La nozione di informe trova la sua prima formulazione teorica attorno agli anni 1930, quando Georges Bataille vi dedica una delle voci del 'Dizionario' incluso nella rivista d'arte di cui è direttore, Documents. Siamo già di fronte ad una triplice sfida: Bataille, che non nasce come critico d'arte ma come filosofo, assume la direzione di una rivista che adotta sin dal titolo un'impostazione radicalmente diversa da quelle tradizionali, nonostante la sua ambizione, come recita il sottotitolo, sia di offrire un compendio di "Archeologia, belle-arti, etnografia, varietà". Il rimando all'etnografia costituisce ovviamente l'elemento spurio rispetto alla versione accademica delle belle arti, e in effetti l'adozione di una prospettiva etnografica sarà uno degli elementi centrali della proposta elaborata da Bataille nei riguardi della storia dell'immagine.
All'interno della rivista, appare poi regolarmente una rubrica denominata 'Dizionario', che ancora una volta però fa appello allo strumento convenzionale dell'ordine solo per sabotarlo: alla sequenza alfabetica, programmaticamente rifiutata, si sostituisce infatti una logica del disordine, del frammento e dell'incompletezza; le voci sono eterogenee, compilate dai redattori (Leiris, Desnos, ecc.) o da collaboratori, e le definizioni sono inaspettate, poiché intendono fornire quello che Bataille chiama non il senso delle parole, ma il bisogno (in francese besogne: lavoro, compito, attività) a cui essere rispondono. Entriamo, in altri termini, nella dimensione dell'immaginario delle parole.
La voce che Bataille dedica all'"Informe" può dirsi allora in qualche modo riassuntiva dell'intero progetto dei Documents:
un dictionnaire commencerait à partir du moment où il ne donnerait plus le sens mais les besognes des mots. Ainsi informe n'est pas seulement un adjectif ayant tel sens mais un terme servant à déclasser, exigeant généralement que chaque chose ait sa forme. Ce qu'il désigne n'a ses droits dans aucun sens et se fait écraser partout comme une araignée ou un ver de terre. Il faudrait en effet, pour que les hommes académiques soient contents, que l'univers prenne forme. La philosophie entière n'a pas d'autre but: il s'agit de donner une redingote à ce qui est, une redingote mathématique. Par contre affirmer que l'univers ne ressemble à rien et n'est qu'informe revient à dire que l'univers est quelque chose comme une araignée ou un crachat1.
L'obiettivo polemico di Bataille è la categoria di forma, che egli intende destituire di ogni fondamento ontologico: la forma non è nelle cose ma è solo la veste artificiale (la "redingote matematica") che noi attribuiamo alla realtà, ritagliandola appunto in forme, definizioni, per potercene scambiare il senso, per poter comunicare. Bataille non vuole negare che tale scambio sia imprescindibile, e per questo chiarisce che ciò che l'informe designa "non ha diritti suoi in nessun senso": non si tratta quindi di abolire in toto le forme, o di sostituire alla loro rappresentazione quella dell'informe.
La sua irritazione è piuttosto rivolta ad un orizzonte estetico tradizionale, accademico, tutto incentrato su norme tese a preservare e tramandare non soltanto un sistema rigido di forme, ma una versione idealizzata della forma stessa, ossia la 'bella'/buona forma (le belle arti). Il punto consiste allora nel ripensare questo modo di concepire l'arte, partendo dal presupposto che, come si sostiene altrove in Documents, "toute forme précise est un assassinat des autres versions"2: esiste cioè un processo di generazione delle forme, in ragione del quale tutta una miriade di altre possibilità vengono eliminate, scartate come rifiuti inessenziali perché si possa giungere alla compiutezza finale. Le altre forme 'assassinate' sopravvivono tuttavia alla loro stessa morte come delle sorte di fantasmi della bella forma, ne costituiscono in un certo modo il residuo immaginario o perturbante.
All'interno di questo progetto, l'informe assume dunque il valore di uno strumento conoscitivo, epistemologico: non nega la forma, non la trascende e non è nemmeno la materia intesa semplicemente come antitesi della forma. Esso serve innanzitutto a 'declassare', ossia a spingere la 'bella forma' chiusa, accademica, verso il basso (lo sputo che la sfigura, il ragno o il verme che si fa schiacciare a terra), rivelando tutte quelle altre forme che la sua creazione ha messo a morte, e che sopravvivono come sue potenzialità o minacce fantasmatiche, immaginarie3.
Bataille tocca, attraverso l'idea di informe, uno dei punti nevralgici dell'intera tradizione occidentale, se teniamo conto che questa riflessione sui "passaggi" della forma era già emersa in termini analoghi in un passo delle Confessioni di Sant'Agostino:
La mia fantasia si creava forme sozze, orribili, in confusione completa, ma forme, ad ogni modo, sicché chiamavo informe non quello che era privo di forma, ma quello che ne aveva una tale da ripugnare, se si fosse manifestata nel suo aspetto strano e assurdo, al mio sentimento e da conturbare la mia debolezza di uomo. Infatti ciò che io immaginavo era informe non per la mancanza di qualsiasi forma, ma solo in confronto con le cose rivestite di una forma più bella: un solido ragionamento avrebbe dovuto farmi capace che, se proprio volevo immaginare l'informe, bisognava togliere via completamente anche le reliquie di qualsiasi forma; ma non ci riuscivo, giacché più sbrigativamente concludevo alla non-esistenza di ciò che è assolutamente privo di forma, anziché immaginare un qualche cosa che stesse tra la forma e il niente, non formato e non niente, un senza-forma quasi niente. Rinunziai allora a interrogare in proposito il mio spirito pieno di immagini di corpi aventi forma, che andavano mutando e variando a capriccio; e posi mente ai corpi stessi, studiai più addentro quel loro mutarsi per cui cessano di essere quello che erano e incominciano ad essere quello che non erano, ed ebbi il sospetto che il passaggio da forma a forma avvenisse per qualche cosa di informe, e non per il nulla assoluto4.
