Publifarum n° 12 - Atti Convegno Assiterm 2009

Marchionimi e nomi commerciali in terminologia

Vittorio COLETTI


Se la condizione ideale (e quindi del tutto astratta e difficile) per il “miracolo terminologico” è la possibilità di disporre di parole dal significato unico (non polisemiche), che individuano uno e uno solo referente ben preciso (senza equivoci sinonimici), la cui immagine mentale è percepita allo stesso modo da diversi individui, persino in situazioni comunicative differenti, e che al contempo risultano facilmente, chiaramente esportabili, utilizzabili in lingue diverse da quella di partenza, allora avanzo la candidatura a questo prodigio terminologico dei nomi commerciali, perlomeno quelli di un certo tipo.
I nomi commerciali sono un tipo particolare di lessico settoriale. Lo ha visto bene Riolo 2007, che ha sottolineato come i nomi commerciali condividano col lessico specialistico il legame molto stretto e univoco con la cosa significata, ma per il resto non solo possano essere anche di circolazione molto comune, ma la cerchino per principio e soprattutto privilegino l'efficacia del riconoscimento sulla precisione denominativa. Luminal invece di “acido fenilbarbiturico” o moplen per “polipropilene isotattico” o valium per “diazepam” sono la dimostrazione di come il nome commerciale possa evitare la trasparenza scientifica del termine speciale e persino mancare di precisione, come quando, nota sempre Riolo, la stearina "indica la miscela di acido stearico, palmitico e oleico, usato per la preparazione di candele e unguenti... (mentre) in chimica indica gli esteri stearici della glicerina". E si capisce: il nome commerciale è appunto commerciale, punta più all'efficacia dell'appello al cliente che a quella della descrizione denotativa, anche se le cose non sono sempre così scompagnate e a volte coincidono. La compensazione avviene sul piano della praticità denominativa e della facilità di riconoscimento, anche a prescindere dall'efficacia descrittiva. Sono dei termini settoriali sui generis, a volte molto comuni e diffusi nella lingua comune (pur nel significato specialistico), come bancomat o cellophan o gommapiuma o linoleum o eternit. Oppure capaci di passare a una significazione più larga e generica di categorie di referenti analoghi come borotalco, caterpillar, coramina, flit, kleenex, pennarello, polaroid ecc. Il nome commerciale, se designa un prodotto di successo, esce facilmente dall'ambito settoriale e può acquistare un valore estensivo fino a designare intere classi di oggetti analoghi o pressoché identici, come negli esempi del secondo tipo. Anzi, è solo a questo punto che, a rigore, dovrebbe poter entrare in un dizionario della lingua comune.
I casi in cui il marchionimo da nome proprio è diventato, giusta il processo magistralmente definito tanti anni fa da Bruno Migliorini, nome comune sono numerosi, basti pensare a biro, candeggina, mangianastri o giardinetta. E' più raro che il nome comune sia più diffuso di quello commerciale corrispondente, come quando “mogano” si affianca al marchionimo acagiù, o “registrazione” ad ampex, perché in genere succede il contrario, come quando “fibrocemento”, termine tecnico, risulta meno noto di eternit. Riolo: "si può dire che essi (i nomi commerciali) si collocano a metà strada, in posizione intermedia tra i termini tecnico-scientifici del linguaggio settoriale e quelli della lingua comune", "hanno caratteristiche dell'uno e dell'altro tipo".
Dunque: specializzazione e diffusione. Se si aggiunge che un marchionimo non ha mai un sinonimo ma al massimo degli equivalenti (anche all’interno di una stessa lingua), ci sono buoni motivi per farne un candidato alla perfezione terminologica.
Si sa da dove vengono i nomi commerciali, che spesso sono anche marchi registrati e come tali considerati in questa sede, ancorché alla stessa categoria potrebbero appartenere pure i nomi di impresa, i cosiddetti ergonimi. La vecchia ma sempre impeccabile teoria di Buhler sugli appellativi, ben plasmabile sugli ergonimi come ha mostrato Kuhn 2006, aiuta a osservare i tratti in comune tra ergonimi e nomi commerciali. Gli uni e gli altri rispondono alla funzione di espressione rispetto all’emittente, di appello rispetto al ricevente e di rappresentazione rispetto alla realtà denotata. Diversamente dai marchionimi però, gli ergonimi non assolvono una funzione denotativa univoca, accumulano più informazioni su uno stesso segmento e sviluppano ampiamente la connotazione. Si potrebbe discutere la cosa, perché ci sono marchionimi in cui la valenza pubblicitaria e connotativa è così programmata e visibile, come in attaccatutto o brillantante o multijet o autogrill, da sembrare degli ergonimi; anche quelli a morfologia scientizzante, di cui ci occuperemo fra poco, hanno spesso una caratteristica pubblicitaria. Ma basterebbe pensare che un ergonimo come “solo da me” o “solo moda”, o Bar Sport, tipici nomi di impresa commerciale, è ben lungi dall’individuare un referente univoco e chiaro, per rassegnarsi a lasciare fuori dal nostro discorso questo pur interessante comparto onomastico. Per altro, è inutile nascondersi che in parte questo inconveniente è condiviso anche dai marchionimi, quando ce n’è più d’uno di pari successo per lo stesso tipo di prodotto (bostik/ attak, ad esempio), anche se uno finisce prima o poi per prevalere e indicare in esclusiva quel dato oggetto (biro, bic, in cui il nome dell’inventore ha soppiantato quello del costruttore), cosa che non succede ovviamente per i puri ergonimi.
Perciò non parleremo dei nomi d’impresa, se non in quanto coincidano per antonomasia con quelli del prodotto di quell’impresa, come quando chiamiamo polaroid una macchina fotografica costruita dalla ditta Polaroid o quando per bancomat, nome di un servizio, intendiamo lo sportello di distribuzione automatica del denaro.

