Segni e termini: descrizione e normalizzazione
1Nel 1550, il traduttore senese Alessandro Piccolomini osserva che «Hanno i medici, i mercanti, gli architetti e finalmente in ogni altra arte proprij vocaboli, che, salvo che a loro, parranno ad ogni altro stranij». Nel linguaggio della linguistica contemporanea, il messaggio di Piccolomini può essere parafrasato così: ciò che distingue un termine da un lessema di una lingua naturale non è la struttura, ma l’ambito di condivisione. Come ogni segno linguistico, il termine ha un contenuto che, indipendentemente dalla sua maggiore o minore accessibilità, è il significato di un segno - di una parola o di un’espressione complessa. Nel caso del segno linguistico, ciò che legittima la relazione biunivoca tra il significante e il significato è, sul piano del diritto se non sempre dei fatti, la condivisione generalizzata da parte di una comunità di parlanti. Nel caso del termine, ciò che legittima la relazione biunivoca tra il significante e il significato è, sempre sul piano del diritto, la condivisione da parte di un gruppo di utenti specializzati, che è più ristretto di una comunità linguistica naturale e al tempo stesso ne interseca molte. Questa differenza fondante è sufficiente per giustificare l’autonomia della terminologia come disciplina scientifica, ma non cancella la continuità del suo oggetto con l’oggetto della lessicologia e della lessicografia, e fornisce quindi un utile fondamento per discutere la terminologia alla luce della lessicologia e viceversa.
Il lessico di una lingua non è solo un contenitore di concetti, ma anche, e soprattutto, una struttura complessa in grado di dare forma ai concetti. Non tutti i concetti sono significati di un segno linguistico. Nel momento in cui diventa significato di un segno, tuttavia, ogni concetto, anche quello più immediatamente accessibile all’esperienza diretta, imbocca una deriva dagli esiti imprevedibili, che può lasciarlo intatto come ristrutturarlo in modo più o meno radicale. Se questa premessa e giusta, ne seguono due corollari che avvicinano l’oggetto della terminologia e quello della lessicologia, e autorizzano a estendere a ognuna delle due discipline le risorse metodologiche elaborate nell’ambito dell’altra. Da un lato, i lessici specialistici presentano in maggiore o minor misura tutti i fenomeni tipici dei lessici naturali, dall’anisomorfismo, all’omonimia, alla polisemia, alla sinonimia, in qualche caso, come vedremo, addirittura enfatizzati. Sull’altro versante, la funzione qualificante tradizionalmente riconosciuta ai lessici di specialità – la creazione di termini capaci di portare all’espressione oggetti e concetti concepibili e riconoscibili indipendentemente – è anche uno dei compiti funzionali ineludibili di una lingua naturale.
Se, pur consapevoli delle differenze di struttura e di funzioni, affrontiamo i problemi metodologici della terminologia sullo sfondo dei concetti elaborati dalla lessicologia, siamo in grado di dare un contributo costruttivo alla riflessione terminologica, e in particolare di gettare luce sulla frontiera tormentata tra descrizione dei fatti e spinte normalizzatrici.
1. Concetto endocenrici e concetti esocentrici
Se pensiamo a come un patrimonio di concetti condivisi si trasforma in un patrimonio di significati linguistici possiamo immaginare due esiti estremi: da un lato, la semplice etichettatura di un sistema di concetti accessibili independentemente e facilmente trasferibili da una lingua all’altra; dall’altro, una messa in forma specifica, interna alla lingua, che conferisce ai singoli concetti e alla loro articolazione in campi semantici (Trier 1931; 1932; 1934) una fisionomia irriducibile. È facile riconoscere nel primo esito il tipo ideale di termine elaborato a partire dal lavoro pionieristico di Wüster (1979), e, nel secondo, il tipo ideale di segno come è stato descritto dalla semantica strutturale nella tradizione che va da Saussure (1916) a Trier e a Lyons (1963; 1977). Nella realtà empirica, tuttavia, non c’è posto per una polarizzazione così estrema: non c’è posto nella comunicazione quotidiana, ma nemmeno nella comuncazione specialistica, se solo usciamo da una prospettiva ‘in vitro’, astrattamente normativa, per spostarci verso la pratica ‘in vivo’ (Cabré, 2000. Viceversa, possiamo immaginare che alla messa in forma linguistica dell’universo variegato dei concetti condivisi si apra una spazio molto ampio e differenziato, che si estende dalla pura e semplice espressione di concetti solidamente strutturati e largamente condivisi, ai limiti dell’etichettatura, fino alla creazione di concetti saldamente radicati nelle strutture specifiche del lessico e impensabili al di fuori di esse.