La prospettiva che Bataille propone non è dunque aliena alla tradizione, ma la attraversa come il suo scarto: S. Agostino contemplava infatti questa opzione per poi condannarla a vantaggio delle "cose rivestite di una forma più bella" (la "redingote matematica"), destinate a imporsi come modello normativo nella tradizione visiva. Contemporaneamente definiva anche tutta una rete di connotazioni dell'informe, associate per l'appunto al basso ('sozze, orribili, ripugnanti'), all'immaginario e al desiderio, e soprattutto al corpo umano, che da modello o specchio di ordine antropomorfico si trasformava in una 'cosa' metamorfica, in un "passaggio da forma a forma".
L'informe del corpo diventa certamente un tema figurativo in Documents, massimamente amplificato nel 'ritratto' dell'alluce che declassa la supremazia del volto umano, o nella bocca spalancata che rinvia insieme al logos e allo sputo; ma esso non va inteso solo come una provocatoria scelta iconografica volta a privilegiare la carne rispetto al tegumento esteriore. Rimettendo al centro l'informe, Bataille intendeva piuttosto fornire lo strumento che consentisse innanzitutto di 'vedere' una contro-storia dell'arte, di interrogare cioè la storia dell'arte a partire da un diverso bisogno: si trattava di creare una tradizione a partire dagli scarti o dai fantasmi della storia dell'arte. In quest'ottica l'interrogazione di Bataille non si può dire 'nuova', ma nuovo, cioè moderno, è l'atteggiamento conoscitivo che permette di gettare un cono di luce sul passato dell'informe, riproproponendo in fondo, per la storia delle immagini, quella stessa 'scienza fisiologica' con cui Nietzsche aveva aperto il corpo tradizionale del sapere filosofico: nella recente analisi offerta da Didi-Huberman, i Documents si spiegano addirittura come la traduzione visiva del progetto nietzschiano, il tentativo di elaborare una "gaia scienza dell'immagine"5.
Accanto alla trasmissione accademica e regolata delle belle forme, l'informe compare infatti già nella tradizione come luogo della loro inquietudine. Lo troviamo ad esempio in Leonardo, quando invitava, pur cautelandosi dal disprezzo che la proposta poteva generare, a fermarsi a vedere "nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco o nelle nuvole, nei fanghi o in simili luoghi - informi - invenzioni di battaglie, d'animali e di uomini, paesi e cose mostruose, come diavoli e simili cose"6; ossia invitava a guardare al farsi delle forme dal niente (o dalle mille potenzialità della macchia), soffermandosi su quei passaggi che erano in grado di trasformare, mostruosamente, l'umano in una cosa, oppure di antropomorfizzare le cose segnalando in tal modo la perdita di gerarchie dell'umano. Nei Documents, l'esortazione di Leonardo a osservare la materia metamorfica o in fermentazione verrà significativamente ripresa per spiegare l'arte di Paul Klee, le cui forme ambiscono appunto a 'fare macchia' come delle concrezioni muschiose o dei metalli corrosi dal tempo7.
Nel Settecento, Diderot arriverà in un certo senso a spostare sul quadro stesso l'esperienza della 'macchia', indicando che la forma è una questione di prospettiva e di distanza, non un dato intrinseco della rappresentazione. Famoso in proposito è il suo commento ai dipinti di Chardin, che in assenza di prospettiva acquistano il carattere di un agglomerato informe, dove "tutto scompare" poiché vedo la 'forma' della pennellata (cioè la materia della pittura) e non quella del quadro: "Approchez-vous, tout se brouille, s'aplatit et disparait; éloignez-vous, tout se recrée et se réproduit"8. Anche in questo caso, l'idea di un'immagine che si offre al corpo abolendo la distanza mediatrice dello sguardo, e dunque la "redingote matematica" della prospettiva, sarà centrale nell'estetica dei Documents, attraversati dalla stessa condanna al potere dell'occhio di cui Bataille aveva già narrato la storia desacralizzata (Storia dell'occhio, 1927).
Sempre nel 700, l'allentarsi dell'imposizione normativa prodotta dalla committenza, unita ad un diverso mercato dell'arte e a costi più abbordabili dei materiali necessari al mestiere, aveva creato le condizioni perché nascesse, accanto alla produzione destinata al pubblico, tutto un repertorio ad uso 'privato' degli artisti, fatto di disegni, bozzetti, incisioni, scarabocchi. Questa dimensione segreta e privata consente allora una diversa sperimentazione sui processi delle forme, come accade ad esempio per Hogarth e Goya, entrambi caratterizzati proprio da questa duplice risposta al rapporto tra forma e informe: l'una si mantiene, nell'ordine del dipinto, fedele alle regole dell'accademia e l'altra, declassata e personalizzata nel 'capriccio', si incarica di sperimentarne il sueño, ossia il lato immaginario, mostruoso.