Di cosa sono fatti i nomi commerciali, spesso garantiti dal marchio registrato? Se ne è già occupato Riolo 2007 cui facciamo quindi anche in questo caso ampio riferimento, ribadendo che non si tratta sempre, come si crede, di nomi inventati o coniati ex novo, ma anche di nomi comuni registrati (il caso dei numeri come nomi di automobili è un caso tipico). Derivano dal nome dell’inventore o costruttore, come biro, liebig, winchester, beretta, jacuzzi, martini, polaroid, caterpillar, pernod; oppure dal luogo di provenienza o da un luogo: alcantara, bikini, certosino, cognac, crodino, monferrina, tabasco. Altri marchionimi derivano dalla loro composizione chimica o natura fisica, come borotalco, cementite, ferrochina, liquigas, lisoformio, vinavil. Molto frequenti sono gli acronimi o pseudoacronimi dei componenti, come teri(lenico) (i)tal(iano), simpa(tico) e amina, pira(zolone) e amido(ne), lan(e)ital(iane), cello(lulosa) fan(phaino), gerovital, banc(auto)mat(ica), lastex (elastic e textile). Se seguono la strada derivativa, eleggono suffissi o prefissi scientifici o avvertiti come tali, come -ina di aspirina, amuchina, formalina, novalgina, candeggina, terramicina, ovomaltina, trielina o -òn in marchi di fibre sintetiche tipo nylon, dacron, dralon, orlon, rayon o -ite di cementite, vinilite, stellite, permutite, micanite, faesite ecc. In qualche caso ci troviamo di fronte a una variante “commerciale” di un nome comune come con attak rispetto ad “attacco”, compressol rispetto a “compresso(re del) suolo”. Queste tipologie avvicinano i marchionimi alle forme tipiche e, per gli acronimi e le sigle, esclusive dei lessici speciali (Cortelazzo 1994 e Scarpa 2002).
Poi ci sono marchionimi o nomi commerciali del tutto trasparenti, che dichiarano la cosa nel nome stesso, come attaccatutto o bagnoschiuma o ovomaltina o musicassetta.
Ora, ai fini del buon esito terminologico dei marchionimi, dobbiamo distinguere, con Zardo 1996, tra i marchionimi nominativi deboli e quelli forti. Per Zardo debole e forte, in verità, sono in relazione alla protezione giuridica del marchio. Più è forte più resta un individuo protetto. Ma se “un marchio nominativo è tanto più debole quanto più il nome di un certo oggetto (è) in relazione con la natura di quest’oggetto e con le sue caratteristiche, reali o presunte”, o quando la parola “descrive il prodotto utilizzando termini o sequenze terminologiche tratte dal lessico comune” (per cui “deboli sono anche i marchi laudativi”, come viamal o svelto), allora un marchio è debole quanto più trasparente, perché indica facilmente una classe generica di oggetti, tipo attaccatutto o mangianastri o autogrill. In questi casi la volgarizzazione del marchio e il suo passaggio dal nome proprio al nome comune è facile e quindi facile la trasformazione del marchionimo in termine, addirittura con rischi di genericità (per funzionare perfettamente sul piano terminologico).
