Publifarum n° 13 - Variations autour d'Agota Kristof

La clé de l’ascenseur

Elisabetta LONGONI


Abstract
Agota Kristof with the theatre play “La Clé de l’Ascenseur” wants to tell, in the theatre of Cruelty, as a women dream of love could become a tragedy almost involuntarily. Mixing well the poetry of a fairy tale with the anxiety of the events recounted, we reach the final liberation.

Questa pièce, scritta nel 1977, è stata messa in scena per la prima volta al Teatro Popolare Romando nel 1990 in una rappresentazione di Charles Joris, realizzata da France-Culture.
Presentata successivamente al festival di Blaye nel 1994 dalla compagnia Prétexte & Co di Troyes, La Clé de l’ascenseur è stata oggetto di molte rappresentazioni in Francia, Svizzera, Germania e Giappone.
A dare inizio alla storia è la fiaba, molto poetica, di una castellana che attende il suo principe invano. Invecchiando continuerà ad aspettarlo, ma morirà senza realizzare il suo sogno d’amore. Alcuni passaggi racchiudono una forte poeticità, come ad esempio:

Il y avait une fois une belle et jeune châtelaine. Aux confins d’un pays montagneux, dans son château perché au sommet d’un haut rocher, elle rêvait, elle attendait.
Un jour d’hiver où la tempête de neige faisait rage, un étranger frappa à la porte du château. C’était un homme jeune, beau, et, en le voyant, la châtelaine sut qu’il était celui qu’elle attendait.
[…]
Par la fenêtre, la châtelaine le suivit des yeux, de ses yeux pleins de larmes, en agitant son mouchoir brodé encore longtemps après que la silhouette noire du prince eut disparu dans les brumes de la plaine.
La plaine se couvrit bientôt d’une couleur verte, violente, qu’adoucissaient par placet une tache de colza jaune et la blancheur tendre des marguerites sauvages.
[…]
Sur le visage sans soleil des nuits, tombaient les étoiles filantes. Dans les lacs sombres, dans les forêts profondes, les étoiles tombaient comme des larmes.
La lune illuminait la plaine immobile avec une indifférence cruelle tandis que le paysage se tordait dans d’indicibles souffrances et qu’une angoisse sans nom circulait dans les arbres.
[…]
Les jours, interminables, se fondaient l’un dans l’autre, se fondaient dans les nuits, dans la grisaille du ciel, dans la blancheur vierge de la plaine.1

Come si può notare, la scelta del vocabolario utilizzato, ad esempio nella ricchissima citazione di colori, i verbi utilizzati e soprattutto il tempo verbale usato, il passato remoto, sembrano voler definire questo estratto come un bellissimo esempio di poesia.
Il linguaggio qui scelto induce pace nello spettatore e nel lettore, ma fa intravedere qualcosa di terribile:

Plus tard, des années plus tard, la châtelaine fit des cauchemars: cheval blanc, cheval fou, galopant sans selle dans l’immensité de la plaine sauvage, s’arrêtant sous les fenêtres du château, hennissant, hurlant à la lune, comme les chiens, comme les loups.2

Allo stesso modo la protagonista della pièce aspetta il suo “principe” che però, lei dice, “fortunatamente” la sera rincasa sempre.
Ciò che rende questa pièce terribile e angosciante e che la avvicina molto al Teatro della Crudeltà è proprio la demolizione psicologica di una persona che si realizza nella mutilazione fisica del corpo della donna.
Il fatto che sia il marito il solo a possedere le chiavi dell’ascensore, unica via di fuga dall’abitazione dei due coniugi, e che lui stesso arrivi a giustificare una serie di mutilazioni al corpo della donna – prima le impedirà di camminare, poi di sentire, poi di vedere – con la motivazione di fare tutto ciò per amore nei confronti della moglie, conduce il lettore e lo spettatore a coglierne un senso più profondo.
La donna in questione si ribellerà all’esistenza che il marito le ha voluto creare solo alla fine della pièce, quando, convinta che vogliano toglierle anche l’ultima cosa a lei rimasta, ossia la voce, ucciderà il marito e griderà il suo dolore e la sua storia alla finestra, sperando che ciò possa essere d’esempio ad altre donne o persone nella sua stessa condizione.

