Andrea Rondini, Università Cattolica - Milano
Cesare Lombroso, fu, soprattutto a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento un nome largamente noto, conosciuto non solo dagli specialisti ma inserito nelle griglie dell’industria culturale1 . Un discorso sulla ricezione delle teorie lombrosiane deve tenere in primo luogo conto dell’ampia circolazione delle sue idee nonché dei canali e dei luoghi che permisero tale diffusione non solo in Italia ma in larga parte dell’Europa.
La presenza di Lombroso sulla scena culturale rimandava in primo luogo al suo inserimento nelle strutture editoriali; Lombroso tra l'altro pubblica per Dumolard, Bocca, Utet, Hoepli, Sommaruga, Zanichelli. Soprattutto Torino2 , ma anche Milano, Bologna, Roma i maggiori centri editoriali ospitano le opere di Lombroso. Un editore per esempio come il palermitano Remo Sandron, aperto “al dibattito politico e culturale della fine del secolo”3 fa stampare La funzione sociale del delitto, nonchè Genio e degenerazione. Anzi attraverso le pubblicazioni di questi editori è possibile tracciare una storia del positivismo italiano, auspicata tra l'altro da Eugenio Garin4 . Se il mecenate Pompeo Dumolard stampa Lombroso, Morselli, Mantegazza, Sergi, i fratelli Bocca pubblicano opere che già risentono della crisi del positivismo, da Nietzsche a Weininger al Lombroso "spiritista" (Bocca comunque aveva già ospitato il Lombroso dell'Uomo delinquente nel 1878). Una menzione particolare spetta poi all'editore Sommaruga (per cui Lombroso stampa nel 1883 Due tribuni studiati da un alienista) che, pur non possedendo una struttura aziendale pronta per il consumo di massa, offre al raffinato e frivolo pubblico romano, tra le sue primizie letterarie5 , anche la criminologia. Sono del resto gli anni in cui a Milano l'editore Sonzogno propone ai sui lettori I processi celebri illustrati di tutti i popoli e in cui la scienza diviene una presenza costante sui giornali e una richiesta del pubblico6 . Una acuta descrizione del fenomeno Lombroso e della diffusione delle sue opere anche presso il pubblico non specialista è data da Carlo Dossi in suo intervento a proposito della quarta edizione dell’Uomo di genio: “Se dal numero delle edizioni si può trarre un criterio sul valore o almeno sul successo di un’opera, è certo che questo Genio e follia […] si incammina a gran passi alla celebrità”, aiutato certo dal fatto che può risultare “una lettura utile a tutti, poiché tutti hanno un grano, se non di genio, di follia: aggiungiamo che è una lettura anche dilettevolissima – e ciò per le gentili signore, avide di romanzo criminale e di cronaca ergastolina”7 .
L'antropologo scrive per le maggiori riviste letterarie dell'epoca dalla “Cronaca bizantina” al “Fanfulla della domenica” alla “Lettura”8 spesso in veste di divulgatore delle proprie teorie. Le "scoperte" che Lombroso effettuava nei suoi studi medici trovavano spazio anche nelle colonne di quei periodici che diffondevano tra il pubblico intellettuale le novità del campo letterario e culturale. Sul “Fanfulla” Lombroso pubblica non solo una sua critica alla Bestia umana di Zola ma anche articoli di argomento più direttamente scientifico9 . Le riviste che lo ospitavano potevano non sempre condividere le tesi esposte dallo scienziato ma certo la presenza del nome dello scienziato veronese portava a una certa vivacità almeno in sede di dibattito e accendeva interesse nel pubblico. Da un lato la critica poteva investire il piano più strettamente scientifico o letterario, dall'altro questioni di più largo respiro e che potevano suscitare la curiosità anche di un pubblico non specialistico. Si veda per esempio l'invito rivolto da Enrico Chiaia dalla pagine del “Fanfulla” a Lombroso, che proprio in un articolo apparso sulla rivista di Martini si era dimostrato interessato alla nuova frontiera dello spiritismo, di recarsi a Napoli per presenziare direttamente a una seduta spiritica.
