Genericamente parlando, sul romanzo francese degli ultimi venticinque anni incombe il segno della “perdita”. Perdita dei modelli, perdita delle certezze e delle ideologie, perdita delle motivazioni: a questo senso diffuso di deperdizione fa da contrappunto l’aggrapparsi alle cose, ai luoghi, alle persone del passato, sia nel campo dell’immaginario o dello pseudorealistico, sia nelle varie interpretazioni della biografia e dell’autobiografia. Da Michon a Bon, da Juliet a Ernoux e altri, il passato è soggetto a rievocazione quando non a bilanci. E, per avvicinarci gradualmente al nostro soggetto, spesso e volentieri nella scrittura, viene sottoposta a dissezione la figura paterna. Perduto perché semplicemente defunto, perduto perché defunto senza essere stato apprezzato, perduto per aver preferito la fuga, il padre sembra il genitore che ha maggiormente inciso sull’autore e che anche, e per grande beneficio del romanziere, è diventato materia di scrittura e conseguentemente di pubblicazione. E che ne è della madre?
Scorrendo la ricca varietà delle “fictions singulières”1 di cui è costituito il panorama del romanzo francese della fine del ventesimo secolo e degli inizi del nostro, ci accorgiamo che la figura materna conserva ancora una valenza tutt’altro che marginale. Che rientrino nel genere dell’immaginario o nelle tematiche della biografia o dell’autobiografia, nel ricupero del comportamentale o nel “realismo” della “vita vissuta”, le madri appaiono qua e là più spesso di quanto ci si possa aspettare considerando la scrittura di una generazione che dovrebbe avere decantato la presenza di questa figura parentale, dopo anni di riflessione sul distacco generazionale, di terapie diffuse ormai a livello mediatico, di discorsi entrati nella convinzione collettiva. Sembra, invece, dai molteplici esempi che potremmo dare, che anche la madre, come il padre, sia ancora un problema in gran parte irrisolto per numerosi autori e di varia pratica scritturale.
Non possiamo certo, in questo breve spazio, proporre un’indagine a tappeto – che, pure, condotta in un futuro, potrebbe dare interessanti risultati -. Ci limiteremo a scegliere qua e là degli esempi che convalidino il sospetto, testé enunciato, di un rapporto complesso di certa scrittura dell’ultima generazione con la figura materna, andando a cercarli in generi scritturali di natura diversa, in quelle fictions eterogenee che, nella tendenza della narrativa francese contemporanea, si sono ormai definitivamente allontanate dagli schemi del romanzo tradizionale, pur rivendicandone le caratteristiche ontologiche e rivisitandone certi contenuti. Questo per precisare, se ce ne fosse necessità, che non si presume di indagare in una tematica nuova, ma di fare luce sul trattamento nuovo di una vecchia tematica. Un’ultima precisazione, per definire meglio il nostro campo: negli esempi riportati ci soffermiamo soltanto sulla “madre” vista dallo scrittore in qualità di figlio o di estraneo; non affronteremo l’altro versante, pure presente nella letteratura contemporanea, anche se in maniera minore, della “madre” che racconta se stessa.