Ci sono poi i marchi nominativi forti, il cui “nome non è direttamente in rapporto con l’oggetto” e sono “genericamente opachi” (come quelli evocativi o denominativi o di pura fantasia) più resistenti giuridicamente, e spesso meno legati a una data lingua. La loro volgarizzazione è possibile anch’essa, ovviamente in relazione al successo del prodotto (baedeker, bikini, biro, beretta, eternit, linoleum ecc.). Ma questi tipi di marchio presentano un altro vantaggio terminologico. Possono migrare in lingue diverse restando inalterati o quasi, perlomeno nella grafia. Mentre i marchi trasparenti sono traducibili e perciò stesso mobili, variabili (calchi traduzione), gli altri non sono traducibili e perciò stesso possono essere universali, magari con minime variazioni di solo adattamento omonimico. Ovvero, l'adattamento avviene a livello della pronuncia e il termine resta inalterato o solo calcato omonimicamente su quello della scrittura. Se la macchina fotografica istantanea si chiama Polaroid, la ditta dallo stesso nome può rammaricarsi dello scippo della proprietà, ma dal punto di vista dell’efficienza terminologica il marchionimo è valido e funziona bene in qualsiasi lingua.
A questo comportamento sono assimilabili anche i marchionimi dalla fisionomia scientifica, che ostentano forme tipiche del linguaggio delle tecniche e delle scienze. Ad esempio (anche per via degli affissi) terramicina, tartan, raffina(to)l(luminio), pentothal, luminal (da lumen), lautal, o composti di tipo farmacologico e chimico come novalgina, novocaina, neomicina. In tutti questi casi la natura (apparentemente) translinguistica della forma (spesso c’è di mezzo una lingua altra, vera o simulata: linoleum, valium, veronal) favorisce una percezione dei marchionimi come tecnicismi, lessico speciale di lingue settoriali e facilita la loro mobilità internazionale con piccoli adattamenti. Cosa che invece non succede con nomi commerciali più trasparenti, specie composti, del genere musicassetta, mangianastri, radi e getta, salvavita. Se per morfologia (ad es. il suffisso o il prefisso) il marchionimo ha l’aria scientifica, la sua tenuta (integrale o adattata) terminologica fuori dai confini nativi ha buone probabilità di riuscita, come accade a coramina, dacron, freon, linoleum, lurex, neoprene ecc. E' importante osservare il ricorrere di un tratto scientifico, da lessico speciale, proprio delle terminologie, nella forma di molti marchionimi; a volte è solo una cosmesi scientista come in bostik, goretex, prozac, vitral, vitrex (vetroceramiche), data dalla forma e dalla misteriosità del nome. In questi casi la funzione denotativa è potenziata da una allusività tecnologica (lo stesso si può dire di certi marchi sigla tipo, nel lessico automobilistico, [I:I]ABS[/I:I], ESP) che funziona da reclamizzante più che (o oltre che) da descrittore. Ma intanto il morfema scientifico rende la parola compatibile con molte lingue e adatta a fedeli calchi omonimici. Insomma, il criterio della chiarezza e quello dell’economia non vanno necessariamente di pari passo e i marchionimi opachi rappresentano, se hanno successo, casi di buona resa terminologica anche in forte difetto di trasparenza (pensiamo all’italiano scottex in rapporto al “papel de cocina” dello spagnolo o al “paper towel” dell’inglese o a scotch per ingl. “sellotape”).