LE MÉDECIN: Attention! Jacques! Attention! Le bisturi! Elle l’a pris! Jacques…!

La femme a enfoncé le bisturi dans le dos de son mari. Le mari s’écroule. Le médecin se penche sur le corps. La femme ouvre la fenêtre, par la quelle entre le bruit lointain d’une grande ville et d’une autoroute toute proche.

Jacques! Elle t’a tué, cette… cette horrible femme…

LA FEMME: (Doucement) Non, pas ma voix. Même si je ne l’entends plus, d’autres pourront l’entendre. Quelqu’un d’autre… Beaucoup d’autres… (Crescendo) Il faut que je leur dise… Je vais tout leur dire… Écoutez-moi!3

Il fatto che solo il medico e il marito siano chiamati con dei nomi propri, rispettivamente Claude e Jacques, sottolinea come la donna-moglie sia considerata qui solo per il ruolo che svolge e non in quanto persona con dei sentimenti e un’emotività.
Questa pièce è stata studiata secondo me dall’autrice in modo da ottenere uno sviluppo ben strutturato: inizia con una fiaba poetica e sentimentale, che crea nel lettore l’emotività giusta per affrontare il resto del testo, per concludersi con un crescendo di agonia e angoscia dovuto alla sofferenza fisica e morale che la donna subisce senza essere in grado di ribellarsi.
Come in tutte le pièces di Agota Kristof, anche qui il linguaggio e la parola sono fondamentali; il suo è un teatro fatto di testo, che ritma le emozioni sostituendo la musica con le parole.
Il marito ci fa credere in certi momenti di amare davvero la donna e di comportarsi in questo modo per amore nei suoi confronti, senza considerare il fatto che non può esserci amore quando si toglie la dignità alla persona che si dice di amare:

LE MARI (Comme plus haut) Si nous voulons préserver notre amour… Cela n’est rien, ma chérie. Pense à notre bonheur. Je suis là. Nous nous aimons.4

Dicendo queste frasi il marito pensa di giustificare le sue azioni egoistiche nei confronti della moglie.
Per un momento il marito sembra quasi accorgersi della reale sofferenza della donna e infatti dice:

LE MARI Oui, car on dirait… on dirait qu’elle souffre.
LE MEDECIN De quoi pourrait-elle encore souffrir?
LA FEMME Chéri? Tu es là? (Elle tend les bras vers son mari.)
LE MEDECIN C’est surtout pour toi que cela est pénible.
LA FEMME Tu es là, mon prince? Viens. Approche-toi.
LE MARI Quand elle hurle comme ça, j’ai l’impression qu’elle n’est pas contente.
LE MEDECIN Pas contente? La question n’est plus là. Elle n’a jamais été contente. On s’est assez occupé d’elle. A présent, c’est ta tranquillité à toi qui est en jeu.

La femme «écoute», penchée en avant, comme une bête.

LE MARI Ma tranquillité n’a pas d’importance: Mais je ne peux pas l’entendre souffrir comme ça.5

In questa opera teatrale vengono toccati molti temi legati alla condizione umana e alle violenze psicologiche, simbolicamente rappresentate da mutilazioni fisiche, che spesso si realizzano anche tra le mura familiari. In certi momenti si può parlare anche di senso di possesso portato all’estremo da un lato e di privazione di ogni diritto dall’altro, fino alla cancellazione dell’identità umana e di donna.
Tutta l’opera contiene una forte musicalità sottolineata anche dalle note esplicative, come si può notare in questo esempio, battuta finale della donna:

LA FEMME (Doucement) Non, pas ma voix. Même si je ne l’entends plus, d’autres pourront l’entendre. Quelqu’un d’autre… Beaucoup d’autres… (Crescendo) Il faut que je leur dise… Je vais tout leur dire… Ecoutez-moi!6

Questo finale scuote e ribalta, a mio parere, il pessimismo che ha caratterizzato un po’ tutta l’opera, trasmettendo la speranza che l’esperienza della protagonista possa forse servire ad altri per non commettere lo stesso errore di sottomissione passiva.
In Italia, questa stessa opera è stata messa in scena, oltre che da Guglielmo Ferro, anche da Monica Conti. Mi soffermerò a valutare più da vicino questa rappresentazione della pièce, nella quale il finale verrà interpretato in maniera diversa e cambiato rispetto al testo.

