La vita di ogni uomo e di ogni donna si dispiega all’interno di continue opposizioni, che possono essere lette come conflitto tra due diverse appartenenze, una alla dimensione del limite, l’altra alla dimensione dell’illimitato.
L’esperienza del limite, il contatto con la contraddizione rappresentano la soglia stretta del dolore, attraverso cui si consolida l’esperienza di Simone Weil, filosofa e scrittrice, il cui pensiero ha un che di unico nella storia del sapere umano. Il suo è un difficile cammino a ritroso, un’azione costante di resistenza, a quella che le appare follia della cultura contemporanea, follia dei rapporti, follia della vita privata: la mancanza di misura, la perdita del limite. Rifiutando di dare forma alla sua scrittura, immettendo nei termini del discorso filosofico i dati della sofferenza di una individualità che non può ridursi a nessun universale, del dolore che non può divenire concetto, della passione e della sopravvivenza che stanno al «limite» di ogni umana possibilità, tutta la sua vicenda si colloca ai margini delle nostre categorie interpretative.
La libertà e il coraggio: queste le sfide che si possono rivivere attraverso i suoi scritti, in buona parte dedicati al pensiero sociale: La condition ouvrière, Oppression et liberté, Ecrits historiques et politiques, L’Enracinement, Ecrits de Londres et dérnières lettres. Tale produzione ha come tema dominante l’analisi della nozione di forza e di violenza nell’indagine dei fenomeni sociali, che ponendo in discussione il senso della vita e i fondamenti della realtà, conduce ad accogliere l’interrogazione sul ruolo dell’individuo nell’universo, la sua speranza, la sua disperazione. Interrogazione che scuote la coscienza, per darle il sentimento della sua ineluttabile ed estrema solitudine, nel ricercare una risposta che non può non appartenere alla propria spiritualità.
Se l’identificazione con questa donna risulta quasi impossibile, perché la sua persona, la sua vita, la sua azione sono così eccezionali e inconsuete da apparire terribili, una continua identificazione si dà, di fatto, con le sue esperienze immediate, le sue lotte, la sua sofferenza, da cui si traggono riflessioni, che sanno illuminare altre lotte e altre sofferenze. Progressivamente le distanze e il distacco che la sua diversità impongono si mutano in ammirazione e rispetto per il suo genio. Eppure quel sentimento ineguale, di simpatia e profonda adesione, ma anche di inquietudine che molti provano nei confronti della sua opera e delle sue scelte di vita, sono forse il segno più evidente di una difficoltà, tuttora viva, a comprendere unitariamente il percorso intellettuale o spirituale, a superare cioè quella divaricazione «di letture» che a suo tempo ne furono proposte, quando si cominciò a pubblicare i suoi scritti. I tempi e i criteri seguiti nella loro pubblicazione dal ’47 in poi hanno, di fatto, favorito uno sviluppo settoriale della critica, scoprendo il pensiero politico e sociale, quando già le prime pubblicazioni avevano consolidato l’immagine di una nuova mistica.
Dans la pensée de Simone Weil, tout est solidaire: les thèmes en sont liés d’une façon si serrée qu’il n’est guère possible de les isoler vraiment les uns des autres. Ce qu’on peut appeler chez elle une philosophie et même une mystique du malheur et de l’échec, les chapitres précédents l’ont déjà esquissé. Il n’est cependant pas inutile d’y revenir pour systématiser un peu cet aspect de sa pensée : c’est toujours la même étoffe, mais on en comprendra mieux le tissu en le prenant en quelque sorte par la chaîne après l’avoir pris par la trame1.
Resta aperta la questione di come si sia formata la sua personalità: naturalmente non nasce nel vuoto intellettuale né nel deserto sociale; ha alle spalle una famiglia ebrea laicizzata, cosmopolita e altamente intellettuale, dai gusti sociali e culturali raffinati2. Il famoso saggio di Veblen sulla superiorità degli ebrei nell’Europa moderna è certamente interessante, ma non esaurisce il problema. Veblen, delinea una connessione significativa fra l’esclusione della saggezza convenzionale e quindi anche l’autonomia rispetto al «controllo sociale» di una comunità relativamente omogenea e chiusa, da una parte, e la spregiudicatezza morale e intellettuale, dall’altra.