Se nella mitologia condivisa «la mamma è sempre la mamma», la maggior parte dei romanzieri in questione non si allontanano da questo luogo comune per quanto riguarda il tratteggio delle proprie madri. Più si indaga nella biografia degli scrittori e meglio si comprendono le scelte fatte, anche stilistiche e linguistiche, per riprodurre sulla pagina del romanzo ( o del “récit”, se è il caso) la figura materna. Così, se si effettua un giro d’orizzonte in quelle pagine - certo non esaustivo ma abbastanza indicativo - alla ricerca delle madri, si riscontrano alcune costanti: per lo più legate al ricordo, alla restituzione, al tempo dell’infanzia. Il tono, la modulazione dell’espressione variano da autore ad autore, ma la sostanza è la stessa per la maggior parte di essi: non si tocca la propria madre. Così, Pierre Michon la colloca subito nell’incipit del romanzo autobiografico2 che gli ha aperto la strada della sua carriera di romanziere, Vies Minuscules 3. All’apertura del libro, fatto l’accorato accenno al padre “fuggiasco”: «on m’a parlé de l’un de ces hommes”4 la madre appare in primo piano, portando in braccio il bimbo felice, in una bella giornata d’estate «… ma mère sans doute est en robe légère, je babille5». La madre viene poi citata qua e là nel corso delle storie delle minuscole vite, per esempio nell’evocare il momento in cui l’autore viene messo in collegio; ma subito questa azione viene giustificata: «Ma mère me mit en pension à un âge ancore tendre; non par brimade: on en usait ainsi …6“. E infine, ha uno spazio un po’ più ampio, ma non di molto, a chiusura del libro, nella «vie» della sorellina morta. Più volte torna il ricordo dei momenti in cui la madre portava il piccolo nella propria stanza, e poi il ricordo del salvadanaio a forma di pesce che era appartenuto alla sorellina e che il piccolo Pierre aveva rotto inavvertitamente: «Ma mère pleurait en balayant les débris de faiance bleue qui plus jamais n’auraient de forme que dans sa mémoire, et la mienne7». In Vies Minuscules, la figura materna appare in filigrana: figura giovane, ritratta in gesti leggeri, appena accennati, semmai opposti a quelli dell’ “orbo”, il fuggitivo che l’ha abbandonata con il figlio piccolino.
Tuttavia, per rimanere ancora su Michon, l’immagine edulcorata della madre con in braccio il figliolo, rimane confinata in quel libro. Altrove, un’altra madre, anch’essa figlia della campagna, ma molto meno celestiale, opprime un altro figlio abbandonato, Vitalie Rimbaud, nata Cuif! :
On dit que Vitalie Rimbaud, née Cuif, fille de la campagne et femme mauvaise, souffrante et mauvaise, donna le jour à Arthur Rimbaud. On ne sait pas si d’abord elle maudit et souffrit ensuite, ou si elle maudit d’avoir à souffrir et dans cette malédiction persista ; … de sorte ( qu’elle) broyait sa vie, son fils, ses vivants et ses morts8.
Anche qui, una madre abbandonata dal suo uomo, diventato da subito «un fantome», una donna incombente «créature d’imprécation et de désastre»9.Giustamente gran parte della critica, e con essa il terzo di copertina del volume, si domandano dove sia la frontiera fra l’autore e l’eroe della biografia, quale sia il legame forte tra di loro e dove porre il limite tra il ritratto dell’altro e l’autoritratto. Comunque sia, e se quasi tutti i lettori critici sono d’accordo nell’affermare la parte della mimesi tra l’abbandono paterno e la vocazione dello scrittore in entrambi gli autori, viene spontaneo chiedersi perché Michon mostri in tutto il libro un tale accanimento nel tratteggiare la figura di Vitalie Rimbaud, née Cuif! Le cose cambiano, evidentemente, quando si tratta di parlare delle madri altrui, dove non fa più da freno inconscio, o “socialmente corretto”, l’attaccamento del “figlio alla madre”. Un libro che si apre subito, violentemente, sul nome della “madre” è questo Rimbaud, le fils: unanimemente la critica considera questa biografia interpretativa di Rimbaud come il luogo della ricerca del proprio padre, pagine nelle quali Pierre Michon traccia la personale privazione della figura paterna. A quella madre, qui, viene accollata la colpa della fuga paterna dalla propria responsabilità di genitore.
Non vogliamo aggiungere interpretazioni ad interpretazioni; ci basti mettere in evidenza la singolarità di questa variante della figura materna nelle due opere più evidentemente autobiografiche di Michon. Entrambi fortemente collegati al trauma della privazione della figura paterna – che è alla radice della narrazione, trasversale nella seconda opera, più diretta nella prima – i due récits tendono in parte a mettere “le cose a posto”, a dare a ciascuno il suo, a decantare le colpe: quale delle due versioni materne sarà situata nella memoria più profonda?