L’opera di Agota Kristof, che crea senz’altro un forte impatto emotivo, è stata rivisitata dalla regista italiana per realizzare lo studio per uno spettacolo, La Chiave dell’ascensore. La rappresentazione è stata magnificamente interpretata da Carla Chiarelli nel ruolo della donna, voci fuori campo di Fabrizio Parenti e Roberto Trifirò, con la traduzione del testo della Kristof da parte di Elisabetta Rasi, diapositive da opere di Carol Rama e immagini fotografiche di Mario Ertoli. La rappresentazione è stata messa in scena in occasione del festival TrameNote, rassegna di teatro e musica contemporanea, 30 ottobre-18 dicembre 2002, organizzato da Outis, Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, www.outis.it, presso il PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea , di Milano, via Palestro 14.

Nella sua versione, Monica Conti, mi ha spiegato in un’intervista telefonica del giugno 2003, ha cercato di riprodurre le emozioni che il testo della Kristof suscita nel lettore. A sottolineare la fase di studio di questa rappresentazione, Chiara Chiarelli, nel ruolo della donna, legge il testo e non lo recita a memoria. Si tratta infatti di una lettura scenica. Inizia dunque a leggere, passeggiando tra il pubblico e scandendo la sua lettura con forte enfasi e poesia, la storia della castellana che attende il principe.

La sedia a rotelle è coperta da un telo ed è situata al centro di un palco; non esiste scenografia, c’è solo la donna, sola, che parla. Il testo è caratterizzato da vari tipi di narrazione: la fiaba e il racconto in prima persona. Il copione è assolutamente fedele al testo originale.

La donna non è presentata immediatamente sulla sedia a rotelle e lo spettatore seguirà pian piano le varie mutilazioni che le toccano fino alla totale immobilità.

Tutta la rappresentazione è basata sull’espressività dialettica e fisica dell’attrice, che cattura lo spettatore interpretando il testo della Kristof e facendolo suo.

Monica Conti inserisce inoltre un elemento che nel testo originale non c’era: la sigaretta.

A un certo punto della lettura, la donna si toglie la parrucca bionda e si ritrova vecchia, con i capelli grigi. Ormai è sorda, senza vista e senza l’uso delle gambe, non le resta che la voce per gridare. La donna in questo momento sta ragionando sull’esistenza che ha vissuto fino a quel momento:

(Con una voce rotta, vecchia) Ma sì, ma chi se ne frega. Ho avuto una bella vita io. Calma, tranquilla. Con l’uomo che amavo. Per fortuna, rimane, lui. Non mi ha abbandonata. Torna tutte le sere. Non tarderà molto. Il mio Principe! Cosa farei senza di lui?
(Un tempo)
[…]
Sì, sono proprio fortunata. Non sento più niente. Poco importa se la città si avvicina. I rumori non mi disturbano più. Né le luci della città. Mio marito, il mio principe tornerà presto. Lo aspetto, lo amo.
[…]7

Mentre dice queste parole, la donna fuma una sigaretta. La Conti utilizza questo mezzo per sottolineare il momento e definirlo ulteriormente nella sua solitudine: la sigaretta fa compagnia alla donna, e può però allo stesso modo essere interpretato come un elemento di trasgressione, come simbolo di ribellione. Si profila quindi il binomio di piacere/masochismo: la sigaretta fa male, ma procura anche piacere.

Questa reciprocità percorre tutta la vicenda: la donna è vittima del marito, ma al contempo ne è complice. Il testo è intriso di una strana ironia, che allude a una sorta di masochismo e che porta lo spettatore a disilludersi rispetto alla ricerca del “principe azzurro”. È una critica pungente all’educazione inflitta alle ragazze cinquant’anni fa, al ruolo della donna nella casa.