Sembra che solo quando l’ebreo specialmente dotato fugge dall’ambiente culturale creato e sviluppato dal genio particolare del suo stesso popolo, solo quando crede nel territorio straniero della ricerca dei non ebrei e diviene naturalizzato, acquista la posizione che gli spetta come capo creativo nell’impresa mondiale della conoscenza. È attraverso la perdita della sua fedeltà, o quanto meno attraverso una lealtà divisa rispetto al suo popolo d’origine, che egli si trova nell’avanguardia della ricerca scientifica moderna (…); il primo requisito per un lavoro costruttivo nella scienza moderna è una mentalità scettica. Solo sullo scetticismo intellettualmente attivo si può contare per far progredire la conoscenza scientifica. Si troverà che ciò è vero nel campo delle scienze moderne e in generale negli studi a livello critico3.
Se si pensa alle remore e alle difficoltà filosofiche di Simone Weil, perennemente ferma sulla soglia di ogni chiesa dogmatica, mistica di tutte le religioni, ma non legata a nessuna in particolare, aperta a tutti i venti dello spirito, dall’antica Grecia alle Upanishad e al Vangelo, sembra evidente che la connessione ipotizzata da Veblen abbia una sua consistenza. Simone costruisce la sua personalità in rapporto alla differenza, differenza radicale nei confronti del mondo e della società che la circonda. E forse in ciò è da ricercarsi il senso più profondo del suo essere ebrea4.
Senza mai rinunciare ad aprirsi il varco con le armi rigorose della storia e del pensiero, e avanzando, anche nei più accidentati territori del misticismo, sempre ben salda sui piedi nudi della ragione, giunge a identificare, al culmine di ogni razionalità, la conoscenza soprannaturale con l’amore e a vedere al tempo stesso il dissidio insanabile tra Bene e Ordine sociale. Indagando nell’umano con i medesimi strumenti adoperati dagli scienziati coglie, al di là del molteplice, l’identità ultima del tutto, e convalida il principio pitagorico dell’armonia, della contraddizione superata che si ritrova nell’immagine della Croce, della Trinità, e nel concetto centrale di metaxu5 Una antesignana dunque, se si pensa alla crisi in cui, oggi, si dibatte il modo tradizionale di teorizzare la separazione tra mondo dello spirito e scienze della natura.
Un’esigenza di verità determinerà l’orientamento di tutta la sua vita. Qualunque sia il prezzo da pagare o le sofferenze fisiche e morali da subire, è sempre volontariamente e in piena coscienza che Simone persegue infaticabilmente il cammino sulla difficile strada della verità. In questa lenta e interminabile ascesa supera ogni tipo di difficoltà, il corpo soffre penosamente, ma la volontà la sostiene. Sperimenta in sé l’opposizione tra la portata infinita del pensiero e i limiti del corpo, e individua proprio nell’essere limite del corpo la sua carica di positività, il suo effetto benefico sul pensiero. Malattia, sofferenze, affaticamento, bisogni, morte sono limiti che scandiscono un ambito di possibilità reale, dal quale non si può prescindere. Il corpo è interamente soggetto alla forza di gravità, tende quindi al basso, ma questa sua peculiarità costituisce l’unico punto di contatto tra l’infinito cui aspiriamo e il finito che siamo. Cerca è vero, di portare il corpo al limite delle sue possibilità (lavora in fabbrica fino al punto in cui la stanchezza arriva ad impedirle l’esperienza del pensiero; non smette la sua attività, materiale e intellettuale, nemmeno nei momenti di grande sofferenza fisica), ma non ha fiducia nei suggerimenti che dal corpo le provengono ed esso sembra apparirle piuttosto un ingombro, incapace di darsi spontaneamente delle regole, tendente all’eccesso, quindi da arginare, controllare, dominare. L’agire umano induce l’uomo a perdere di vista il proprio limite esistenziale, la propria finitezza spazio-temporale. L’uomo è così spinto, a ritenere le sue opzioni