Lambeaux, di Charles Juliet10, altro romanzo autobiografico, è un esempio particolarmente illuminante per illustrare quella parte della nostra tesi che sostiene l’intangibilità della propria madre. Ultimo figlio di una poverissima famiglia contadina, l’autore, appena nato, perde la madre internata in un ospedale psichiatrico, e non avrà mai la possibilità di rivederla. Viene accolto in un’altra famiglia contadina, da un’altra donna che gli fa da seconda madre. Il libro, che non ha alcuna indicazione di genere, è diviso in due parti, di cui la prima è una ricostruzione immaginaria della vita, dell’aspetto fisico, dei sentimenti, del comportamento della madre mai conosciuta e della sua deriva mentale, sopraggiuntale dopo la nascita di Charles, ultimo di quattro figli. Il racconto è fortemente romanzato, né il narratore ci riferisce le sue fonti; ne consegue una prosa poetica, fortemente coinvolgente per il lettore, che partecipa emotivamente alla ricostruzione11: « Te ressusciter. Te récréer. Te dire au fil des ans et des hivers avec cette lumière qui te portait, mais qui un jour, pour ton malheur et le mien, s’est déchirée 12» è il compito, l’operazione pietosa che il narratore è spinto a fare con la scrittura, come se compisse una seconda tumulazione volta al riscatto della figura materna di cui è stato deprivato, un rito purificatorio rivolto allo spirito di colei che non ha conosciuto commemorazione alla propria sofferenza e alla propria dipartita dal mondo. Dalla ricostruzione immaginaria esce una madre che avrebbe potuto essere una figura fulgida se le circostanze esterne, la povertà, l’ignoranza e la tragedia della guerra, l’avessero consentito.
La seconda parte del libro traccia i ricordi dell’infanzia dello scrittore, della sua adolescenza in un collegio militare, dei suoi primi esperimenti di scrittura. Infine della difficoltà di portare a compimento quello stesso scritto sul quale sta lavorando ormai da lungo tempo.
La stessa difficoltà che ha la scrittura a confrontarsi con il ricordo del rapporto con i genitori è presente in Annia Ernaux. La presenza materna in un libro come La Place13 dichiaratamente vòlto a restituire la figura paterna, fa soltanto da indispensabile contrappunto. Il romanzo, autobiografico, rievoca gli anni dell’adolescenza della protagonista, passati ad Yvetot in Normandia, figlia di genitori di origine contadina elevatisi poi alla piccola borghesia per merito della madre che convince il marito, mezzo operaio mezzo commerciante, ad aprire un piccolo smercio di alimentari con annesso bar. Con la complicità con la madre, carattere peraltro poco comunicativo, la narratrice porta a termine i suoi studi e diventa insegnante. La narrazione del passato inizia dal ritorno della figlia al paese natale per assistere alle ultime ora del padre: è un momento forte, in cui la narratrice effettua il doloroso passo di perdonare e di perdonarsi. Perdonare ai genitori di essere stati quello che erano, dei contadini diventati piccoli borghesi di infima cultura, e di perdonare se stessa per aver avuto vergogna delle sue origini. Centrato sui rapporti della figlia con il padre, questo libro lascia un ruolo secondario alla madre, ruolo che tuttavia è tutt’altro che marginale. Appare all’inizio del libro, in cima alle scale che portano dalla sala del caffè all’abitazione per annunciare la morte del padre ed è subito compresa nel suo ruolo di vedova, sa dire le cose giuste convenienti alla circostanza, si comporta come il suo ambiente vuole, per scomparire poi per parecchie pagine. La si ritroverà brevemente nella rievocazione della sua giovinezza, poi più avanti nel suo ruolo di sposa; nel ruolo materno appare soltanto, in un breve paragrafo verso la fine del libro, per marcare la distanza che separa le due donne dall’uomo di casa, diventato di giorno in giorno più irascibile e permaloso.
Une complicité me liait à ma mère. Histoire du mal de ventre mensuel, de soutien-gorge à choisir, de produits de beauté : Elle m’emmenait faire des achats à Rouen, rue du Gros-Horloge, et manger des gâteaux chez Périer avec une petite fourchette. Elle cherchait à employer mes mots, flirt, être un crack, etc. 14 [
Il legame appare piuttosto come uno sforzo unilaterale, compiuto dalla madre per avvicinarsi ad una figlia che sente di giorno in giorno più lontana.