Manifestazione di un “successo” è poi l’esistenza di una scuola lombrosiana, formata da studiosi di formazione psichiatrica che, in modo ortodosso o eterodosso, hanno applicato la dottrina del maestro sia nel campo scientifico che in quello letterario. Alcuni dei sodali lombrosiani ebbero tra l’altro anche una larga visibilità; basti pensare a Patrizi con il suo Saggio psicoantropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia10 e a Max Nordau con il celebre Degenerazione.
Possiamo distinguere tra due linee fruitive: il dibattito critico-teorico, sul quale ci soffermeremo molto brevemente in questa sede, e il riuso creativo (infatti, pur fortemente criticate a livello teorico le teorie di Lombroso sono state comunque presenti nel laboratorio di non pochi scrittori).
Occorre allora rintracciare alcune linee guida della ricezione delle teorie lombrosiane: i temi portanti sono, in primo luogo, l’intromissione di uno psichiatra, di uno scienziato nei domini della letteratura, con, tra l’altro, l’accentuazione dei lati patologici della prassi creativa; si ricordi tra l’altro che Lombroso si è occupato di temi letterari non solo nei suoi trattati sull’Uomo di genio ma in non pochi interventi e articoli di critica letteraria.
In secondo luogo, sono molto forti la perplessità o il rigetto di fronte all’idea di creazione come impulso improvviso, trance, furor. Infine, non poteva non essere sottoposta a forte critica, la tendenza, o meglio l’abitudine lombrosiana - autentico punto debole della teoria antropologica - di attribuire alla persona reale e fisica dello scrittore le degenerazioni eventualmente descritte nei personaggi di finzione di un’opera. Si collega a questo aspetto pure il rilievo dei limiti metodologici di Lombroso, che troppo spesso si affida, come notato da pressoché tutti gli interventi, ad aneddoti e fonti non controllate, con un’impressione incancellabile di scarsa precisione11 .
Da sottofondo a tutte queste posizioni scorre il sospetto verso una concezione estetica che porta la letteratura e l’arte verso i domini del brutto, sottraendole la prerogativa della bellezza12 , senza contare che la dottrina lombrosiana, di tipo degenerativo, entrava in contrasto con ideali di marca evoluzionistica13 . Tali reazioni erano anche motivate dal fatto che la figura del genio epilettico lombrosiano viene nei trattati presentata di fatto, indipendentemente da quelli che avrebbero potuto essere gli intenti di Lombroso, in chiave positiva e simpatetica. Il fondo romantico della formazione di Lombroso - di marca foscoliana-byroniana - costituisce un quadro su cui si inserisce il sapere psichiatrico: ne esce una figura, quella del genio, non tanto demonizzata, ostracizzata come diversa, bensì guardata, nei fatti (vale a dire nei testi) con occhio simpatetico. Non a caso per De Roberto sarà Nordau e non Lombroso un “nemico dell’arte”14 . Si consideri poi in questa prospettiva l’articolo di Eugenio Tanzi su “Cronaca d’arte” che parla di tale immaginario romantico-lombrosiano: gli “ardori epilettici della genialità in azione e i languori post-epilettici della genialità in riposo risentono d’una tradizione letteraria che vedeva qualche cosa di grande, di sacro, di fatale in ogni pianista concertatore dal nome polacco, dall’anima sensitiva e dai capelli in disordine”15 .