Possiamo parlare di concetti endocentrici per riferirci a concetti saldamente radicati nel sistema di correlazioni e relazioni del lessico, e di concetti esocentrici per riferirci a concetti ancorati alla struttura di un’esperienza indipendente (Prandi, 2004: Cap. 6). A partire da questa distinzione, è naturale assumere che la terminologia si collochi elettivamente vicino al polo esocentrico, mentre il lessico di una lingua naturale si qualifica in primo luogo per la sua capacità di plasmare concetti endocentrici. Tuttavia, i poli estremi non esauriscono la tipologia dei concetti né in terminologia né in lessicologia. Tra i poli opposti formati da questi due ‘tipi ideali’ si apre un ampio spettro di variazione, all’interno del quale ogni concetto, che appartenga al lessico di una lingua naturale o a una terminologia specializzata, trova una sua particolare forma di equilibrio tra la pressione funzionale proveniente dall’esterno e la pressione strutturale interna al sistema. Accertare lo specifico dosaggio di fattori interni e esterni nei diversi concetti è un compito che si apre alla ricerca empirica.
La strada più efficace per identificare i concetti endocentrici è il confronto tra lingue diverse in aree concettuali simili ma articolate da ciascuna lingua in mappe semantiche non isomorfe. L’italiano sbucciare, ad esempio, per la sola accezione ‘togliere la buccia’, ha ben quattro traducenti in francese: oltre al generico peler, troviamo éplucher (per le patate), écosser (per i legumi) e décortiquer (per le castagne). Al concetto italiano di fiume, ugualmente, corrisponde in francese la coppia fleuve – rivière. Il valore di ciascuno di questi concetti dipende certamente più dalla correlazione con i valori concorrenti, interna al lessico della lingua francese, che dalla relazione con l’esperienza rispettivamente dello sbucciare e dei fiumi. Si tratta di concetti orientati verso il polo endocentrico.
Nell’ambito dei concetti endocentrici, l’identità del singolo valore dipende dalla rete di differenze istituite dalla lingua, e cioè dalla strutttura del paradigma che lo accoglie – del campo (Trier, 1931). In questo modo il campo semantico, cioè l’organizzazione che un’area concettuale data riceve all’interno del lessico di una lingua, è logicamente anteriore al singolo lessema. Come ricorda Trier (1931(1973: 45), “Die Geltung eines Wortes wird erst erkannt, wenn man sie gegen die Geltung der benachbarten und opponierenden Worte abgrenzt”. Nel definire un concetto endocentrico, non dobbiamo guardare immediatamente agli oggetti del mondo esterno, ma passare prima dalle strutture lessicali interne della lingua. Per definire un verbo come éplucher, ad esempio, non possiamo cercare subito un ancoraggio obiettivo nell’esperienza esterna, ma dobbiamo prima passare per la struttura interna del lessico e prendere atto di come la lingua ha suddiviso una certa area concettuale in valori differenziali. Il valore di éplucher dipende in primo luogo dalla presenza di valori concorrenti come peler, écosser e décortiquer, che ne limitano il territorio di competenza e l’ambito d’uso. La dipendenza del lessema dal campo influisce profondamente sul confronto interlinguistico, che non può portare su singoli valori ma solo su intere aree: non ha senso chiedersi, ad esempio, qual è l’equivalente di décortiquer in italiano, mentre ha senso confrontare il paradgma francese con la sua controparte italiana. Come mostrano gli esempi, la componente endocentrica si manifesta non solo nell’ambito dei concetti relazionali, in primo luogo verbi e aggettivi, il cui rapporto con il mondo dell’esperienza è per forza di cose indiretto, ma anche tra i nomi di oggetti concreti.