I marchionimi sono translinguistici per definizione, vuoi perché nascono spesso da nomi propri, in ambienti linguistici transnazionali, vuoi perché sono il risultato di combinazioni che nascondono o alterano la fisionomia linguistica originale. Ad esempio, silumin, una lega di silicio e alluminio, nasce dal particolare composto di sil(icio) e (al)lumin(io), mentre duralluminio deriva da Dur(nerMetallwerke) e alluminio, mezzo tedesco e mezzo italiano e amberlite (Riolo) è invece un composto inglese da amber (ambra) e lite (suffisso scientifico) e velcro è un francesismo fatto da vel(ours) e cro(chet). Anche questo aspetto ne favorisce la circolazione.

Abbiamo dunque sostenuto che se un marchionimo si volgarizza (da nome proprio diventa nome comune), quanto e più e meglio lo fa tanto più risulta trasferibile in una data terminologia. Osserviamo questa tabella di circa 260 nomi commerciali diffusi in Italia (italiani e stranieri, di etimo e forma italiana e forestiera)

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E’ facile notare che sono diventati nomi comuni innanzitutto composti trasparenti (anche di tipo pseudoneoclassico) o semplici alterati di nomi comuni (colore giallo): attaccatutto, auditel, autogrill, autovelox, bagnoschiuma, ferrochina, gomma piuma, mangianastri, musicassetta, pagine gialle, pre-maman, radi e getta, salvavita, televideo, pennarello, piumone, trasferello ecc. In certi casi lo sarebbero diventati, oserei dire, comunque, perché già lo erano (nomi comuni esistenti brevettati in quella funzione commerciale, come i numeri che fanno da nome per molte automobili) o erano nelle disponibilità della lingua comune: bagnoschiuma, gommapiuma, pennarello, piumone, copripiumone ecc. In altri casi, lo sono diventati soprattutto a causa del successo commerciale del prodotto o servizio (autogrill o premaman o salvavita o telepass o viacard), Qui il successo di mercato ha reso comune un nome che mantiene le caratteristiche di irripetibilità di quello proprio, come in marchi (colore azzurro) scientisti tipo amuchina, borotalco, coramina, mercurocromo, lisoformio, novocaina, magnesia, plastilina, simpamina, trielina, vaselina o comunque in non (o poco) trasparenti marchi denominativi (di persona o costruttore) come baedeker, biro, bostik, caterpillar, eternit, polaroid o in marchi sigla o acronimi o di fantasia o di altra lingua, come: cellophane, flit, fohn, jeep, napalm, plexiglas, pongo, post-it, scotch, scottex ecc.