L'informe può così nascere, ad esempio, defamiliarizzando lo sguardo sulla forma, come nel caso della risposta di Goya al famoso Torso di Belvedere. Il Torso è notoriamente mutilato, privo di testa, braccia e gambe, ma ciononostante Winckelmann, nella Storia dell'arte nell'antichità (1764), ha eletto questo corpo a suprema incarnazione della forma classica, a 'statua vivente' che ne testimonia il perdurare come modello estetico. Quatremère de Quincy coglie del resto proprio il senso di questa operazione quando elogia Winckelmann per essere "parvenu à faire un corps de ce qui n'était qu'un amas de débris"9.
In una delle incisioni nella serie I disastri della guerra, Goya cita esplicitamente questo modello classico, ma ne stravolge completamente il senso e ne fa emergere il lato 'informe': il busto ricompare come il cadavere mutilato di un insorto impalato ad un albero, con il corpo trapassato da un ramo appuntito che lo attraversa dall'ano alle scapole. Goya violenta in questo modo la forma attraverso il suo corpo più paradigmatico: il Torso è palesemente 'declassato' (umiliato); passa dalla condizione di statua sublimata a quella di corpo materiale, che addirittura non è nemmeno 'vivente' ma degradato a cadavere; e soprattutto, Goya sembra indicare che il suo essere informe non dipende necessariamente da una mutilazione della 'forma', tant'è vero che egli ne integra le parti mancanti aggiungendo la testa e le gambe, ossia mimando quell'operazione di recupero svolta invece a livello idealizzante dalla ricezione di Winckelmann, che vedeva la totalità in luogo della sua frammentazione10. L'informe non è perciò un aspetto del Torso, ma è l'atto che esibisce come una forma (quella classica, normativa in questo caso) sia 'assassinata' per far nascere una versione diversa: ucciderla significa solo 'sognarla' in un altro modo, far emergere un diverso immaginario da quella 'ragione'. L'oggetto è lo stesso per Winckelmann e per Goya, ma Goya vi vede una 'macchia', una potenzialità di formazione diversa, letteralmente (visivamente) stravolta.
Significativamente, quando nell'Ottocento Pater celebrerà l'ideale estetico di Winckelmann, sarà proprio il dettaglio ingigantito di una 'macchia' corporea a dire la necessità, per il moderno, di un confronto ormai irrevocabile con l'informe: l'immagine scelta da Pater per visualizzarlo, come più tardi accadrà nei Documents, è appunto quella di un'apertura sull'informe, la bocca sanguinante di Fantine nei Miserabili di Hugo: "he [Winckelmann] could hardly have conceived of the subtle and penetrative, yet somewhat grotesque art of the modern world. What would he have thought [...] of the bleeding mouth of Fantine in the first part of Les Miserables [...]?"11.
Nell'Ottocento in effetti l'attenzione all'informe è divenuta pervasiva, e gli esempi potrebbero essere innumerevoli: da Ruskin, che nota come Turner sia affascinato dai detriti: "Turner devoted picture after picture to the illustration of the effects of dinginess, smoke, soot, dust, and dusty-texture; old sides of boots, weedy roadside vegetation, dung-hills, straw-yards, and all the soilings and stains of every common labour"12; all'Olympia di Manet, - su cui si soffermano i Documents13 -, definita dai suoi contemporanei, in linea con il 'vocabolario' dell'informe, "una ragnatela sul soffitto"14.
La rivista Documents sceglie da una parte di testimoniare questa contro-storia dell'arte: vi compaiono, cosa inusitata per l'epoca, contributi sulle carceri di Piranesi, emblema di una creazione basata sull'entropia, sullo spreco, la decomposizione e lo scarto; sull'alterazione grottesca che da Goya è passata nell'800 a Grandville; sulle teste deformate di Messerschmidt, ecc15. Tutto questo accanto agli esempi più rappresentativi della cosiddetta 'arte modernista'.
La strategia adottata dalla rivista si spinge però anche molto più in là: per aprire il campo immaginario delle forme, occorre metterle in gioco in un modo che sia radicalmente diverso, cioè creare 'passaggi' con ambiti sinora ignorati o disprezzati. In altre parole, la domanda o il bisogno a cui le immagini rispondono non va più confinato al dominio estetico, alla storia dell'arte, ma deve acquistare una portata che potremmo chiamare 'antropologica'. Anche l'iconografia in quanto disciplina è una 'forma', un corpus, una 'redingote' del sapere, che trova quindi i propri fantasmi o residui in tutto un altro repertorio di immagini 'messe a morte' per garantirne l'esistenza.
L'operazione in questo caso è duplice. Da una parte, si tratta di mettere in contatto immagini provenienti da ambiti eterogenei: accostare ad esempio la deformazione corporea dell'arte di Picasso alle illustrazioni mediche dei mostri gemellari, o il taglio della carne animale documentato nell'abattoir a quello estetizzato delle gambe femminili al Moulin Rouge, visti entrambi quali espressioni di una danza macabra fra desiderio e morte.