All’altra estremità della scala possiamo collocare i nomi delle specie naturali, in particolare animali, piante, fiori. Dato un concetto come rosa o pervinca, la dipendenza del suo valore dal paradigma di valori concorrenti è trascurabile, mentre diventa decisiva la stabilità del suo rapporto con una specie di fiori preliminarmente identificata e riconosciuta3. Si tratta di concetti orientati verso il polo esocentrico.
Nell’ambito dei concetti esocentrici, l’identità dei singoli valori non si basa su una rete di differenze istituite dalla lingua. Al contrario, le differenze si stabiliscono a partire dall’identità stabile indipendente di ciascun valore. I concetti appartenenti alla stessa area – per esempio le specie di fiori - non formano un paradigma di valori interdipendenti – un campo – ma una serie aperta. Nella definizione di un concetto esocentrico, la componente differenziale, interna alla lingua, è trascurabile, mentre diventa decisiva la stabilità del suo rapporto con una classe di oggetti. Nella definizione di un nome come pervinca, ad esempio, non dobbiamo tener conto dell’esistenza dell’intero paradigma di nomi di fiori che gli fanno concorrenza: è sufficiente identificare in modo sicuro e univoco la classe dei fiori chiamati pervinche. Se éplucher sparisse dall’uso, cambierebbe il valore, e quindi anche il rapporto con l’esperienza, dei termini concorrenti peler, écosser e décortiquer. Se la lingua italiana perdesse il nome di un fiore, viceversa, la parola pervinca continuerebbe a etichettare la pervinca come se nulla fosse. Grazie al radicamento in un’esperienza essenzialmente isomorfa e al venir meno della dipendenza dal campo, cambiano anche le condizioni del confronto interlinguistico, che non porta sull’intero paradigma ma sui singoli valori: ha senso chiedersi, ad esempio, come si dice pervinca in francese.
Grazie ai lessemi esocentrici, ogni lingua contiene uno strato ineliminabile di terminologia. Con una nomenclatura terminologica specializzata, la componente terminologica di un lessico naturale condivide il compito funzionale di portare all’espressione un sistema di concetti relativamente indipendenti dalle strutture lessicali interne della lingua. Con il modello del termine, il lessema esocentrico condivide il debole radicamento intralinguistico e la facilità di circolazione interlinguistica.
2. L’ancoraggio endocentrico dei termini
Il tipo ideale di termine non veicola certo un concetto endocentrico, ma un concetto esocentrico. Tuttavia, se le lingue naturali contengono una componente terminologica, le terminologie condividono con le lingue naturali tutte le proprietà qualificanti che possono essere interpretate come spie di un relativo ancoraggio endocentrico dei concetti, e in particolare la presenza di casi di anisomorfismo, omonimia, polisemia e sinonimia4. Una discussione serena di queste proprietà sullo sfondo della lessicologia dei lessici naturali può aiutare a far luce sulle loro ricadute, talvolta negative, talvolta positive, e talvolta ininfluenti, sulla funzionalità dei lessici specialistici.
2.1. Anisomorfismo
L’anisomorfismo, la spia più diretta del radicamento endocentrico dei significati, è attestato nei lessici di specialità, sia pure in forme non vistose. Già il lessico della linguistica offre innumerevoli esempi, a cominciare dal nome stesso della disciplina. Il francese linguistique traduce sia linguistica, sia glottologia, che designa la branca storico-comparativa. Nell’altro senso, all’italiano credito corrispondono in francese due termini, crédit e créance. All’interno della complessa rete di rapporti, obblighi e aspettative che caratterizza una stessa transazione, i due termini introducono prospettive di segno opposto. Crédit focalizza la somma effettivamente erogata dal creditore al debitore: in questo senso si parla, ad esempio, di crédit à l’exportation. Si tratta di una visione retrospettiva che porta su un dato reale. Créance, viceversa, focalizza la somma che il debitore deve al creditore: in questo senso si parla, ad esempio, di créance douteuse. Si tratta di una visione prospettiva che investe un dato non reale, oscillando tra una modalizzazione deontica – ciò che è dovuto – e una epistemica: ciò che forse sarà restituito. Come accade nei lessici naturali, il radicamento intralinguistico è inversamente proporzionale alla facilità di circolazione interlinguistica. Non c’è corrispondenza biunivoca tra termini, e il confronto, come la traduzione, richiede un passaggio attraverso la struttura del campo nella sua totalità.