Guardiamone qualcuno da vicino di questi nomi non trasparenti e notiamo quanti di loro sono diventati nomi comuni: candeggina (non del tutto opaco in verità, ma tale certo per un utente medio dell’italiano che ignora il valore sbiancante del candeggio... o è comunque fuorviato dal suffisso -ina come lo è davanti a plastilina) è una denominazione commerciale della varichina risalente agli anni cinquanta e oggi termine d'uso nazionale per indicare questo tipo di detersivo- detergente; cellofan (cellophane o comunque lo si voglia scrivere) da molti decenni (con questo nome composto da cello di cellulosa e derivato di greco phaino o lat. diaphanus) indica la pellicola trasparente usata come involucro di prodotti vari, specialmente alimentari; cementite, che già i dizionari degli anni cinquanta registravano come nome generico di una vernice opaca per muri e infissi, sta oggi come vernice base di tipo generico; cognac, distillato dei vini bianchi della Charente, è presente dagli anni cinquanta nei dizionari per denotare un'acquavite in generale; eternit è il nome italiano del pericoloso impasto di cemento e amianto (fibrocemento) commercializzato dal primo novecento; fohn è da sempre nome dell'asciugacapelli elettrico; formica (in cui la ritrazione dell’accento assicura settorialità e non equivocità), dal francese, è nome di un laminato usato come rivestimento; kleenex (da ingl. to clean + ex) sta per fazzoletto di carta e k- way indica il giubbino impermeabile e tascabile di largo uso; il linoleum (ingl. da lat. lini+ oleum) già negli anni cinquanta indicava il materiale speciale, miscela di diversi ingredienti, usato per coprire, rivestire...
Insomma, siano trasparenti o opachi, i marchionimi passano facilmente, se hanno un buon successo, al nome comune. Zardo 2007, in un’analisi dei dizionari del 2006, segnala i casi in cui non è dichiarata la provenienza commerciale del nome, fatto che non denuncia tanto la leggerezza dei lessicografi quanto testimonia l’avvenuta volgarizzazione della parola. Sono infatti i nomi più diffusi a perdere facilmente questo contrassegno (del resto a volte giunto a scadenza giuridica e non più rinnovato) come bagnoschiuma, copripiumone, musicassetta. D’altra parte, chi pensa ancora al marchio davanti a bikini, biro, grammofono, clacson, magnesia, thermos? Anche la sbadataggine lessicografica ha un suo senso.
In tutti questi e non pochi altri casi analoghi, il nome proprio è diventato comune, ma ha conservato precisione, continuando a rappresentare un referente non equivocabile o poco equivocabile, abbastanza precisamente colto. Insomma, è diventato un buon termine.

Dunque, una delle condizioni di buona resa terminologica risulta soddisfatta dai marchionimi e dai nomi commerciali che finiscono per designare una classe compatta, precisa e identificabile di oggetti, spesso addirittura composta di una sola unità tipologica (ad es. borotalco, polvere di talco, nylon, tessuto sintetico).
Un altro requisito terminologico è la trasportabilità del termine, meglio se capace di attraversare immutato lingue diverse. Qui le cose stanno un po’ diversamente a seconda della trasparenza o opacità linguistica del marchionimo. Lo abbiamo già notato. Quello trasparente è facilmente traducibile, ma deve esserlo e quindi varia a seconda delle lingue. Quello opaco è meno traducibile, può ricevere minimi adattamenti e quindi passa relativamente indenne attraverso lingue differenti. A questo proposito si può vedere un altro aspetto del buon rendimento terminologico di marchionimi e nomi commerciali.
Questa tabella rappresenta una discreta fetta di terminologia europea (Riolo lo definisce “eurolessico commerciale comune”), composta unicamente grazie all'apporto dell'onomastica commerciale e industriale. Inutile ripetere che c'è sempre un significativo adattamento fonico nella pronuncia della parola e che la fissità del marchio è soprattutto scritta; ma è già qualcosa, e poi il calco omonimico è spesso molto simile alla forma della parola nell'altra lingua.