come proprie di uno stato di illimitatezza, dimenticando che esse esprimono solo un modo di essere della necessità. Assume, dunque, in sé la contraddizione di sottoporre il corpo a una disciplina ferrea e costante, per trasformare in esperienza concreta, vissuta nell’interezza di corpo e pensiero, la sua tensione alla verità. La sua unica regola: obbedire alla verità. «Aimer la vérité, signifie supporter le vide, et par suite, accepter la mort. La vérité est du coté de la mort. Aimer la vérité avec toute l’âme ne peut se faire sans arrachement»6. Interiormente preoccupata a possedere la verità con tutta l’anima e con tutto il corpo, esteriormente Simone appare preda di un’esaltazione mistico-culturale, aggravata da un non conformismo sprezzante e stoico. È naturale che le sue conversazioni piuttosto che un dialogo, divengono spesso un monologo, una esteriorizzazione di quanto va in sé maturando. È, infatti, in intima familiarità con i vangeli, i testi indù o taoisti, Omero e Platone, i tragici dell’antichità, e Shakespeare, Racine. Tra i contemporanei ha particolare simpatia per Valéry e Giraudoux. E a questi aderisce per il pathos mistico che li distingue o per la necessità stilistica e la formale nudità della loro espressione letteraria. Termini quali verità, conoscenza, mistica, nudità, meritano, per comprendere Simone Weil, una particolare attenzione. Rappresentano non solo astratte espressioni, ma voci che operano nella sua vita. Per essere sincera fino in fondo si libera di tutto per abbandonarsi a un austero e complicato misticismo. Si libera di tutto, salvo della sua intelligenza, che ritiene indefettibile. Forse perché, per pensare, è necessaria una specie di nudità, di disincarnazione, una riduzione all’essenziale7. Di qui parte il suo indirizzo ascetico: l’accettazione del vuoto, del distacco, della spoliazione totale e dell’assoluta nudità; l’esporsi indifesa a tutte le vicende della vita, inerme e infelice8. Il suo diventa, pertanto un continuo sforzo di concentrazione, uno sforzo in negativo, che comunque deve rendere il soggetto disponibile, vuoto e pronto a lasciarsi permeare dall’oggetto. Questo esercizio si tradurrà in un’esperienza interiore di lucida e penosa attesa, sospensione di ciò che è desiderio, volontà, amore, pensiero, è uno stare in prossimità del vuoto che ha l’effetto di una purificazione. Il vuoto di cui parla Simone Weil è anche quello in cui si consuma la sua «attesa di Dio». Ogni ricerca attiva sarebbe fatalmente destinata all’insuccesso dall’errore fuorviante; l’uomo non deve fare altro che attendere, nel compimento del bene e nella fuga del male una manifestazione di Dio, che non tarderà, purché egli sia disponibile, come l’acqua che è pronta a qualsiasi forma, che le deriverà dal recipiente nel quale sarà versata.
L’attitude qui opère le salut ne ressemble à aucune activité. Le mot grec qui l’exprime est « Hupomonē » que patientia traduit assez mal. C’est l’attente, l’immobilité attentive et fidèle qui dure indéfiniment et que ne peut ébranler aucun choc. L’esclave qui écoute près de la porte pour ouvrir dès que le maître frappe en est la meilleure image. Il faut qu’il soit prêt à mourir de faim et d’épuisement plutôt que de changer d’attitude. Il faut que ses camarades puissent l’appeler, lui parler, le frapper sans qu’il tourne même la tête. Même si on lui dit que le maître est mort, même s’il le croit, il ne bougera pas. Si on lui dit que le maître est irrité contre lui et le battra à son retour, et s’il le croit il ne bougera pas9.
Così l’azione di Simone Weil su se stessa, ciò che lei chiama addestramento, si attua nel rispetto del desiderio essenziale che tende alla rinuncia all’io attraverso la diminuzione della potenza del corpo, esorcizzandone i bisogni, rinunciando continuamente agli attaccamenti, rifiutando l’amore fisico e la dedizione a un essere in particolare10.