Con Une femme15, Annie Ernoux centrerà il tema in un’operazione scritturale di cui, all’interno del testo, l’autrice specifica più volte sia il percorso, sia le finalità: «….j’écris sur ma mère pour, à mon tour, la mettre au monde16”, può essere una buona motivazione, come la volontà – anche se discutibile - di inserire il ricordo della madre nel contesto sociale di cui vuole essere fatta apparire come figura paradigmatica, «…j’essaie de ne pas considérer la violence, les débordements de tendresse, les reproches de ma mère comme seulement des traits personnels de caractère, mais de les situer aussi dans son histoire et sa condition sociale»17.
Il rapporto tra progetto e sua realizzazione nella scrittura vacilla talora, e la scrittrice non riesce sempre a scindere la “biografia” della donna, la femme del titolo, dalle proprie sensazioni alla rievocazione della figura materna. Confusione di metodo trascurabile in un testo che non si pretende scientifico, ancorché non definito da alcuna indicazione di genere, e facilmente riconducibile a quelle fictions definite, con ottimo neologismo, delle“autoscriptions”18. Detto questo, la figura materna che traspare nel testo, amplia la silhouette accennata in La Place, donna forte e volitiva che tiene le redini di casa e decide per sé e per il marito, grande lavoratrice. Coerentemente istallata nel contesto del suo piccolo paese di provincia, aspira tuttavia ad offrire una condizione sociale migliore alla figlia, creando, con questo desiderio, un conflitto inevitabile fra la famiglia e l’adolescente. La differenza di comportamento fra i suoi e i genitori delle altre ragazze del pensionato “bene” in cui la ragazza viene messa, il gergo regionale usato dai genitori e il linguaggio delle classi più elevate che essa frequenta, l’ansia che la madre dimostra per il futuro della figlia e per il suo comportamento quotidiano - gli interdetti e i tabù sessuali - diventano occasioni di conflitto per entrambi, e di insofferenza per la ragazza: « À l’adolescence, je me suis détachée d’elle et il n’y a plus eu que lutte entre nous deux»19.
Il cambiamento, che inevitabilmente percepisce nella formazione della personalità e nel comportamento della figlia, portano la madre a vedere questa quasi come una nemica; la scrittrice giunge addirittura a parlare di conflitto sociale: «À certains moments, elle avait dans sa fille en face d’elle, une ennemie de classe»20.
Se la prima parte del libro tende a dare una biografia della donna, l’ultima tende invece a vedere la madre con l’occhio della figlia, divenuta adesso madre a sua volta, consapevole di una responsabilità di giudizio più matura, che l’aiuti a superare i risentimenti accumulati nell’adolescenza. Come per l’operazione di purificazione effettuata nel libro sul padre, La Place, lo scritto verterà da questo momento in poi a unire la descrizione del declino fisico della madre - finirà malata di Alzheimer- con l’angoscia della figlia alla vista di questa regressione.
Non è ben chiara la presunzione dell’autrice di trattare a livello di paradigma il gap sociale che essa ha risentito e vuole mettere in evidenza come costante in un salto di classe. Altri figli di ceto umile, raggiunta una posizione più elevata, possono aver accettato con serenità il comportamento dei genitori, il loro livello di istruzione minore, il loro provincialismo; possono anche aver espresso riconoscenza per i loro sforzi. Detto questo, i due libri di Annie Ernoux hanno tuttavia il merito di approcciare in maniera critica la rievocazione parentale, nella fattispecie la rievocazione del suo rapporto con la madre.