In base a questa strategia, la grande arte è allora combinata con fotografie ingigantite di alluci, pezzi di artigianato locale, copertine di fumetti o feuilletons dedicati a Fantomas, Nick Carter o ad altri protagonisti dell'immaginario popolare, scenari hollywoodiani, divi del cinema e del music-hall. Dall'altra parte, occorre far irrompere, dentro al sistema già così ampliato delle forme occidentali, un diverso 'fantasma' etnografico, fatto di riti, artefatti, miti di culture cosiddette primitive o barbare (non occidentali), che assumono qui una dimensione espressiva e un valore immaginario, anziché meramente documentario come vorrebbe la scienza antropologica.
Potremmo dire che queste forme sono tutte allineate allo statuto di 'documenti', anche se il loro accostamento inaspettato e arbitrario ha piuttosto la funzione di 'documentare' i passaggi dell'informe. Implicitamente (dal momento che la rivista rifiuta qualunque spiegazione didascalica sulla logica che presiede al proprio montaggio di forme) lo sguardo sull'arte è chiamato ad acquistare una dimensione antropologica, capace, in virtù dello straniamento, di inquietare la 'bella forma'; per converso, lo sguardo sull'immagine documentaria è sollecitato a percepire non il mero fatto, ma la sua componente 'estetica', immaginaria. Va comunque sottolineato che questo incrocio di prospettive non comporta né l'estetizzazione dell'oggetto primitivo - ossia la sua decontestualizzazione, tipica di altre esperienze surrealiste - né l'enfasi sul suo valore d'uso, cioè la ricontestualizzazione in termini di funzione come volevano i 'Musei dell'Uomo'16. In gioco c'è invece il ruolo dell'immaginario antropologico, da intendersi secondo quella peculiare combinazione fra valore d'uso e valore legato all'investimento del desiderio che Bataille riassume nella sovradeterminazione dell'immagine-feticcio: "Je défie n'importe quel amateur de peinture d'aimer une toile autant qu'un fétichiste aime une chaussure"17.
L'assenza di ogni intento ordinatore è fondamentale in questa strategia, che adotta deliberatamente i modi del collage non finito e del montaggio di frammenti al fine di produrre uno shock percettivo, una diversa rete di somiglianze e differenze. Il modello del corpo/corpus, fondamento dell'umanesimo, viene dunque aperto, smontato, sottratto alla sua presunta naturalità per essere riproposto come struttura di incorporazione immaginaria, in cui l'integrità della forma appare lacerata da sintomi e cicatrici. Il progetto dei Documents mira in tal senso a mostrare tutto, le forme e i loro fantasmi, offrendo una storia dell'immagine per montaggio che implicitamente scardina anche ogni racconto evoluzionistico sul divenire delle forme artistiche.
Attraverso il montaggio, spazio e tempo vengono infatti ripensati come un nodo, un'incorporazione. La tecnica dei Documents è qui in parte analoga a quella sperimentata dall'estetica delle avanguardie e soprattutto dal cinema, come del resto sembra dichiarare la rivista stessa accogliendo al suo interno, quasi en abîme, fotogrammi di Eisenstein incaricati di illustrare il principio dello shock visivo e spazio-temporale18. La voce "Espace" del 'Dizionario' sceglie però di visualizzare questo processo attraverso una serie di immagini dedicate a "tutti i modi di essere dentro", laddove la frontiera stessa fra interno ed esterno, contenitore e contenuto, primitivo e civilizzato appare tuttavia in tensione o addirittura rovesciata.
L'esperienza specifica dei Documents è destinata a esaurirsi quando Bataille, dopo soli due anni, ne lascia la direzione, ma ciò che più conta per capire il senso rivoluzionario di quella proposta è che l'esigenza di fondo consegnata da Bataille all'operazione dell'informe trova conferma in altre figure che negli stessi anni, sebbene per scopi e ambiti diversi, invocavano un analogo ripensamento della cultura umanistica all'insegna dell'immaginario. Sempre nel campo degli studi sull'arte è questo ad esempio il caso di Aby Warburg, il cui obiettivo è apparentemente anni luce distante dall'estetica trasgressiva dei Documents: la sua attenzione si rivolge infatti al Rinascimento, dunque alla massima esplicitazione della bella forma accademica, e al tema delle risorgenze, o meglio della vita postuma (Nachleben) del paganesimo in quella cultura. Anche qui, sulla scia nietzschiana, il mondo classico è visto tuttavia da Warburg non soltanto come luogo apollineo ma come esperienza inquietante, panica, del dionisiaco.
L'insoddisfazione nei confronti di una storia dell'arte estetizzante lo spinge però ad una metodologia che, come quella di Bataille, mira a trasgredire e ad aprire i campi disciplinari tradizionali. Chiede pertanto alla medicina e all'antropologia strumenti per elaborare un diverso sguardo sull'immagine, intesa non come semplice esercizio estetico ma come sintomo culturale. è in definitiva un intero quadro conoscitivo a dover essere reimpostato con criteri nuovi, in base a una "scienza senza nome"19 che Warburg stesso descrive come il tentativo di "diagnosticare la schizofrenia della cultura Occidentale attraverso le sue immagini"20. Si tratta cioè, anche in questo caso, di aprire il campo della forma (dell'immagine) al suo residuo o risvolto 'malato': quelli che per Bataille erano fantasmi di forme sacrificate (assassinate da una forma precisa), qui ritornano come sintomi dell'immagine stessa, secondo un modello patologico che, come è stato da più parti osservato, rende il corpo dell'arte analogo a quello dell'isteria, il cui teatro di sintomi veniva in quegli anni esibito da Charcot alla Salpêtrière o reinterpretato come scenario interiore da Freud21.