La sua fu passione pura, nel senso di sofferenza dei limiti, radicamento in essi e tensione potente all’andare oltre. Nel suo pensiero si avverte la forza di questa passionalità in cerca di pace e sembra quasi che nella proposizione teorica dell’obbedienza e del consenso si debba raggiungere, come accade per i mistici, la quiete del pensiero e dell’azione. Tenta di sciogliere il suo corpo, riducendone la potenza fino all’esaurimento dell’energia negativa, ma non può sottrarsi al desiderio di bene. In tal senso, tutta la sua vita assomiglia a una guerra alla vita interiore, alle forme concrete del desiderio in nome del Desiderio; guerra agli “attaccamenti” ai legami con le persone e gli oggetti. Un viaggio di sradicamento, guidato dalla volontà, senza pietà per se stessa e senza soste possibili, se non quelle indotte dallo sfinimento. La realizzazione di questa possibilità di relazione come rottura degli attaccamenti sarà una pratica sempre più violenta, uno sradicamento attraverso un lento esaurimento del desiderio, fino alla messa a nudo dell’ “energia vegetativa”, fino ai limiti dell’energia vitale, fino al rifiuto di consentire al bisogno elementare11.
La sofferenza, meglio di ogni altra pratica, inizia nell’animo il distacco. Tutta la riflessione di Simone Weil si è scontrata ed esercitata su questo aspetto della sventura come sradicamento che opera nell’uomo, alterandone il senso della realtà. Nei suoi Cahiers, la guerra di Spagna, la prigionia, i campi di concentramento, le esecuzioni capitali, tutti i paurosi incubi del presente ricorrono con frequenza, oggetto di una riflessione attenta e rigorosamente aliena da ogni distrazione emotiva. Riflessione che le fa intuire il valore della sofferenza, il suo uso sovrannaturale: usare la sofferenza come esperienza della contraddizione, che solo così diviene mediatrice e opera di redenzione12. È attraverso il dolore senza consolazione, nella partecipazione alla sofferenza umana, che Simone Weil cerca il punto di mediazione tra sé e l’infinito:«faire de soi-même une balance juste en s’arrêtant et en subissant, immobile, la poussée, “soulever sa croix”»13 Questo bisogno di confondersi con gli oppressi, con coloro che rappresentano la debolezza estrema, fino alla schiavitù, questa avidità di sacrificio è uno dei tratti più inquietanti per la forza che prese nella sua vita. Un tale ideale, indubbiamente appare difficile da realizzarsi perché implica la disponibilità totale, la capacità di accettare il vuoto, che provoca un’angoscia, una rivolta disperata. E tuttavia è questo il principio fondamentale dei grandi mistici: «le détachement parfait permet seul de voir les choses nues et sans ce brouillard de valeurs mensongères»14.
Prendendo a prestito la simbologia della notte oscura da san Giovanni della Croce, Simone Weil ne evidenzia la condizione che fa coincidere , in modo contraddittorio, gioia e disperazione, luce intensa e buio. La difficoltà della notte oscura risiede nella capacità di rinuncia, di sospensione delle proprie facoltà nel vuoto, nell’oscuro15. È la possibilità estrema dell’umano, la mediazione col nulla, che provoca sofferenza e accecamento, la sensazione di essere definitivamente perduti.
Cependant Simone Weil donne une sorte de fondement métaphysique au dépouillement qui dans la doctrine de saint Jean de la Croix s’accomplit par degrés, de la nuit des sens à la nuit de l’esprit, fondement coloré encore, il est vrai, par l’indianisme qu’elle appréciait : Dieu qui s’aliène lui-même en tant que créateur de la créature, en vient dans une mesure grandissante, à nous décréer (dans une «décréation» de la «création»), c’est-à-dire à nous dépouiller le plus possible de l’élément créaturel; ainsi se fait, à la quasi-aliénation divine de soi, une réplique dans le dépouillement humain, est alors rencontre-réponse entre la «triple folie de dieu» (création, incarnation et passion) et notre «triple folie» par laquelle nous nous «décréons», devenons « matière » dans l’esclavage du travail, et finissons par mourir en esclave sur la croix de l’esclave dans la nuit de l’abandon divin avec le Dieu abandonné de Dieu. La nuit est alors l’existence terrestre réelle, en ce qu’elle a de plus réaliste existentiellement16.