Per finire la nostra succinta panoramica nel sottogere dell’autoscrittura con un altro esempio, preso da tutt’altro ambiente sociale e in un contesto specifico, passiamo a Mes Parents [Paris, Gallimard, 1986] di Hervé Guibert. In questo libro, nessun intento “politico”, ma una lucida discesa negli inferi del rapporto figli/genitori. Secondo le indicazioni che dà egli stesso, l’autore ha ventinove anni, all’inizio della stesura di questo testo, ed è già autore affermato, avendo pubblicato fino ad allora XXX libri di narrativa. Dichiaratamente autobiografico, eminentemente centrato sulle figure parentali del padre e della madre, in realtà lo scritto rievoca l’infanzia e l’adolescenza di Hervé, i primi approcci alla sua omosessualità, fino ad arrivare ai giorni stessi della scrittura che coincidono con la malattia della madre, operata al seno per un carcinoma. In quel contesto, i genitori vengono descritti in maniera che rende evidente, da parte dell’autore, quel comportamento, identificato la presenza di una “bipolarità” in alcune “parti” dell’individuo21. La dualità che deriva da tale comportamento si palesa, nella pagina, con l’espressione di un sentimento di odio e di amore che è rivolto al padre come anche alla madre.
Entrambi i genitori, piccolo borghesi, gente effettivamente non eccelsa in moralità, vengono tratteggiati in maniera impietosa, i sentimenti palesati dallo scrivente vanno dal disprezzo, all’odio, fino al desiderio di eliminarli o, perlomeno, di vederli entrambi morti. Se il padre, veterinario, piccolo funzionario dell’ufficio comunale d’igiene, opportunista, ricattatore della famiglia e avaro, ne esce demolito, alla madre, intrigante, altrettanto opportunista e mediocre casalinga non viene dato un ruolo migliore. Il ritratto migliore, se così si può dire, è dato nella descrizione della sua nullità. Al ristorante della pensione tutto compreso dove la famiglia va in villeggiatura, la madre è tutta presa dal suo ruolo preferito:
Le plus beau moment de ma mère, c’est quand elle se trouve au restaurant, juste après la confusion des commandes des plats et avant qu’on apporte ce vin rosé qu’elle aime tant, elle a sa progéniture sous ses yeux, elle vérifie sa propreté, elle corrige une mèche, et puis elle s’oublie un instant,elle pose ses deux coudes de claque côté de son assiette et ses deux mains l’une sur l’autre sous son menton, elle sent monter en elle une grande distinction, elle est heureuse, elle vit son éternité 22
Un altro tratto distintivo della madre sono gli svenimenti strumentali che esegue nelle circostanze difficili, come all’annuncio fattole alla stazione dalla figlia di essere incinta, o la dichiarazione che le fa il figlio della propria omosessualità. «Alors ma mère refeint en poussant un cri d’horreur cette mauvaise scène de l’évanouissement qu’elle avait tentée sur le quai de la gare pour ma sœur 23» L’annotazione impietosa nella scrittura toglie ovviamente alla relazione di quelle occasioni ogni parvenza di obiettività! Ma la tensione della bipolarità si rivela in altri passi che raggiungono talora il momento lirico, altre volte la disperazione dell’individuo diviso in due. Una scena esemplare è il ricordo di un foto che il figlio tenta di fare alla madre. Il padre ha comprato un apparecchio fotografico e il figlio chiede di essere lasciato solo con la madre per fotografarla: la donna viene messa in posa: «Elle est assise dans la lumière, je tourne autour d’elle et c’est un moment d’amour et de plénitude, qui arrête le temps, comme si nous valsions ensemble dans ce grand salon inindé de clarté»24. Purtroppo la pellicola è stata messa male nell’apparecchio e la foto non è venuta: di quel momento magico rimarrà traccia soltanto nella scrittura: « …nous savons de toute façon que nous ne pourrrons jamais rejouer cet épisode, qu’il a déjà pris la pesanteur impuissante du regret, Et que cet image fantôme se tend désormais vers autre chose que l’image: vers le récit25”.
Più avanti nel testo, la scrittura che riferisce della malattia e dell’operazione della madre si modifica e altera anche nella struttura: le frasi sono brevi, i paragrafi corti, i sentimenti sono espressi con ira intollerabile, «Le visage de ma mère bouffi par le cortisone, un peu comme une tête de dogue ; je la hais tellement26 ».