Dov'è allora per Warburg l'informe dell'immagine, il luogo della sua inquietudine? Anche laddove trionfa la bella forma accademica, Warburg lo individua nelle deformazioni che agitano i confini dei corpi, le loro soglie: in un famoso saggio del 1893 dedicato a Botticelli, egli si sofferma sul movimento dei capelli e dei drappi nella Venere e nella Primavera, osservando come questi "inerti accessori" acquistino una valenza organica, incaricandosi di manifestare "la parvenza di una vita intensificata"22. Se il corpo al centro rimane una forma sublimata immune dal pathos e dal desiderio, le pieghe delle vesti e i movimenti dei capelli producono invece alla periferia del corpo stesso un diverso gioco informe, che è anche il luogo della risorgenza fantasmatica del primitivo (dell'antico 'dionisiaco') nel corpo dell'arte. Emerge la visione di un Rinascimento 'impuro', e dunque, come in Bataille, di un'origine stessa dell'umanesimo antropocentrico come tensione dialettica, dove una bella forma rinasce ma un'altra sopravvive come fantasma, mantenendo una vita postuma residuale e marginale.
L'intera tradizione appare così attraversata da quella che Warburg chiama una "dialettica del mostro", una "perturbante dualità"23, per cui la bellezza nata per reprimere l'orrore lo fa contemporaneamente esplodere: la vita viscerale, pulsionale e desiderante del corpo persiste nei fantasmi della forma, tanto che persino gli oggetti inerti si animano di vita spettrale diventando un prolungamento fisiologico del corpo, della sua materia. Adottare una visione di questo tipo significa chiaramente mutare i parametri stessi del rapporto con le immagini, privilegiando ancora una volta i loro processi di formazione e il bisogno antropologico cui esse rispondono: nel caso di Botticelli, la mobilità dei confini corporei non pone infatti solo un problema stilistico-formale, ma è il sintomo del mutato orientamento emotivo di un'intera società. Per questo Warburg interroga gli archivi, i testi, gli artefatti, i miti e i riti sociali che hanno trovato il loro punto di sedimentazione nel corpo dell'immagine, sebbene ve ne resti solo una traccia sintomale. Ne nasce un'archeologia della cultura, che vede forse nella biblioteca ideata da Warburg l'equivalente conoscitivo del progetto batalliano dei Documents: la biblioteca di Amburgo (1900-1906), poi trasferita a Londra nell'edificio che oggi ospita il Warburg Institute, è pensata come un luogo per documentare dei bisogni, e a tal fine la disposizione dei volumi predilige, rispetto alle "redingote matematiche" dei confini disciplinari, l'accostamento o montaggio 'informe' di materiali eterogenei, capaci di disegnare un'inaspettata costellazione di problemi24.
Questa visione antropologica dell'immagine si rafforza dopo il viaggio di Warburg nel Nuovo Messico nel 1895-96, dove la ritualità, i gesti, il mondo di emozioni primitive e violente degli indiani gli forniscono una diversa prospettiva sul Rinascimento fiorentino, quasi che il passato fosse illuminato dall'altrove25. In sintonia con l'atteggiamento dei Documents, anche qui l'accostamento etnografico non si pone l'obiettivo di far emergere delle invarianti, ma di introdurre differenze in seno all'identico; in altre parole, Warburg non è alla ricerca di archetipi o miti che si sottraggano al tempo, perché le immagini mantengono per lui un valore storico, documentano cioè i nodi temporali presenti nell'immaginario di una data cultura.
L'idea di un dispositivo antropologico che renda conto delle formazioni artistiche assume allora gradatamente i contorni di un progetto, iniziato negli anni '20 e destinato a rimanere incompiuto alla morte di Warburg nel '29. Si tratta di un atlante delle immagini, che prende deliberatamente in prestito il modello di esibizione di 'documenti' tipico degli atlanti etnografici26: prevede infatti una serie di pannelli neri su cui sono accostati, senza alcun ordine cronologico e senza commento, documenti iconografici tratti dalla storia dell'arte, montati insieme a francobolli, monete, immagini mediche, illustrazioni di moderne affiches pubblicitarie, o fotografie di eventi contemporanei. Warburg battezza il progetto Mnemosyne, definendolo "una storia di fantasmi per adulti"27: con i Documents esso sembra in effetti condividere l'idea di una contro-storia dell'arte vista dalla prospettiva dello scarto, delle risorgenze informi e fantasmatiche. Warburg ricerca la "formula del pathos" (Pathosformel), il luogo cioè dove i sintomi dell'informe sono migrati, garantendo al primitivo una vita postuma che si è sedimentata, mutando plasticamente di forma, fino a riemergere nel moderno. La tecnica del montaggio (oltretutto mobile: le immagini erano pensate da Warburg per essere spostate nel momento in cui si definiva una nuova configurazione), privilegia anche qui, come nei Documents, il declassamento delle belle forme a favore di una circolazione dei rapporti tra forme, che dia modo all'immaginario della cultura di dispiegarsi attraverso i suoi residui.
L'immaginario iconografico scatena in quest'ottica un tempo diverso da quello cronologico delle imitazioni e dei 'rinascimenti': siamo di fronte a un nodo temporale in cui sopravvivono forme del passato, che si trascinano nel presente e lo intersecano; ad un tempo e uno spazio che ne incorporano un altro, non per abolire tempo e spazio, ma per stratificarli in modo diverso anche in relazione al presente. L'emergere di senso in una cultura è infatti molto spesso consegnato al sintomo, all'impensato, all'anacronismo di quella cultura.