Per altri versi, altri interlocutori apprezzavano lo studio di tipo naturalistico che Lombroso conduceva. In tal senso lo psichiatra ha, per così dire, riportato il genio sulla terra16 , un aspetto sul quale concordano Federico De Roberto, quando sottolinea il fatto che “tanta gente ha rifiutato d’accettare le copiose e luminose dimostrazioni del Lombroso” proprio per il motivo “il genio pare una cosa troppo bella e grande da poter essere agguagliata ad una mostruosità”17 e Rodolfo Renier sulle pagine del “Giornale storico”:
Vana davvero sarebbe l’esumazione di tanti dati di fatto, talora minuti e apparentemente insignificanti, intorno alla vita, alle abitudini, all’attività degli uomini grandi, se quel materiale non dovesse servire a conoscerli profondamente, a valutarne in tutta l’estensione il carattere, e quindi i fattori organici e psichici del carattere. In tale valutazione è bene che l’analisi anatomica e fisiologica dia la mano all’analisi storica ed estetica. […] così da combattere la vecchia ed ingiustificata abitudine retorica, per cui gli uomini geniali si dovevano adorare come idoli e il considerarli nelle loro imperfezioni umane reputavasi sacrilegio18 .
Vi sono poi posizioni caute come quelle di Graf che riconoscono all’ipotesi lombrosiana genio-follia un credito parziale, spendibile su casi specifici - come le ricognizioni leopardiane di Patrizi19 - del ma non del tutto accettabile come postulato generale: “Per mia ventura io non ho da impelagarmi in una delle più vessate questioni dei nostri giorni, quella delle relazioni e colleganze che passano fra il genio, la degenerazione e la pazzia. Io non ho bisogno di schierarmi (e in coscienza non potrei) né con coloro che affermano essere il genio una vera e propria psicosi, anzi una forma larvata di epilessia, né con coloro che di sì fatta affermazione molto si stupiscono e più si adontano. A dir vero, le conclusioni mi pajono tratte un po’ a precipizio, così dall’una parte come dall’altra, scambiate spesso le prime parvenze per prove, con definizioni improprie, con criteri incerti, con metodo arrischiato, e spesso più con desiderio di vincere l’avversario che di accertare il vero”20 .
Il “Marzocco” vede nei tentativi della critica patologica la volontà di degradare l'oggetto di studio, l'arte, e di "rovinarne" la bellezza inarrivabile con i riferimenti alla naturalità più evidente, non solo deviata e patologica, ma anche "misurata" nei laboratori scientifici. In questa prospettiva si colloca Luciano Zuccoli21 , che ravvisa nelle idee di Lombroso un atteggiamento di deprezzamento della letteratura e dell'arte, come di chi “sta in agguato del fenomeno artistico non diversamente che d'una mostruosità patologica”22 . Anche Edoardo Coli riscontra nei lavori di Lombroso, Patrizi e Roncoroni “diagnosi insignificanti e campate nel vuoto; nessuna intelligenza del valore dell'artista; una smania continua di denigrarlo per innalzare sé”23 . Non a caso Luigi Pirandello certifica questa problematica interdisciplinarietà: “Ora che […] Lombroso ha scritto un libro dal titolo Genio e follia, nessuno più si fa scrupolo di penetrare con la lente del medico alienista nei dominii dell’arte”24 .
Non tutti esprimevano però riserve. Diego Garoglio, infatti, sul “Marzocco”, se da un lato lamenta l'intrusione della critica psichiatrica nelle questioni estetiche e soprattutto la disinvoltura con cui passa dalla sfera biografica a quella testuale, ambiti non accomunabili dal referente patologico25 , dall'altro si dimostra disponibile a concedere qualche credito all'ipotesi lombrosiana, polemizzando anche con gli altri critici della rivista:
Che il genio nelle sue varie qualità e misure non può essere normale è perfettamente vero: se questa anormalità sia da considerarsi come una vera forma di epilessia psichica come vorrebbe il Lombroso, o semplicemente come effetto di soverchia applicazione mentale, di soverchio sviluppo di alcune facoltà a danno di altre, è questione per ora non risoluta, ma che la psichiatria risolverà col tempo dopo studi più maturi e guardinghi, con vostra buona pace, o amici26 .