Limite e contraddizione diventano allora per Simone il mezzo per intuire il trasparente nell’opacità dell’immediato. L‘impatto con il reale brutalmente contraddice le aspirazioni e i sogni facendo ricadere il desiderio: questo significa che la contraddizione è principio di realtà17. Solo nell’esercizio al limite e alla contraddizione la volontà svela il suo carattere di sforzo a vuoto, privo di direzione, e i suoi oggetti (come quelli dell’intelligenza e dell’amore) si rivelano impossibili. Fare esperienza di questa assurdità significa aprirsi al soprannaturale.
Com’è vero che non c’è racconto autobiografico nei testi di Simone Weil, è altrettanto evidente che essa non cercò mai “l’opera”, il testo autonomo, la vita divenuta scrittura. La scrittura pur rimanendo aperta sull’esistenza, si realizza attraverso una rottura di nessi, una perdita di segni di riconoscimento, sia di quelli che costituiscono, nella separazione tra vita e opera, la nascita dei “generi classici”, sia di quelli relativi alla connessione interna tra i saperi. L’assenza o quasi, nei Cahiers, di annotazioni biografiche risponde a un’esigenza di pudore: una resistenza profonda, nello scrivere, a nominare volti, a dire emozioni, sentimenti, se non ciò che talvolta si rende necessario dire, e solo nei limiti di questa necessità. I punti di sospensione, gli accenni subito interrotti, sono per chi legge improvvisi luoghi d’ombre, dove non è consentito entrare. È dunque una scrittura, che degli avvenimenti conserva solo ciò che viene trasposto in segni, come momento di un costante esercizio di «lettura», volto a chiarire l’opacità dell’esistenza. Una scrittura diversa, indizio dell’avvenuta rottura con la tradizione. Simone Weil si serve, infatti, di un linguaggio preso dai più svariati ambiti culturali: la filosofia indiana, i frammenti orfici, le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide, i miti delle opere di Platone, i miti nordici, i Veda e le Unipanishad, i testi taoisti e del buddismo zen, mescolati sapientemente alla lettura del Nuovo Testamento e parte dell’antico.
Si on lisait Platon avec le même état d’esprit que l’Ancien Testament, on verrait peut-être dans ces lignes une prophétie. Pour cette prodigieuse combinaison de symboles, Platon fait apercevoir dans le ciel et même dans le cours des jours et des saisons, une image à la fois de la Trinité et de la Croix18.
Platon est un mystique, toute l’Iliade est baignée de lumière chrétienne. Dionysos et Osiris sont d’une certaine manière le Christ lui-même19.
D’ailleurs la Bagavat-Gita a elle-même un son tellement chrétien20
Si interessa alla cultura occitana e pubblica saggi sui «Cahiers du Sud». Diviene amica di due indianisti Véra e René Daumal21. Legge Guénon22. Il suo avvicinarsi al cristianesimo la porta a leggere più volte i testi cristiani ed ebraici. Di conseguenza la scrittura trova un suo orientamento soltanto fra centro e assenza a cui risponde l’estrema concentrazione all’interno di un frammento, e secondo quanto afferma Maurice Blanchot sembra che Simone Weil sia completamente se stessa nei frammenti e nei pensieri brevi23. Tale scrittura condotta al punto estremo di deflagrazione diviene uno stato di sospensione, un mettersi fuori da sé. Il pensiero, attratto dall’infinitamente lontano, anziché tentare di rappresentarlo, si esercita in una pratica di spoliazione; la nudità della scrittura sottolinea la spoliazione dello spazio da cui lasciarsi assorbire. Tra silenzio e parola, il linguaggio dichiara la propria incertezza e acquista una dignità mistica, si converte in pura attesa e rinuncia: attesa di amore che viene dall’Altro, dall’Altro che non è là per dircelo.