La storia di fantasmi per adulti è, come detto, un progetto destinato a rimanere incompiuto, o forse nato includendo l'incompletezza e la mobilità nelle sue stesse premesse: storia senza 'forma', senza 'soggetto'. Un'analoga soluzione 'informe' caratterizza, sempre in quegli anni, anche l'esperienza di apertura dell'immagine-corpo formulata da Walter Benjamin, legandola direttamente sia al contesto warburghiano28 sia alla tecnica 'surrealista', che egli deliberatamente trasforma in un principio non estetico ma conoscitivo. Nei "Passages" di Parigi, avviati nel 1927 e rimasti incompiuti per via del suicidio di Benjamin nel '40, l'immagine informe, dialettica, abitata da fantasmi, diventa un vero e proprio strumento di indagine antropologica sull'Ottocento, che coinvolge più massicciamente la letteratura oltre alle altre scienze umane. Si tratta, dice Benjamin esplicitamente, di "fare della storia con i detriti stessi della storia"29; altrove parla dei suoi oggetti come "stracci e rifiuti", allineati "non per descriverli, bensì per mostrarli"; o ancora di uno "sfruttamento intensivo dei rifiuti"30. Assistiamo allora all'emergere dello storico della cultura come cenciaiolo, raccoglitore di stracci31. La storia appare per 'immagini' volutamente montate senza commento ("non ho niente da dire, solo da mostrare"), che rifiutano l'idea di una costruzione organica nonostante adottino, ancora una volta, il paradigma del corpo. Siamo però davanti ad un corpo collettivo, che ha perso completamente la frontiera divisoria fra interno ed esterno per fare di strade, architetture, mode, oggetti, l'equivalente dei suoi processi fisiologici; ci misuriamo insomma con una struttura interamente costituita di soglie, bocche, "passaggi" da forma a forma che rispondono, come nei Documents, alla strategia di voler 'mostrare tutto'. Anche qui la relazione alle immagini è dettata dal desiderio, dall'immaginario: "le epoche, le correnti, le civiltà sono viste nella prospettiva della vita corporea"32. Il bisogno a cui esse rispondono è cioè simile a quello che Bataille riconosceva nell'amore del feticista per la scarpa: tutta una serie di oggetti 'banali' (dalle stoffe, all'arredamento, alle fogge degli abiti, agli astucci, alla polvere, alle bambole, ecc.) trovano così posto accanto alle immagini più tradizionali della cultura e dell'arte ottocentesca, come del resto accade per il feuilleton rispetto alla letteratura 'alta'; l'informe declassa, sposta lo sguardo là dove c'è un immaginario in formazione. Analogamente ai capelli e agli abiti che Warburg individuava come oggetti inerti che si animavano di vita organica, questo repertorio disegna una geografia del pathos, una mappa dei luoghi-sintomo.
L'informe diventa dunque anche nei Passaggi di Benjamin un oggetto di rappresentazione: esemplare il caso delle strade, che acquistano una dimensione corporea-tattile: "chi voglia sapere quanto siamo di casa nelle viscere, deve farsi prendere dalla vertigine delle strade"33. Così come lo sguardo di Bataille gettava luce sull'informe dentro la tradizione iconografica, quello di Benjamin consente ora l'apertura verso processi dell'informe già resi 'immagine' da molta letteratura ottocentesca, ma non ancora pervenuti alla leggibilità della storia. Benjamin fa riferimento soprattutto alle descrizioni di Hugo, che aveva parlato dell'intestino della città, della figura umana trasformata in fango nelle viscere sotterranee34; ma la stessa insistenza sui luoghi patologici della città era presente in Dickens (vedi i cumuli di polvere e le metamorfosi del cadavere ripescato dal fiume in Our Mutual Friend); o nella testimonianza documentaria di Mayhew London Labour and the London Poor, dove le strade di Londra erano labirinti organici percorsi da "ragpickers" e "dustmen"35. Sono immagini tradizionalmente ascritte al 'realismo', ma anche qui occorre adottare la stessa strategia che Bataille adotta verso il 'documento', trasformato da apparente copia della realtà in un dispositivo espressivo e immaginario: si pensi, in ambito figurativo, al 'raccoglitore di ossa' ritratto da Nadar nel reportage fotografico sulle catacombe di Parigi e ai The Rag Gatherers di Whistler, che presuppongono lo sguardo dello storico-cenciaiolo36.
A ciò si aggiunge una temporalità delle immagini del tutto affine a quella che Warburg percepiva come dominata dal Nachleben, dalla vita postuma. Benjamin definisce l'immagine "dialettica", proprio perché capace, pur nella sua storicità antropologica, di testimoniare contemporaneamente un anacronismo che ha una specifica evidenza sintomale. Se per Bataille una forma ne uccide un'altra e per Warburg la forma morta continua a manifestarsi nei sintomi-fantasma, in Benjamin l'immagine si conferma una tensione irrisolta di tempi e spazi, un corpo segnato dal conflitto tra forme.