2.2. Omonimia e polisemia
L’omonimia è un fenomeno che investe il significante: i significanti di due parole distinte, con significati distinti, coincidono perfettamente nel suono, nella grafia o in entrambi. La polisemia, viceversa, è un fenomeno che investe il significato: il significato di una parola si estende e si ramifica in una confederazione di concetti interrelati.
L’omonimia è un fenomeno patologico, che sfida la funzione distintiva dei significanti e, spinta oltre una certa soglia, la comprometterebbe del tutto. La polisemia è un fenomeno fisiologico, funzionale, che permette di estendere la disponibilità di significati senza moltiplicare i significanti, valorizzando la capacità di selezione dei contesti d’uso e le strategie di creatività concettuale condivise dagli utenti, in particolare le relazioni metaforiche e metonimiche5. È quello che succede quando la parola ala passa dall’ambito dell’anatomia degli animali all’aeronautica, all’architettura, al linguaggio dello sport e della politica. La relazione tra l’ala dell’uccelo e l’ala di un edificio, ad esempio, è di natura metaforica; la relazione tra l’ala come posizione nello schieramento di una squadra in campo e l’ala come giocatore che la occupa, invece, è di natura metonimica. Se la polisemia fosse una minaccia per la designazione e per la comunicazione, le nostre lingue, così come le conosciamo, sarebbero paralizzate, dato che la maggior parte dei lessemi sono polisemici6.
Nei lessici di specialità, l’omonimia è particolarmente diffusa tra le sigle. Nel lessico medico, ad esempio, la sigla [I:I]PP[/I:I] può valere come pressione di pulsazione (o pulsatoria), peritoneo parietale, o plasma fosforo. Analogamente, [I:I]EP[/I:I] può stare per emodialisi periodica, emoperfusione, embolia polmonare, o estrazione pupillare. In russo, la sigla [I:I]SNG[/I:I] (che traduce GPL, gas di petrolio liquefatto) è omonima di [I:I]SNG[/I:I], che designa la Comunità degli Stati Indipendenti (Sodružestvo Nezavisimyh Gosudarstv), vale a dire l’attuale Federazione Russa. Forse per questa ragione, gli specialisti del settore petrolifero preferiscono impiegare la forma estesa Sžižennyj Neftjanoj Gaz.
I casi più tipici di polisemia nascono dalle estensioni che l’uso di un termine subisce quando passa dalla lingua comune a un lessico di specialità, o da un lessico di specialità a un altro.
Molti termini di specialità nascono non come termini speciali ma come usi speciali di lessemi del lessico naturale: è il caso di trapianto nel passaggio all’accezione medica. L’estensione di significato, con la polisemia che ne segue, è dunque iscritta nell’atto stesso di battesimo di un buon numero di termini. Anche il procedimento di creazione – in questo caso l’estensione metaforica – è condiviso con il lessico naturale7.
Un fenomeno analogo si verifica quando un termine passa da un lessico di specialità a un altro. Nel dominio calzaturiero, molti termini inglesi che designano le parti della scarpa sono presi a prestito dal lessico dell’anatomia (Rumori, 2004): per esempio toe, arch, throat, tongue. L’accezione qui pertinente di throat (collo del piede) è già una metafora nell’ambito dell’anatomia, e diventa una metonimia quando passa a designare la parte della scarpa, mentre tongue – come l’italiano linguella – diventa una metafora nel lessico di arrivo. Uno sfruttamento sistematico della relazione metonimica è documentato dal lessico del fitness (Sales 2004), dove lo stesso termine – per esempio abdominal machine, abductor machine, leg press, leg extension - designa sia la macchina, sia l’esercizio nel quale viene utilizzata.