Garoglio ribadisce l'imprescindibilità anche per i critici-patologi di una solida cultura letteraria ed estetica27 , che egli auspica possa far parte del loro bagaglio culturale; non a caso, del resto, da più parti si nota come i medici non abbiano competenze letterarie, come in questo giudizio di Rodolfo Renier sul saggio leopardiano di Patrizi (il quale agli “elementi letterari che contribuirono alla formazione del Leopardi poeta […] non diede la debita importanza”)28 .
Un modo per recuperare i dati dell’analisi estetica e di superare l’impasse per la quale - come afferma Giovanni Bovio - “il puro antropologo […] con le sole regole psicopatiche”29 non può interpretare i fatti letterari, potrebbe essere quello di immergere l’astorica fenomenologia psicopatologica nella concretezza di un contesto culturale; nell’affrontare per esempio Leopardi, le domande che lo psichiatra deve porsi sono: “C’era pessimismo nell’aria al tempo di Leopardi? Quello di Leopardi fu veramente pessimismo? e perché sarebbesi incarnato piuttosto in lui che in altro dei tanti illustri poeti del suo tempo”30 . In questo modo la speculazione lombrosiana si gioverebbe di una maggiore presa su referenti specifici, “movendo dal genio astratto, e, a traverso l’ambiente, arrivando al tipo concreto”31 . Sono, queste, linee di riflessione che è dato trovare anche in altri critici attenti alle possibilità di integrazione dell’estetica medico-psichiatrica32 .
Vi sono poi prese di posizione nettamente simpatetiche. Efisio Aitelli sulle colonne della “Gazzetta letteraria” afferma che un “efficacissimo contributo alla critica positiva è dato dalla antropologia. Studiando coi dati della psicologia e della psichiatria l’uomo, essa prepara senza dubbio la via alle maggiori ricerche della critica letteraria. Allorché Cesare Lombroso, creatore, si può dire, di questa scuola scientifica, pubblicò il suo Uomo di genio ed ebbe l’audacia di definire il genio non altro che una forma larvata di epilessia, parve a molti che quella fosse un’esagerazione della scienza e si gridò l’anatema. I più preferirono non togliersi dal capo uno solo dei pregiudizi onde erano stati iniziati nelle Scuole e nelle Accademie”33 .
Nel “Marzocco” la concezione di una letteratura sganciata da qualsiasi referente extrartistico, basata sulla divinazione spirituale del poeta, si coniuga a una forte vena classicistica, che recupera l'idea di scrittura come stile, eleganza, sobria fusione di forma e contenuto. Non stupisce così che uno dei critici della rivista, Edoardo Coli, rimprovera a Patrizi di misconoscere la grandezza artistica del poeta, nel senso di una mancata identificazione della letteratura con un'ars classicisticamente intesa come lavoro formale e senso dell'espressione; nel caso del Recanatese l'alta coscienza stilistica si unisce inoltre ad una robusta componente di pensiero, lontana dall'idea di poesia come scoppio estemporaneo tipica della teoria epilettica34 .
Allo stesso modo, e diversamente dal paradigma psicoantropologico, Enrico Morselli propone invece l’idea del genio superconcentrato, che, nel momento ideativo massimo “non si trova già in uno stato di incoscienza, ma […] di ipercoscienza: la sua energia mentale cosciente è accentrata verso un punto solo, non già sospesa ed abolita, e per di più la memoria è conservata” 35 .
Diego Garoglio dimostra invece di condividere due postulati della teoria di Lombroso, lo squilibrio del genio e - almeno in parte - proprio l'idea della creazione come istante:
il Coli rimprovera il Lombroso e i suoi discepoli di aver scoperto nel Leopardi le stimmate d'uno squilibrio mentale, mentre il grande recanatese è uno fra i più equilibrati tecnicisti delle lettere. Sta bene, ma in questo equilibrio non consiste tutto l'equilibrio mentale d'un insigne scrittore (...). Dirò anzi di più: questo equilibrio ideale nell'arte e nella sua tecnica è una specie di naturale compenso a quell'intimo squilibrio tra il pensiero e l'azione, tra l'ideale e il reale, tra l'io e l'ambiente, che forse è indispensabile per la creazione del nuovo e che insieme costituisce (oltre alle circostanze speciali della vita) la causa fondamentale dell'infelicità inguaribile di tanti scrittori36 .