E subito dopo un altro brevissimo paragrafo : «Dégoût pour la lettre de ma mère, que je déchire aussitôt. Mais j’ai peur de devoir en chercher les morceaux dans la poubelle à mon retour de voyage 27».
Gli esempi potrebbero concludersi con quell’inno all’odio, una litania che inizia con il verbo «je hais», l’odio verso quello che i genitori sono, verso quello che fanno, verso come si comportano, verso lo sforzo che la madre fa per continuare a vivere: «L’exaspérante et louche vitalité de ma mère, malgré ses deux seins rognés, et que seule la mort pourra faire taire».. E, nello stesso tempo, l’odio per quello che gli sembra aver ereditato da loro, la bruttezza e la meschinità nella quale hanno vissuto la loro vita. Nelle ultime pagine appare la disperazione dell’autore che si accinge a scrivere le pagine di Mes parents: «…un roman qui commencerait ainsi: Maintenant que mes parents sont morts, enfin (mais je mens), je peux bien écrire tout le mal que je pense d’eux ou que j’ai pensé d’eux, en priant seulement le ciel de ne me jamais donner fils aussi ingrat et malveillant 28».
In questo testo autobiografico, molto simile alla ricostruzione di un diario adolescenziale, per quanto il lettore possa rimanere scosso dalla violenza delle espressioni, il sentimento di rifiuto è tuttavia comprensibile e accettabile: lascia una certa perplessità, invece, l’operazione di rievocazione effettuata da uno scrittore che, non essendo più in età adolescenziale, avrebbe dovuto aver rimosso i suoi problemi, o, per riprendere il linguaggio gestaltico, avrebbe dovuto ormai aver riunito le parti opposte della sua personalità. Indubbiamente, l’uso di tale materiale in ambito di un’opera che, comunque, risulta letteraria rientra nelle tendenze del panorama del romanzo francese contemporaneo, e l’esistenza di questo genere di scrittura va vista come l’espressione del disagio e della di perdizione a cui è stato fatto cenno all’inizio del nostro lavoro. Tre anni dopo la scrittura di questo libro, l’autore saprà di essere ammalato di AIDS, e nell’ultimo suo libro %%%% riapparirà qua e là traccia, ma adesso in filigrana e in tono amorevole, della figura materna.
Con gli esempi finora illustrati mettiamo fine all’escursione nel genere autobiografico, e passiamo a tutt’altro approccio scritturale, con un autore che si disinteressa dell’aspetto psicanalitico del comportamento individuale e volge piuttosto la sua tematica al comportamento psichico dei gruppi sociali. Passiamo a François Bon che tratteggia un’interessante figura materna nel personaggio della madre nel suo L’Enterrement. Ritornato nel suo paese natale per assistere al funerale del suo amico, morto suicida pur sentendosi ormai estraneo alla vita e alle usanze del luogo, il narratore passa tuttavia l’intera giornata nel paese, assistendo alla cerimonia funebre, seguendo il feretro assieme alla gente del villaggio, prendendo parte alla cena funebre. Fa allora rivivere sulla pagina i personaggi della vicenda, i comportamenti dei singoli, le loro reazioni alla situazione contingente: fra questi, la madre del morto, al centro del gruppo riunitosi nella casa, che accoglie i visitatori e riserva una particolare attenzione all’ “amico del figlio”. La donna, di estrazione contadina o piccolo borghese di un paese contadino appare vicina al personaggio della madre in La Place, di Annie Ernaux, per il comportamento formale, ancorato alla cultura della provincia, preoccupata del giudizio che può esprimere su di lei l’ambiente, i vicini, i famigliari, attenta a fare ciò che “si deve fare”, a dire ciò che si deve dire nella specifica circostanza. Questo testo, ancorché non possa essere considerato come un’autobiografia, ma piuttosto come il ricordo di un episodio vissuto in qualche modo legato alla riflessione su se stesso, è particolarmente interessante per il nostro discorso, in quanto lo scrittore tratteggia qui, con occhio critico, il comportamento di un ambiente in un rituale specifico, in cui “la madre” si inserisce come elemento sociale