Se è ragionevole cercare di ridurre al minimo l’omonimia nei lessici di specialità, la polisemia è ineliminabile, e va accettata come un dato, valutando il suo impatto sulla funzionalità dei repertori terminologici. Se viene valutata sullo sfondo di un ideale normativo astratto – ‘un concetto, un termine’ - la polisemia non può che essere vista come un difetto, e quindi subita come un male inevitabile. Ma se la giudichiamo per quello che è, ci rendiamo conto che è l’ideale normativo a essere messo in discussione. A fronte di vantaggi funzionali evidenti, infatti, la polisemia è del tutto priva di ricadute negative. L’idea che la polisemia rappresenti una minaccia per una designazione e una comunicazione univoche nasce da una confusione tra polisemia e ambiguità. Evitare l’ambiguità nella comunicazione specialistica a livello interlinguistico è forse l’obiettivo principale del progetto wüsteriano, e resta un obiettivo condivisibile. Ma sarebbe un errore fatale pensare che vada perseguito al prezzo di azzerare la polisemia.
La polisemia è una proprietà della parola isolata dall’uso e inventariata nel dizionario: in un certo senso, è l’effetto artificiale del lavoro di descrizione metalinguistica, in particolare della costruzione dei dizionari, che in linea di principio si mimetizza nell’uso. L’ambiguità, viceversa, è una proprietà dell’uso, e quindi di un’espressione complessa, tipicamente di una frase. La relazione tra i due fenomeni non è sistematica ma occasionale.
In primo luogo, la polisemia non è l’unica fonte di ambiguità. Una frase può essere ambigua o perché contiene una parola polisemica che non è in grado di specificare, o perché manifesta una distribuzione di costituenti che neutralizza due possibili costruzioni. Nel primo caso, abbiamo esempi come Portami il cane, dove non è dato sapere se stiamo parlando dell’animale domestico o del percussore di un’arma da fuoco; nel secondo, abbiamo esempi come Giovanni ha fatto scrivere una lettera a Lucia, dove non si capisce se Lucia è lo scrivente o il destinatario della lettera.
In secondo luogo, la polisemia non è predestinata a tradursi in ambiguità. È un fatto empirico che un lessema polisemico presenta in linea di principio una distribuzione diversa per ogni accezione distinta, per cui il rischio di indecisione tra le diverse accezioni, e quindi di ambiguità, è un’eventualità marginale. Nelle frasi Il canale è disturbato e Dove si può attraversare canale?, ad esempio, la presenza del nome polisemico canale non genera ambiguità, in quanto ciacun uso seleziona una sola accezione pertinente. Solo in presenza di un predicato molto generale un nome può conservare nell’uso la sua polisemia, generando ambiguità, come in Non trovo il canale. Se un nome polisemico specializza il suo significato in relazione a schemi predicativi diversi, un verbo polisemico lo farà ricevendo argomenti distinti: tagliare la legna e tagliare i fondi, versare il vino e versare una somma di denaro non sono predicati ambigui.
2.3. Sinonimia
In una lingua naturale, i sinonimi non sono lessemi con significato identico, ma lessemi che presentano una differenza di uso, e quindi di significato, molto piccola. La differenza di significato non coinvolge in generale il potere di designazione, ma porta su implicazioni collaterali che possono andare dal tenore affettivo al registro e all’ambiente sociale nel quale ciascun lessema viene usato. I lessemi micio e gatto, ad esempio, sono entrambi adatti per designare un gatto; tuttavia, micio si distingue da gatto perché, oltre a designare l’animale, segnala i sentimenti del parlante nei suoi confronti. Crepare e mancare, invece, presentano sia una differenza di registro, sia una differenza nell’ambito d’uso: mancare si usa solo per gli esseri umani.