Il testo mette in scena una metafora sulla realtà di alcuni rapporti uomo-donna che, a volte, si realizzano nel quotidiano.

Monica Conti ha però sottolineato, durante l’intervista, come secondo lei questa non sia una pièce femminista, né tale vuole essere la sua rappresentazione. Si cerca solo di far riflettere su un tema piuttosto realistico e toccante attraverso la simbologia di un’opera teatrale e utilizzando un linguaggio che spazia dal poetico al più crudo e realistico.

L’interpretazione che la Conti dà del finale della pièce rischia di essere fraintesa. La regista, infatti, conclude la storia con il suicidio della donna e non con l’uccisione del marito da parte sua, come invece avviene nel testo della Kristof. Questo finale potrebbe essere interpretato in modo ancora più pessimistico di quello che vuole in realtà essere.

Durante la nostra intervista, Monica Conti mi ha spiegato che a suo parere il finale deciso dalla Kristof è troppo semplicistico e debole: con l’uccisione del marito si verifica un annientamento subitaneo. Per questo motivo, ha anche dichiarato che, nel momento in cui dovesse decidere di preparare uno spettacolo su questa opera, amplierebbe sicuramente la drammaturgia nel finale.

Secondo la Conti, è come se la donna, uccidendo il marito, uccidesse se stessa. Far morire lei o il marito non ha, quindi, grande importanza, poiché in ogni caso la protagonista, nelle condizioni in cui si trova, non potrebbe vivere sola.

Questa interpretazione può essere sorta, leggendo il testo originale, da alcune riflessioni che la donna fa:

Elle se retourne vivement. C’est une vieille femme ridée, mal soignée, aux yeux hagards.

(Ironique) D’ailleurs, que je l’aime ou pas, qu’est-ce que cela peut faire à présent? Je n’ai que lui. Alors, je l’aime et je l’attends. Que pourrais-je faire d’autre? Il n’y a personne d’autre à aimer, ici. Ni à haïr. Il n’y a que moi. (Sauvage) Et je me hais! Sale vieille femme impotente, je te hais! Il ne te reste qu’a te jeter par la fenêtre, dans l’abîme, et fracasser sur les rochers ta tête sourde et aveugle!
(Un temps)
Mais pourquoi? Pourquoi subitement toute cette haine?
Qu’ai-je fait? Rien. C’est cela, n’est-ce pas? Je n’ai rien fait! Rien!
Quand la ville arrivera au pied de notre rocher, je me jetterai en bas pour que les gens me couvrent de crachats et d’injures et que ma tête éclate sur les pavés de la rue.
(Un temps)
Je ne pourrai plus entendre les injures. Aucun blâme, aucun sarcasme ne peuvent m’atteindre. Rien ne peut m’atteindre.8

Devo ammettere che, appena vista la rappresentazione, ho interpretato il finale leggendo tra le righe un pessimismo più forte di quello che la Kristof invece voleva conferire con l’urlo liberatorio della donna. La spiegazione che Monica Conti mi ha fornito ha però fatto nascere in me una riflessione ulteriore. La Conti ha effettivamente intuito un finale possibile, anche se la sua scelta impedisce il passaggio dell’esperienza fatta da questa donna ad altre persone, cancellando il momento nel quale la protagonista grida la sua storia con l’unico mezzo rimastole, la voce.


Note

↑ 1 A. Kristof, La Clé de l’ascenseur, in L’Heure grise et autres pièces, Paris, Seuil, 1998, pp. 63, 64, 65.

↑ 2 Ibid., p. 65.

↑ 3 Ibid., pp. 80-81.

↑ 4 Ibid., p. 74.

↑ 5 Ibid., pp. 77-78.

↑ 6 Ibid., p. 8.

↑ 7 Videoregistrazione, Carla Chiarelli in La Chiave dell’ascensore, regia di Monica Conti.

↑ 8 A. Kristof, La Clé de l’ascenseurda L’Heure grise et autres pièces, cit., pp. 76-77.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482