Una scrittrice che ha varcato sia il luogo comune, sia il comune e scontato rapporto conflittuale con la madre è Marie NDiaye. Le madri, che circolano numerose nei suoi romanzi, rispecchiano una riflessione ardita sulla figura materna (come, del resto è ardito il tratteggio di entrambe le figure parentali). Ad eccezione della «sorcière” Lucie, protagonista dell’omonimo romanzo29, donna dedita alle due figlie che, diventate adolescenti la sfuggono con ogni mezzo, persa nei ruoli di madre mancata e di figlia mancata, personaggio perdente su ogni piano, alla ricerca di uno sbocco al suo fallimento, le altre figura materne appaiono quasi tutte chiuse nel loro egoismo, nella ricerca del proprio benessere, indifferenti ai sentimenti, alle difficoltà esistenziali, al destino stesso dei propri figli. In una scrittura che sfrutta l’inverosimile in La Femme changée en bûche30, il fantastico e l’onirico in En famille31, il realistico iperbolico in Rosie Carpe32, Marie NDiaye scende nel profondo di una ricerca analitica vòlta a liberare l’individuo,( nello specifico, la donna) , sia dal peso del retaggio materno, sia – e questo è nuovo e più coraggioso – dal peso della maternità.
Il punto di partenza è il fallimento della «sorcière”: donna tollerante, madre tenera, Lucie sopporta con pazienza la sua condizione di donna di casa piccolo borghese, l’ambiente umile, la quotidianità ripetitiva e frustrante. Dotata dei poteri soprannaturali che ha ricevuto dalla madre e ha trasmesso alle figlie, la veggente non sa tuttavia trarre vantaggi da questo suo dono, perdendosi nel dispiacere causato dalla separazione dei due genitori, dalla fuga del marito, dall’abbandono che le figlie le fanno subire. Un accenno a quello che saranno gli sviluppi delle figure materne nei romanzi successivi è riscontrabile nell’amica di Lucie, l’emancipata Isabelle che a mala pena sopporta il figlio, mentre aspira a costruirsi una vita più gratificante. L’immagine ricorrente è quello di una Isabelle che si tira dietro il figlioletto non desiderato, scuotendolo e trascinandolo per il braccio, come se fosse un oggetto inerte e ingombrante. Isabelle finirà per mettere il piccolo in un collegio e potrà dedicarsi, così, ad una professione redditizia, anche se poco edificante. Il personaggio di Isabelle, figura che attira Lucie, per la sua sicurezza, racchiude nel suo comportamento i germi dei due temi nei quali Marie NDiaye di addentrerà, trattandoli nelle loro varie sfaccettature, nei suoi romanzi successivi: il tema dell’abbandono e il tema del rifiuto.
L’abbandono è la sorte che tocca a Fanny, la protagonista di En Famille, la ragazza che cerca disperatamente le sue radici familiari. Finiti gli anni dell’infanzia, la madre la trascura sistematicamente, sfuggendola in ogni occasione in cui la potrebbe incontrare. Il distacco è volontario, addirittura fisico, poiché la madre di Fanny parte costantemente in viaggio. Similmente abbandonati sono Rosie e Lazare, la sorella e il fratello in Rosie Carpe. Appena si accorgono che i due ragazzi non seguono i programmi di vita che essi avevano fatto per il futuro dei loro figli, e che non sembrano voler perseguire la loro condizione sociale, i genitori si sentono il diritto di disinteressarsi del loro destino. Anzi, questa disobbedienza diventa per loro un ottimo pretesto per pensare solo al loro interesse, così come Isabelle aveva già tranquillamente fatto in La Sorcière.