Il n’y a pas d’attitude de plus grande humilité que l’attente muette et patiente (…) L’attente est la passivité de la pensée en acte. L’attente est transmutatrice de temps en éternité (…) L’art est attente. L’inspiration est attente. Il portera des fruits dans l’attente.24
Il testo va dunque meditato nella sua struttura globale e inglobante, non come costituito dalla mera somma di segni, bensì come processo dinamico, percorso da pause di arresto, di silenzio interiore, di attesa, come articolazione di un pensiero in movimento. Si può pensare solo per arresti successivi, cioè nell’immobilità, vivendo attimi di sospensione da cui tutto il resto trae valore25. Scrivere per frammenti significa produrre continuamente di queste sospensioni, provocare in chi legge un’attesa in cui è già contenuto il significato pieno e non esprimibile, di ciò che precede e di ciò che seguirà. Il pensiero prende pienamente possesso di se stesso nel continuo fluire in uno spazio temporale in cui le tematiche, le variazioni, le riprese, le sospensioni sono dispiegate su molteplici piani non ordinati, ma egualmente congiunti da spazi di silenzio da cui emergono poche parole che toccano l’anima: forza, giustizia, bene, attesa, limite, sventura, amore.
Tutta la scrittura è costellata dal costante ritorno di queste parole, frammenti che la cultura contemporanea ha svuotato dei loro significati originari e che Simone Weil risuscita per farne la costante principale del suo pensiero. Attraverso questi splendidi frammenti, interroga i grandi testi sacri con grande attenzione, senza, mai, avventurarsi in una sorta d’imprudente interpretazione. Ritrova i caratteri fondamentali della scrittura mistica: negazione, ossimori, paradossi, nel tentativo di affermare un’esperienza che rovescia le categorie mondane. Il dubbio lacerante è però quello che riguarda la sua capacità di difesa della parola e pone quindi in discussione il «contenuto» del messaggio, mettendosi a confronto con la verità stessa: ricercare la verità è l’unico modo per capire veramente gli altri, con il conseguente distacco da se stessi: «Préoccupée de sauver les vérités qu’elle a acquises intuitivement jusqu’au moment de son contact plus intense avec le christianisme, elle tente des synthèse, formule des interprétations inacceptables si on les prend à la lettre»26.
In quanto discorso sulla verità la parola può essere soltanto parafrasi e lo strumento diventa l’esistenza stessa. La sua responsabilità si esercita nell’esatta interpretazione dei fatti, accompagnata dall’impegno costante a non arrendersi, a non morire sulla pagina bianca. La letteratura weiliana è sempre sottomessa, in una ricerca costante, alla prova della parola e del senso27.
Le langage énonce des relations. Mais il en énonce peu, parce qu’il se déroule dans le temps. S’il est confus, vague, peu rigoureux, sans ordre, si l’esprit qui l’émet ou qui l’écoute a une faible capacité de garder une pensée présente à l’esprit, il est vide ou presque vide de tout contenu réel de relations. S’il est parfaitement clair, précis, rigoureux, ordonné ; s’il s’adresse à un esprit capable, ayant conçu une pensée, de la garder présente pendant qu’il en conçoit une troisième, et ainsi de suite ; en ce cas, le langage peut être relativement riche en relations. Mais comme toute richesse, cette richesse relative est atroce misère, comparée à la perfection qui seule est désirable28.
Si tratta pur sempre della stessa lotta contro il linguaggio corrotto della modernità che non ha più spazio per il soprannaturale29. Una degradazione del linguaggio trascina inevitabilmente alla degradazione dell’uomo. Pur aspirando a una parola naturale in cui l’immagine sia immediatamente percepibile, Simone Weil, deve tuttavia accettare l’insufficienza del segno linguistico, cercando di colmare con l’uso di metafore lo scarto tra significante e significato. Così la metaforicità della scrittura, con la relativa «distanza» da essa generata, è spesso in funzione della creazione di un’appartenenza: al lettore, all’umanità o a una forza trascendente. Quando però il referente è di ordine mistico o soprannaturale nessun segno linguistico è adeguato e ai significanti che non esauriscono l’esperienza si aggiungono metafore analogiche e tutta una poetica che compensi le aporie del logos, le cui caratteristiche fondamentali sono il ritorno all’origine e la discesa nel profondo. Il tentativo di comunicazione dell’inesprimibile assume anzitutto la forma di un linguaggio che va controcorrente, con sintagmi che si avvicinano all’origine, come se il soprannaturale stesse dalla parte dell’inizio, della sorgente, ma anche con la consapevolezza che la sorgente può essere evocata solo in quanto perduta, per cui questo cammino a ritroso si scioglie in notazioni che vanno al di là del linguaggio, per raggiungere l’ordine della conoscenza, dove la«purezza» è condizione indispensabile della conoscenza. La metaforicità è quindi elemento essenziale di quel tentativo di riscrivere la realtà, caratteristico della parola poetica, vissuta da Simone Weil in una tensione struggente tra «il vuoto e la parola creatrice»30. A questa tensione si ricollega il senso più vero dell’analogia, dell’antitesi e dell’ossimoro.