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Questa tabella raccoglie marchionimi che circolano in almeno due delle lingue considerate per comporla. E’ costruita da fonti forse non ben calibrate, ma comunque nata dal confronto tra dizionari monolingui in un solo volume dell’italiano (Zingarelli, De Mauro, Sabatini Coletti) e per i corrispondenti francesi il Petit Robert e il Larousse illustré, per il tedesco il Duden e il Langenscheidt (controllati dalla collega Giuseppina Piccardo), e per l’inglese l’Oxford breve e per lo spagnolo il Dizionario dell’Accademia Reale (2001), ribadito da riscontri su tre bilingui della Sansoni Larousse (italiano/francese e italiano/inglese) e della Hoepli (italiano/spagnolo), oltre che da dati ricavati dal solito utilissimo Riolo 2007.
Tolti pochi casi, come si vede, sono tutti marchi opachi, denominativi o di fantasia o da sigle o a fisionomia morfologica (in genere affissazione) scientista. Non molti i casi di concordia paneuropea, anche se con altre fonti ne avremmo potuto trovarne parecchi altri (ho evitato deliberatamente Google). Ma parecchi quelli validi almeno su due lingue e quindi dotati del diritto di definirsi i termini più performanti.

Per quel che vale, registriamo dunque un buon rendimento terminologico dei marchionimi. Naturalmente si potrà dire che a volte manca il requisito dell’univocità, perché bostik è una colla come lo è attaccatutto o vinavil. Poiché però il nome del prodotto di maggior successo commerciale finisce per imporsi, sul medio periodo, questo inconveniente è superabile o non decisivo. I concorrenti che perdono sul mercato escono anche dalla lingua. Quando il marchio si volgarizza è rispettato anche il requisito dell’univocità, e borotalco o eternit o nylon o tartan funzionano benissimo come termini tecnici, in certi casi anche ben esportabili, translinguistici.

Il passaggio a nome comune è, come noto, anche il requisito fondamentale per l’accoglienza di un marchionimo nei dizionari della lingua d’uso. La lista che abbiamo visto prima, ricavata da un assemblaggio dei marchionimi e nomi commerciali del Sabatini Coletti e di Zingarelli e De Mauro (questi ultimi grazie a Zardo 2007) mostra che in realtà il comportamento dei dizionari è assai oscillante. E non tanto nella classificazione (marchio registrato, d’impresa, nome commerciale), quanto nell’assunzione sia di nomi ormai comuni come formica o k-way e nomi ancora rigorosamente propri come iPod o pannolenci o velcro. Chi lavora a un dizionario sa cosa significa, con gli uffici legali delle ditte pronti a proteste e ricorsi.
Ma quanti sono i marchionimi in un dizionario? Il sottoinsieme più ampio è ovviamente quello fornito dal [I:I]GRADIT[/I:I]: 825 marchionimi, di cui 707 lessici speciali, 75 lessico comune e 19 forestierismi.
Interessante osservare che, stante Riolo, nell’ex [I:I]VELI[/I:I], il più grande dizionario dell’uso dopo [I:I]GRADIT[/I:I], i marchionimi sono solo 380, cioè la metà (per la verità quanto dice De Mauro stesso di averne in postfazione, 322, mentre poi alla ricerca informatica ne escono ben 800), e comunque più di quelli del vasto Grande Dizionario Garzanti, circa 100. Devoto-Oli monovolume ne ha 190, De Mauro 277, il Sabatini Coletti 224 e dal suo CD ricaviamo che quelli derivati da altre lingue sono di gran lunga più numerosi (oltre 2 terzi del tutto) di quelli a etimo completamente italiano. In ogni caso, siamo sulla linea del francese Petit Robert, che ne conta 237.
Anche i dizionari bilingui, come abbiamo visto, ne ospitano parecchi conservati intatti e possono essere utilizzati per verificare la resistenza interlinguistica dei marchi, se non ci fosse il dubbio che sia il termine di partenza a condizionare la registrazione di quello di arrivo. Anche da queste limitate fonti lessicografiche si può comunque vedere la resistenza interlinguistica di certi marchi opachi. Questa ovviamente non sorprende se il marchio resta legato al prodotto specifico e continua ad esserne il nome proprio (come Fiat o Nutella o Emmental o Gore-tex), ma colpisce ed è significativo ai fini terminologici quando è diventato nome comune.
In questo caso vediamo viaggiare per tutta Europa un patrimonio terminologico condiviso e situato in settori spesso di grande interesse pubblico, condizione ottimale almeno per chi crede che una scienza-una lingua sia il massimo della comunicazione precisa e diffusa. Non è detto però che le cose stiano così. Ma anche a valorizzare invece la pluralità delle lingue (come cerchiamo di fare noi tutti non anglofoni), questa trasversalità, questa comunanza di termini ben riconoscibili e precisi è un segno di una cultura economica e linguistica comune che ci aiuta a misurare il grado di quella integrazione europea di cui abbiamo tanto bisogno.