Del resto la teoria lombrosiana della pazzia morale del genio riemerge ancora a incrinare l'unione di bellezza e morale, spesso ribadita dal “Marzocco”: “L'artista in quanto genio, non è più sottoposto alle leggi della morale, ma si leva al di sopra del male e del bene, amando questo e quello come manifestazioni dell'eterno mistero”37 .
Per altri critici come Bovio il raptus istantaneo e “il fattore patologico indicato da Lombroso” non costituiscono un sovradosaggio creativo bensì una limitazione della capacità del genio: quest’ultimo, “che ha fortissima la memoria, […] e fortissima la volontà […] dopo poche ore di lavoro ispirato, si sente colpito da amnesia e abulia, fenomeni non essenziali ma momentanei. Tutto sommato, dunque, il morbo è un fattore negativo, che deve sottrarre non aggiungere; che dove interviene direttamente, altera e infosca le tinte; e che come tutte le forze negative, prima lo insidia e assottiglia, poi lo distrugge”38 .
Da notare che, in alcune figure critiche verso il credo positivista e ormai inserite nella stagione della rinascenza idealista l’immagine del genio epilettico e della sua forza creativa diviene quasi un modello - magari non esente da qualche tocco ironico - da associare alla tradizione degli eroi di Emerson e Carlyle. Così si esprime per esempio Arnaldo Cervesato: “Dateci un po’ di questa malattia, vien voglia di chiedere […] E allora non dovremmo noi concludere altresì, che, data la comune, la “media” resistenza della fibra umana e come si stanchi e disperi per sforzi e difficoltà “normali” affatto - questa dell’organismo degli uomini superiori rappresenta invece un modello di gagliardia e resistenza di gran lunga superiore alla media; eccezionale insomma? Altro che debolezza fisica e “psicosi degenerativa” sorgente iniziale del genio!” 39 .
In tutti i suoi trattati sull’uomo di genio, che si susseguirono a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, e negli articoli di critica letteraria Lombroso adotta costantemente una metodologia che considera il testo letterario una diretta trascrizione, una trasparente manifestazione dello stato psichico del suo autore. Una modalità d’approccio che non poteva non suscitare numerose riserve e perplessità.
Prestigioso esponente della Scuola storica, Alessandro D’Ancona40 prende le distanze da questa prassi esegetica, come egli la trovava espressa nell’Uomo delinquente a proposito di Foscolo; per documentare e sostenere la tesi della delinquenza di Foscolo, lo psichiatra si appoggia spesso alle tragedie e ai sonetti; ma forse, obbietta D’Ancona, se Foscolo canta l’astuzia di Ulisse sarà egli stesso “reo dei vizi tutti attribuiti al re d’Itaca?”41 , o perché ha composto il Tieste “si vorrà moralmente e giuridicamente aggravarlo di tutti i peccati ond’è inferma e rea la famiglia degli Atridi?”42 .
Contro l’approccio biografico anche Mario Pilo, il quale sottolinea il rischio che l’approccio critico diventi mera radiografia clinica, cartella psichiatrica dell’autore; in tal senso egli afferma che “l’opera d’arte si deve considerare oggettivamente in sé, come se non fosse un prodotto pensato dalla mente umana, ma bensì una cosa naturalmente bella, e che come tale impressiona i nostri sensi ed il nostro spirito; pure ammettendo però, che da essa, e senz’altre indagini indiscrete e illegittime che escano fuori di lei, si possa e si debba estrarre tutto il significato psicologico ch’essa contiene, e quindi tutto quel tanto dell’anima dell’autore che egli vi ha messo. Fuori di qui , io ripeto, non s’ha più critica, ma clinica”43 .