Il rifiuto è una variante del comportamento precedente, più forte, in quanto accoglie il concetto dell’abbandono violento e, al limite, dell’eliminazione. Se Isabelle rifiuta il figlio, abbandonandolo in un collegio, la narratrice della prima parte di La Femme changée en bûche giunge addirittura ad eliminare il figlioletto Bébé, facendogli indossare un vestitino incendiario, donatole dal Diavolo. Il romanzo è nell’ambito dell’inverosimile del racconto fantastico ( oppure anche onirico), e la figura femminile, la narratrice protagonista che, nella seconda parte viene identificata con Esmée, la futura sposa che vive i preparativi del suo matrimonio, ha un rapporto privilegiato con il Demonio, suo primo datore di lavoro. Tornata a visitarlo dopo la nascita e l’eliminazione di Bébé, nella speranza di riprendere il suo ruolo di segretaria prediletta, la narratrice ritrova un Diavolo deperito e decaduto che non le è più di nessun aiuto. La struttura complessa del romanzo, il tono tra il fantastico e il ludico tolgono alla storia del bimbo portato all’incenerimento il suo aspetto drammatico per non dire atroce: in definitiva l’evento rientra nell’irreale e acquisisce soltanto una valenza metaforica. Ciò non ne attenua, tuttavia, il significato forte: la totale indifferenza della madre a sacrificare il neonato se questo può servire – come è il caso nella narrazione – a punire il padre del figlio.
Un rifiuto analogo, anche se motivato da ragioni differenti, è quello che spinge Rosie, in Rosie Carpe, a lasciare senza cure il figlioletto Titi, nato da una violenza che lei stessa non ha compreso appieno. Intossicato dall’assunzione di veleno per topi, Titi viene abbandonato febbricitante sotto il sole tropicale dalla madre, che se ne va in giro con le amiche. Il piccolo sarà poi salvato dall’intervento di altre persone, senza che Rosie si preoccupi di conoscerne la sorte, tanto che, fino alla fine del romanzo, sarà creduto morto.
La deriva della figura materna si colloca, in questi romanzi di Marie NDiaye, nella deriva generale della famiglia. Lucie e Fanny sono figlie di genitori separati, Rosie e Lazare di una coppia egocentrica e miserabile in tutti i sensi. Nella crisi di coppie inesistenti, di padri in fuga, di donne che esecrano la loro condizione e il loro ruolo nella famiglia in un ambiente di piccola borghesia, le madri non si salvano dalla deriva generale. Anche loro rientrano nella condizione di malessere e di incertezze che incombe sul loro mondo. Spesso madri non per scelta propria, ancorché non vittime di violenze, comunque consapevoli dell’ingombro causato dal figlio al loro riscatto dalla propria condizione, concentrate sul proprio io, queste figure vengono tratteggiate dalla romanziera nella loro semplicità, senza attenuazioni o eufemismi, né la scrittrice si permette giudizi o accuse su questi comportamenti che appaiono perversi, ma pur sempre riscontrabili nella realtà. Semmai lo stile leggero del linguaggio, la tendenza allo sguardo obliquo del racconto fantastico o onirico, la tendenza al sottile umorismo tolgono alla cruda realtà ciò che può avere di sconveniente alla sensibilità convenzionale del lettore comune.
È ovvio che l’estrapolazione della figura materna dal contesto tematico complessivo dei romanzi di Marie NDiaye può alterarne il senso33. In effetti, la figura della madre « perversa », rientra nel contesto della famiglia « perversa » : luogo del controllo sull’adolescente, luogo del rifugio negato, luogo dell’abbandono, la famiglia esiste soltanto per dominare e per esercitare la violenza. La romanziera inserisce questo tipo di figura materna in un contesto che la giustifica, per lo meno come diretta conseguenza del suo ambiente, dove non vi sono né carnefici né vittime, ma esseri incapaci di assumersi le proprie responsabilità.
Un’indagine a volo d’uccello come questa non ha altra finalità se non di evidenziare la presenza di un elemento tematico ricorrente nel contesto della scrittura francese contemporanea: non abbiamo quindi la presunzione di giungere a conclusioni o a catalogazioni o tanto meno a commenti extraletterari.
Pour citer cet article :
Rosa Galli Pellegrini, « La mamma è sempre la mamma. Figure materne nel romanzo francese degli ultimi venticinque anni », in Femmes de paroles, paroles de femmes. Hommage à Giorgio De Piaggi, Publif@rum, 3, 2006 , URL : http://www.publifarum.farum.it/n/03/galli.php
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