Negli appunti che si riferiscono al corso di Puy del 1931-1932, la scrittrice parla dell’analogia come di una identità tra due rapporti. In un certo senso il contrario della somiglianza31. L’analogia è lo strumento che permette il confronto di questi rapporti, in particolar modo se visti in progressione e sottolineando l’importanza delle relazioni, che sono le realtà più vere. Grazie alle analogie il suo pensiero si concretizza e tende a tradursi in immagini.
L’arc-en-ciel de Noé (il est question aussi dans l’Edda de prose) est une médiation entre le ciel et la terre, une voie de salut. La Tour de Babel voulait être cela ; mais elle venait de la terre et non du ciel ; c’est pourquoi elle était mauvaise32 .
La foudre, le trait de feu vertical qui jaillit du ciel à la terre, c’est l’échange d’amour entre Dieu et sa création, et c’est pourquoi « lanceur de la foudre » est par excellence l’épithète de Zeus33.
La propriété de la chlorophylle de capter l’énergie solaire est aussi une image de la fonction médiatrice de l’Amour divin34.
Vertu symbolique de l’eau : elle tend naturellement vers l’équilibre35.
L’ossimoro, poi, è per eccellenza il luogo dell’incertezza e del combattimento; figura inizialmente dell’impossibilità – quindi del malessere, dell’inquietudine - si carica progressivamente di tutti i valori di pienezza che suscita il paradosso della vita contemplativa36. Metonimia e ossimoro, «questa continua oscillazione tra un tutto compiuto e le sue parti, o tra due poli dialetticamente fusi», costituiscono l’essenza della scrittura weiliana, che sospende il mistero dell’esistenza in questa tensione che inaugura il difficile incontro dei contrari, della presenza e dell’assenza, dell’angoscia e della speranza, come modi fondamentali dell’essere. Sottolineando il rapporto antinomico dei due elementi Simone Weil traduce la visione tragica della vita, la lacerazione tra bene e male, ma anche la possibilità del suo superamento nella fede. L’ossimoro diventa quindi negazione dell’antitesi, riunione dei contrari riconciliati in Dio. Il superamento della dualità nell’unità, di un universo tragico in un mondo riconciliato, rappresenta, forse, proprio lo specifico del «passaggio al soprannaturale».
Ce que le crayon est pour moi quand, les yeux fermés, je palpe la table avec la pointe – être cela pour le Christ. Nous avons la possibilité d’être des médiateurs entre Dieu et la partie de la création qui nous est confiée. Il faut notre propre consentement pour qu’à travers nous, il perçoive sa propre création… Il suffirait que j’aie su me retirer de ma propre âme pour que cette table que j’ai devant moi ait l’incomparable fortune d’être vue par Dieu. Dieu ne peut aimer en nous que ce consentement à nous retirer comme lui-même, créateur s’est retiré pour nous laisser être37.
Certo l’ossimoro contiene al suo interno un punto cieco, luogo del non detto, dell’indicibile, ma Simone Weil usa fino in fondo tutte le possibilità del linguaggio in una ricerca che è, pur con tutta la sua precarietà, anche conquista.
