nonostante che la sua unità neurologica e motoria siano ancora disgiunte, il bambino compie una cristallizzazione originaria dell’immagine speculare, « forme intuitive par laquelle le sujet accomplit la recherche de son unité ». È un processo possibile solo in quanto « l’enfant anticipe sur le plan mental la conquête de l’unité fonctionnelle de son propre corps, encore inachevée à ce moment sur le plan de la motricité volontaire. » Mediante l’anticipation, sostiene Lacan, il piccolo compensa sul piano della rappresentazione immaginaria il ritardo dell’unità che gli è ancora impedita sul piano psicomotorio. L’evidente soddisfazione che il bimbo ne trae, « l’assomption jubilatoire », è segno di un’identificazione, cioè della « transformation produite chez le sujet quand il assume une image ».
La teoria lacaniana dell’identificazione immaginaria, e dell’image-souche in funzione della quale il soggetto giunge a « se prendre pour soi-même » sale sulla scena con i personaggi femminili di Abla Farhoud. Nella loro condizione di esseri sommari e dissociati, la fase dello specchio si presenta al momento in cui affrontano la parola, meglio se una parola fissata dalla registrazione o dalla scrittura. Attraverso il linguaggio si compie la costituzione del loro io incerto o frantumato, operazione in cui l’immaginazione interviene funzionalmente, favorendo gli strati successivi di identificazione: quelli che Lacan chiama le « pelures d’identifications », laddove paragona il moi a un « oignon ».
Tutto passa attraverso il filtro – più o meno correttamente funzionante, e quindi possibile sorgente di dramma – di una dialettica immaginaria del rapporto con se stessi (e di conseguenza con l’altro). Kaokab-Narciso trova la propria immagine davanti al registratore, la vuole indistruttibile e soccombe proprio per l’eccesso di questo anelito; Monique/Kaokab combatte una lotta estenuante per entrare nello specchio stesso della pagina scritta e, intraprendendo un nostos anti-orfico, mira a salvarsi dal regno dei vivi che è l’autentico inferno dell’io e del mondo. La coppia androginica Suzanne-Simon, vittima di una specularità frustrata, alterna con aggressività autodistruttiva fantasmi senza fine di amore e morte. Il rapporto paranoico con il simile, attraverso la duplice registrazione della voce, nello scambio fra Sonia Bélanger e sua figlia, ha come enjeu il completamento dell’io-puzzle di Sonia stessa. Le costruzioni ideative della folla nelle strade dell’alligateur, erigono un universo tanto umano quanto guignolesco, messo in moto dalla dialettica immaginaria del rapporto con se stessi e con l’altro.
Data la nostra proposta di lettura dell’analogia fra lo specchio e la parola consegnata all’esteriorità, le situazioni delle donne nelle pièces di Abla Farhoud sono tutte rapportabili all’esperienza speculare, definita da Lacan come: « matrice symbolique où le je se précipite en une forme primordiale, avant qu’il ne s’objective dans la dialectique de l’identification à l’autre et que le langage ne lui restitue dans l’universel une fonction de sujet. » Da ciò deriva probabilmente il fascino di questa produzione drammaturgica, nonché il suo merito, che ci pare principalmente quello di aver portato le sue creature a ripercorrere a ritroso il cammino costitutivo della personalità umana. È un’offerta generosa della possibilità di riannodare il processo identificativo del sé derelitto a partire dai suoi momenti originari; è un invito a considerarne le piste, gli ostacoli, le cadute e le conquiste affinché ogni cosa possa avere il suo giusto valore e nulla vada mai più sprecato.
I giochi di pazienza, evocati dal titolo della seconda pièce – e leitmotiv in tutte le altre opere – sono, in prima istanza, la palestra in cui si applicano i personaggi di Abla Farhoud per sospendere il peso dello strazio esistenziale, in modo da ricostruire il puzzle della persona éclatée. Ma la vera grande prova solitaria di calma e riflessione4 risulta essere, in definitiva, la registrazione scritta o orale della parola. È l’epifania della « phrase-souche », più che dell’« image-souche », come possibilità di uscire dall’urgenza dell’evento e dalle sue spinte disorientanti, se non devastanti. In tal modo, mediante l’intervento dell’attività simbolica, e delle sue gratificazioni, si delineano infine i contorni di persone e accadimenti, per spaziare finanche verso l’utopia di valori assoluti. Tale sembra essere l’indicazione fornita dalla battuta conclusiva di Samira, fantasma dell’innocenza distrutta dalla guerra, nonché personaggio del romanzo in fieri di Kaokab/Monique : «La patience est la clé de la lumière…» (J 77)
Pour citer cet article :
Anna Paola Mossetto, « La pazienza delle parole nel teatro di Abla Farhoud», in Femmes de paroles, paroles de femmes. Hommage à Giorgio De Piaggi, Publif@rum, 3, 2006, URL : http://www.publifarum.farum.it/n/03/mossetto.php
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