Così come la nozione di informe ha creato, per queste tre figure, le condizioni della propria storia e della propria leggibilità, allo stesso modo oggi sembrano essersi create le condizioni per leggere Bataille, Warburg e Benjamin e cogliere pienamente il valore da loro accordato all'immaginario culturale37. Essi si sono interrogati su ciò che oggi chiameremmo uno 'studio culturale' della tradizione, facendo dialogare i saperi senza abolire né le competenze disciplinari né il ruolo della mediazione estetica (dopotutto anche i Documents mantengono le 'beaux-arts'), ma piuttosto ripensando radicalmente i parametri con cui essi potevano essere messi in gioco. Il ritardo che ha caratterizzato la nostra comprensione della portata rivoluzionaria del loro dibattito, certo imputabile anche alla drammaticità degli eventi nel primo Novecento, ci ha impedito fino a tempi recenti di cogliere appieno la novità dirompente del loro dialogo con il passato. Il loro recupero solo ai giorni nostri testimonia fra l'altro l'incapacità della cultura europea di mettere in discussione se stessa, e di affrontare compiutamente una riflessione sulla modernità; da qui occorre forse ripartire per riconfigurare in modo più produttivo gli attuali studi culturali.
NOTE
1 Georges Bataille, "Informe", in Documents, n. 7, 1929, p. 382; cito dalla ristampa anastatica della rivista, Paris, éditions Jean-Michel Place, 1991, 2 voll.
2 C. Einstein, "L'enfance néolithique", Documents, 1930, n. 8, p. 479.
3 L'informe non è dunque un aggettivo o un concetto; Yve-Alain Bois ha recentemente proposto di considerarlo nei termini di un performativo, che "non ha altra esistenza che quella operatoria": cfr. Bois, "Il valore d'uso dell'informe", in Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, L'informe (1997), Milano, Mondadori, 2003, pp. 1-32, p. 7. In tal senso ci sembra possibile attribuirgli lo stesso compito che Blanchot assegna alla parola 'frammento', quando la definisce un sostantivo che acquista però "la forza di un verbo, ma di un verbo assente: frantumazione, tracce senza resti [...]. Ciò che rende difficile concepirlo è l'esigenza della comprensione in virtù della quale non è possibile conoscenza se non del tutto, come la vista è sempre vista d'insieme"; cfr. Maurice Blanchot, "La parola frammentaria", in L'infinito intrattenimento (1969), Torino, Einaudi, 1977, p. 49. Come 'frammento', 'informe' è un aggettivo 'assente', che invita a guardare alle immagini a partire non dall'esigenza di una forma o del suo contrario, ma dall'informare come processo.
4 S. Agostino, Le Confessioni, XII, vi, 6, edizione a cura di Carlo Vitali con testo latino a fronte, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 599-601.
5 Cfr. il saggio di Georges Didi-Huberman, La Ressemblance Informe ou le Gai Savoir visuel selon Georges Bataille, Paris, Macula, 1995.
6 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, n. 63. La relazione fra le macchie di Leonardo e l'informe è proposta da Elio Grazioli nel suo recente La polvere nell'arte, Milano, Mondadori, 2004, pp. 9-10.
7 Cfr. Georges Limbour, "Paul Klee", Documents, n. 1, Aprile 1929, pp. 53-54.
8 Denis Diderot, Salon de 1763, in Oeuvres Complètes, Paris, Garnier, 1965, p. 564.
9 A. C. Quatremère de Quincy, Lettres à Miranda sur le déplacement des monuments de l'art de l'Italie (1796), Paris, Macula, 1989, p. 103.
10 La ripresa 'parodica' del Torso da parte di Goya è discussa da Victor I. Stoichita in L'ultimo carnevale, Milano, Il Saggiatore, 2002, in una sezione intitolata significativamente "Forma e informe" (pp. 99-110), che non cita comunque Bataille ma preferisce associare questa inversione del modello ai rovesciamenti parodistico-grotteschi tipici della 'carnevalizzazione' della pittura.
11 Walter Pater, The Renaissance (1873), Oxford, Oxford University Press, 1986, p. 143.
12 John Ruskin, Modern Painters (libro 5), in Works, Library Edition, a cura di E.T. Cook e Alexander Wedderburn, London, Longmans, Green, 39 voll., 1907, vol. 7, p. 377.
13 Marie Elbé, "Manet et la critique de son temps", Documents, n. 2, 1930, pp. 84-90; Bataille ritornerà come è noto sulla modernità di Olympia nel testo Manet, Genève, Skira, 1955.
14 Cit. in T.J. Clark, The Painting of Modern Life: Paris in the Arts of Manet and His Followers, New York, Alfred Knopf, 1985, p. 85.
15 Nell'ordine: Henry-Charles Puech, "Les prisons de Jean-Baptiste Piranèse", n. 4, 1930, pp. 199-204; Jean Bourdeillette, "Franz Xavier Messerschmidt", n. 8, 1930, pp. 467-471. I riferimenti alle illustrazioni di Grandville sono molteplici; valga per tutti quello scelto da Georges Bataille per illustrare la voce "Musée" nel Dizionario del n. 5, 1930, p. 300.
16 Sull'interazione proficua fra antropologia ed estetica nei Documents, a maggior ragione in un'epoca che preludeva all'istituzionalizzazione delle stesse 'scienze etnografiche', con conseguente chiusura dei confini disciplinari, si sofferma James Clifford in "Sul surrealismo etnografico", in I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX (1988), Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 143-178. In disaccordo con la sua visione sincretica è invece Denis Hollier, in "La valeur d'usage de l'impossible", prefazione alla ristampa anastatica di Documents, op. cit., pp. vii- xxxiii.