Ripetizioni di definizioni, precisazioni e approfondimenti sostengono la capacità di «esegesi» della parola, mentre il linguaggio lirico-simbolico tenta di alludere a tutto ciò che è eterno servendosi della «retorica» tipica della scrittura mistica: negazioni, antilogie e paradosso sono accompagnate dalla poetica del ritorno alle origini e della discesa nel profondo, nell’intimo dell’essere dove si scoprono, insieme con le angosce della notte, le tracce di Dio. L’esperienza della notte sembra avere una sua traduzione tipica, con la scrittura che si fa discontinua, esitante, ripetitiva; mentre l’evocazione dell’assenza, vero «sostituto» della realtà, è operata tramite il linguaggio che suggerisce, illumina di luce indiretta, che spinge Simone Weil a conformare alla parola vera la propria testimonianza e la propria vita. La scrittura la costringe a guardare in se stessa e anche il disgusto per la propria persona, il dubbio di sé, la tristezza profonda per i propri limiti hanno a che fare con la scrittura.
C’est une grande douleur pour moi de craindre que les pensées qui sont descendue en moi ne soient condamnées à mort par la contagion de mon insuffisance et de ma misère. Je ne lis Jamais sans frémir l’histoire du figuier stérile. Je pense qu’il est mon portrait.38
Il suo linguaggio sottolinea la decisione d’impedire alla scrittura di rinchiudersi in se stessa, la volontà di lasciare aperta una breccia. Concepirà e vivrà la scrittura come gesto d’amore – come la propria vita, come la propria agonia – che farà dei suoi scritti non uno strumento di sdoppiamento, ma di riconciliazione con se stessa. In tal senso i singoli temi non sono più indagati come semplici dati psichici o ideologici, ma come elementi costitutivi di un progetto di scrittura; le lezioni dello strutturalismo e delle scienze umane spingono a indagare ogni componente in stretto legame con le tecniche di scrittura, rivelatrici di una visione coerente, evitando, d’altra parte il puro formalismo. L’attenzione a quest’ultimo aspetto è presente negli scritti di Simone Weil, che ben conosce quanto lo scrittore sia minacciato dall’inautenticità, perché la scrittura contiene il rischio dello sdoppiamento, evitabile solo attraverso un linguaggio che trovi il proprio senso in un rapporto concreto con i destinatari.
La strada è quella della vittoria sul sogno e l’immaginazione, sulla dispersione, in cui rischiano di svanire le parole come inarrestabile emorragia dell’anima: in certi momenti la scrittura diventa l’unica possibilità di fermare il pensiero, arrestandone la vertigine, veder chiaro in se stessi, distinguendo il sogno sterile dalla verità autentica, per cui oltre a rappresentare una singolare forma di sensibilità, indica anche un nuovo scopo cui deve tendere l’opera. Rifiutare una dimensione etica all’arte significa cadere nell’estetismo, significa, nel caso specifico, porre la scrittura come valore assoluto, credere cioè nell’arte per l’arte. Nella scrittura Simone Weil accoglie in maniera originale le risonanze di un impegno di sincerità iniziato già con Claudel, Gide, Péguy e, senza proporre soluzioni o grandi verità, resta ancorata alla sua volontà di smentire le grandi falsità della nostra situazione. La sua è una fedeltà letterale al disagio e anche una capacità di convivere con esso, con l’intento di raggiungere una nudità impossibile e di suscitare un effetto di realtà. Effetto di realtà come risultato dell’armonia prodotta dalle diverse culture alle cui fonti Simone Weil attinge, realizzando un distacco radicale dal modello eurocentrico e compiendo un’esplorazione senza limiti. Di conseguenza si colloca fuori e oltre il mero fatto letterario; la sua scrittura nel suo porsi fuori e dentro la letteratura, è anche riflesso di una lucida consapevolezza di trovarsi fissata a quel punto estremo tra l’essere e il non-essere, tra la luce e il vuoto dell’oscurità. Nel rifiuto di una concezione di letteratura puramente estetica o di divertimento, concepisce la ricerca dell’espressione come simbolo della ricerca dell’essere e il mestiere di scrittore come vocazione, avventura mistica, calvario.
Pour citer cet article :
Gisella Maiello, " Dal mondo chiuso all’universo infinito: la lucida follia di Simone Weil", Publif@rum, 2, 2005 , URL : http://www.publifarum.farum.it/n/02/maiello.php
© Les références et documents disponibles sur ce site, sont libres de droit, à la condition d'en citer la source