Bibliografia citata

Vocabolari:

VLI = Vocabolario della lingua italiana, diretto da Aldo Duro, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1994, 4 voll.
Zingarelli = lo Zingarelli 2009, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2008, con CD-ROM.
GRADIT =Grande Dizionario Italiano dell’Uso, a cura di T. De Mauro, Torino, UTET, 1999-2003, 7 voll, con CD-ROM.
Sabatini Coletti = il Sabatini Coletti 2008, Dizionario della lingua italiana, Milano, Rcs Libri, 2007, con CD-ROM.
Petit Robert 2008 = Le nouveau Petit Robert de la langue française 2008, Paris, Le Robert, 2008.
Larousse illustré = Le Petit Larousse illustré, Parsi, Larousse, 2001.
Oxford = The new shorter Oxford English Dictionary on historical principles, a cura di L. Brown, Clarendon Press, Oxford, 1993, 2 voll.
Dizionario dell’Accademia Reale = Diccionario Real Academia de la Lengua Española, a cura della Real Academia, Madrid, Espasa Calpe, 200122.
Larousse Francese = il Larousse Francese. Français/Italien, Italiano/Francese, Milano, Rizzoli Larousse, 2006.
Sansoni Inglese = il Sansoni Inglese. English/Italian, Italiano/Inglese, Milano, Rizzoli Larousse, 2006.
Hoepli = Laura Tam, Grande dizionario di spagnolo. Spagnolo/Italiano, Italiano/Spagnolo, Milano, Hoepli, 20042.
Devoto-Oli = il Devoto-Oli 2009, Vocabolario della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Firenze, Le Monnier, 2008.
Grande Dizionario Garzanti = Grande Dizionario della Lingua Italiana Moderna, Milano, Garzanti, 2000, 5 voll.
De Mauro = De Mauro. Il dizionario della lingua italiana, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editore, 2000.

Studi:

J. KUHN, «Strategie persuasive nella comunicazione aziendale esterna: uso degli ergonimi e strumentalizzazione della storia», in Lessicografia e onomastica, Atti delle giornate di Studio Università degli Studi Roma Tre, a cura di P. D’Achille e E. Caffarelli, Quaderni internazionali di RION, 2 (2006), pp. 283-292.
B. MIGLIORINI, Dal nome proprio al nome comune. Studi semantici sul mutamento dei nomi propri di persona in nomi comuni negl’idiomi romanzi, Gèneve-Firenze, Olschki, 1968.
S. RIOLO, Marchionimi e nomi commerciali nella lessicografia italiana del secondo Novecento, c.u.e.c.m., Catania 2007.
F. SCARPA, Terminologia e lingue speciali, in M. Magris, M.T. Musacchio, L. Rega e F. Scarpa, Manuale di terminologia, Milano, Hoepli, 2002, pp. 27- 48.
F. ZARDO, «Nomi di marchio e dizionari», in Studi di lessicografia italiana, XII, 1996, pp. 365-392.
F. ZARDO, «Marchi nominativi: nomi propri o nomi comuni? Il nome di marchio nell’italiano scritto contemporaneo», in Rivista italiana di onomastica, III, 1997, pp. 25-43.
F. ZARDO, Ancora sui marchionimi, in Studi linguistici per Luca Serianni, a cura di V. Della Valle e Pietro Trifone, Salerno, Roma 2007, pp. 253-270.


 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482