17 Georges Bataille, "L'esprit moderne et le jeu des transpositions", Documents, n. 8, 1930, p. 48.
18 Cfr. Robert Desnos, "La ligne génèrale", Documents, n. 4, 1930, pp. 217-221.
19 Vedi in proposito il saggio di Giorgio Agamben "Aby Warburg e la scienza senza nome", in Aut aut, 199-200, gennaio-aprile 1984, pp. 51-66.
20 Cit. in E. H. Gombrich, Aby Warburg: Una biografia intellettuale (1970), Milano, Feltrinelli, 1983, p. 258.
21 Su Warburg e Charcot vedi Sigrid Schade, "Charcot and the Spectacle of the Hysterical Body. The "Pathos Formula" as an Aesthetic Staging of Psychiatric Discourse - a Blind Spot in the Reception of Warburg", (1993), Art History, vol. 18, 1995, pp. 499-517. Georges Didi-Huberman discute più ampiamente i legami fra Warburg, Charcot e Freud nella monografia dedicata a Warburg L'image survivante, Paris, Les éditions de Minuit, 2002.
22 Aby Warburg, "La "Nascita di Venere" e la "Primavera" di Sandro Botticelli", in Opere, Aragno Editore, 2004, vol. 1, pp. 87 e 148.
23 Cit. in Gombrich, op. cit., p. 218.
24 Più in generale, è a questo ampliamento di prospettiva che corrisponde la scienza dell'"iconologia", di cui Warburg è considerato il fondatore.
25 Sul viaggio di Warburg come incorporazione del perturbante e dell'estraneità cfr. Alessandro Dal Lago, "L'arcaico e il suo doppio. Aby Warburg e l'antropologia", in Aut aut, 199-200, gennaio-aprile 1984, pp. 67-91.
26 Philippe-Alain Michaud concorda con questa fonte ma suggerisce anche, come nel caso dei Documents, il modello del montaggio cinematografico, vedendo nell'opera di Jean-Luc Godard Histoire(s) du cinéma, realizzata settant'anni dopo Mnemosyne, una sorta di fusione fra i due progetti; Cfr. "Zwischenreich. Mnemosyne, o l'espressività senza oggetto", in Ipso-Facto, n. 7, Maggio-Agosto 2000, pp. 46-65. Su Godard e Warburg è ritornato anche Georges Didi-Huberman nel recente Images malgré tout, Paris, Les éditions de Minuit, 2003, in particolare nel cap. "Image-montage ou image-mensonge", pp. 151-187.
27 Aby Warburg, Mnemosyne. Grundbegriffe, II, 2 luglio 1929, p. 3, London, Warburg Institute Archive, III, 102.4. L'atlante è disponibile in italiano, col titolo Mnemosyne. L'atlante delle immagini, nell'edizione Aragno, 2002; nello stesso anno è uscita, per Mondadori, un'Introduzione ad Aby Warburg e all'Atlante della Memoria di Kurt W. Forster e Katia Mazzucco.
28 Sui rapporti fra Benjamin e il circolo di Warburg si sofferma Ezio Raimondi in "Benjamin, Riegl e la filologia", in Le pietre del sogno, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 159-197.
29 "Créer de l'histoire avec le détritus même de l'histoire"; si tratta di una citazione da Rémy de Gourmont che Benjamin pone in epigrafe alla sezione "Pittura, art nouveau, novità" dei "Passages" di Parigi; in Opere Complete, Torino, Einaudi, 2000, vol. IX, p. 607.
30 Ibid., pp. 941-42.
31 La figura del cenciaiolo compare nella recensione di Benjamin al testo di Kracauer Impiegati; cfr. "Un isolato si fa notare. A proposito degli Impiegati di Kracauer", in Walter Benjamin, Opere complete, cit., vol. IV, p. 144.
32 Walter Benjamin, I "Passages" di Parigi, op. cit., p. 923.
33 Ibid., p. 582.
34 Cfr. la sezione dei Passages dedicata alle "Strade di Parigi", ibid., pp. 578-589.
35 Un primo tentativo di tracciare una storia artistico-letteraria dell'informe nell'Ottocento, dichiaratamente ispirata a Bataille, è stato offerto da David Trotter in Cooking with Mud. The Idea of Mess in Nineteenth-Century Art and Fiction, Oxford, Oxford University Press, 2000.
36 Michael Fried ha parlato, a proposito dei Rag Gatherers di Whistler, proprio di un'immagine che ambisce a farsi corpo, per cui gli stracci e le stesse architetture assumono in queste incisioni la consistenza di organi corporei aperti e sfilacciati (informi); Cfr. Fried, Manet's Modernism: or the Face of Painting in the 1860s, Chicago, University of Chicago Press, 1996, pp. 384-385.
37 Un chiaro segnale del recupero in chiave nuova, oltre che delle singole figure, dell'orizzonte comune alle loro prospettive è ad esempio offerto dal recentissimo numero che la rivista Aut aut ha dedicato a "Aby Warburg e la dialettica dell'immagine", n. 321-322, maggio-agosto 2004.
(Il web design di questo articolo è a cura di Sara Damiani e Laura Sottocornola, che ringrazio per il tempo e l'attenzione dedicatimi.)
© 2004 Alessandra Violi