Naturalmente tutto il versante erudito della critica italiana si muove nella sostanza su questa linea, come testimonia anche il “Giornale dantesco”: “Il Lombroso […] si è naturalmente soffermato su Dante, ed ha notato che nell’Inferno sono frequenti le cadute, com’è proprio degli epilettici; nel Purgatorio predomina la forma delle visioni, com’è proprio de’ sonnamboli; e nel Paradiso l’estasi, com’è proprio degli allucinati. Quale si è la conclusione? Il Lombroso ne deduce lo stato nevrotico o patologico, ch’è quanto dire epilettico o convulsivo, e sempre psichico di Dante. Il Lombroso ne parla come se il divino poeta realmente fosse stato all’atro mondo in anima e corpo” e insomma “scambia un lavoro d’arte o di fantasia con la realtà della vita”44 .
Il deficit metodologico lombrosiano è ravvisato anche nel “Il Marzocco”. Fin dai suoi primi anni di vita la rivista rivolge una continua attenzione, fortemente critica ma non esente, come si è visto, da alcune aperture, nei riguardi delle teorie psicopatologiche. Già nel programma del primo numero la rivista si fa portavoce di una reazione “a quella produzione di opere letterarie ed artistiche in generale che hanno origine fuori della pura bellezza” e proprio per questo si proclama indenne dalla tentazione di lasciarsi trasportare, “come è la moda oggi” nel campo delle “scienze fisiologiche”45 . Per i critici della rivista l'arte e la letteratura non devono riprodurre mimeticamente le basi materiali della realtà bensì proiettarsi in una dimensione ineffabile dello spirito, lontana dallo spazio e dal tempo; in questo modo l'attività estetica si affranca da “tutti quei caratteri immanenti e determinati”46 che le impedirebbero di raggiungere la dimensione della pura bellezza. Al critico viene di conseguenza chiesto non di razionalizzare un contenuto ma di porsi empaticamente in contatto con il testo: l'atto interpretativo diviene, almeno in parte, una forma della creazione estetica47 . Il corollario conseguente è il rifiuto di quelle indagini biografiche, più anedottiche che erudite, sulla personalità storica e fisiologica dei geni che abbondano nei libri di Lombroso:
quando il poeta è morto, ecco i corvi della psichiatria calar sul cadavere, palparlo, misurarlo, sezionarlo, classificarlo, in categorie prestabilite, e frugar tra le sue lettere e le sue carte, risalir l'albero genealogico per trovar la branca da cui egli discese, e interrogare i vicini, e domandare ai servi e alle serve per assodare come il poeta vestisse, come mangiasse, come dormisse 48 .
Anche Luciano Zuccoli, all’interno di un quadro negativo della scuola antropologica49 , le rimprovera di ridurre dell'arte a documento psichiatrico (Lombroso prese “a esame diciotto versi della Divina Comedia (...) dichiarando senz'altro che Dante era epilettico”); secondo Zuccoli, in questo modo, tra l’altro Lombroso di fatto privilegia scrittori privi di valore, elevati a oggetto di interesse solo grazie alla loro devianza psichica, che per Zuccoli fa tutt'uno con l'insignificanza artistica:
C'è, in ogni paese del mondo, un nucleo di scrittori di genio, i quali (...) non sanno precisamente di che cosa scrivere: spregiano la letteratura, perchè non possiedono le volgari qualità necessarie a coltivarla o bene o male: rifuggono dalla scienza vera, perchè ormai così intricata che non si sa da qual parte mettervi mano; ignorano l'arte, troppo faticosa in confronto del premio che se ottiene. Il nuovo ramo di scibile, non arte, non scienza, cui fu dato il titolo di studii, venne a cappello per occupare il nucleo d'uomini geniali, inetti perfino a escogitar delle corbellerie da sè; e nel sacco della critica scientifica, trovaron questi le ghiande per satollarsi42 .