Sul piano strutturale, la sinonimia è interessante perché introduce isole endocentriche nelle serie aperte dei termini esocentrici. Se il lessema gatto è solidamente ancorato all’esperienza condivisa dei gatti all’interno della serie aperta degli animali domestici, micio risponde a un’esigenza funzionale eccentrica rispetto alla pura classificazione, che la struttura formale del lessico ha fatto sua introducendo una differenza pertinente – gatto, micio - all’altezza di un valore della serie. In quanto isola endocentrica, la sinonimia provoca elettivamente anisomorfismo. All’italiano pappagallo, ad esempio, corrispondono in spagnolo tre lessemi: loro, papagayo, yoco. Questo aspetto strutturale della sinonimia può essere di ostacolo alla circolazione interlinguistica dei termini solo se non viene riconosciuto: la difficoltà, insomma, è più a parte subiecti che a parte obiecti.
Sul piano funzionale, la sinonimia introduce in un lessico, e più in particolare in una terminologia, un fattore di potenziale ridondanza, con possibili conseguenze negative sull’univocità della categorizzazione e della comunicazione. È su questo aspetto della sinonimia che il terminologo è chiamato in primo luogo a riflettere.
Se osserviamo i casi di sinonimia con un occhio libero da pregiudizi, ci rendiamo conto che in un lessico naturale non c’è spazio per una sinonimia patologica, cioè al tempo stesso ridondante, priva di riscontri funzionali, e di ostacolo alla categorizzazione e alla comunicazione univoche. La situazione dei lessici di specialità, al confronto, è molto meno lineare e tranquillizzante. C’è sicuramente, in terminologia, una quota di sinonimia funzionale, giustificata in primo luogo sulla dimensione diastratica. Tuttavia, il dato più vistoso della sinonimia in terminologia è la presenza di dosi massicce di sinonimia patologica.
Una delle fonti più caratteristiche di sinonimia patologica è data dalle oscillazioni nella traduzione di termini, soprattutto se polirematici, complicata spesso dalla coesistenza delle diverse traduzioni con l’originale, adottato come prestito integrale o parziale, e in qualche caso con la sigla corrispondente. Nella tecnologia della televisione digitale terrestre, ad esempio, il passaggio dalla fonte inglese all’italiano dà luogo a serie come le seguenti (Massari, 2004): profilo interactive broadcasting, profilo televisione interattiva, profilo della trasmissione interattiva; transport stream, flusso di trasporto, [I:I]TS[/I:I]; codifica entropica, codifica a lunghezza variabile, variable length coding, [I:I]VLC[/I:I]. Un esempio di senso opposto viene dal lessico dell’industria calzaturiera (Rumori, 2004), dove la fonte della terminologia è l’italiano. Il termine décolleté con cinturino a T, ad esempio, ha ben cinque equivalenti in inglese: instep, T-strap, instep strap court shoe, T-bar court, T-strap pump (variante americana).
Sarebbe però riduttivo considerare la sinonimia patologica solo come una conseguenza indesiderata della traduzione. Se cambiamo prospettiva, spostandoci dalla lingua che importa termini alla lingua che li crea, constatiamo che il fenomeno non scompare, anzi. Tra gli esempi di sinonimia patologica spicca già in inglese, che in questo caso è lingua fonte, il linguaggio medico. Come osserva Jammal (1999: 233), il linguaggio medico «est peut-être le plus beau cas de prolifération synonymique que l’on puisse imaginer». Il termine angioneurotic edema, ad esempio, «a de nombreux sinonymes: acute circumscribed edema, acute essential edema, angioedema, Bannister’s disease, giant urticaria, migratory edema, Milton’s disease, Milton urticaria, nonhereditary angioneurotic edema, Quinke’s disease, Quinke’s edema, etc.». Tornando all’italiano, un’analoga «prolifération synonymique malsaine» si ritrova nel dominio veterinario. Una ricerca sulla terminologia relativa all’anatomia del cavallo (Di Marco, 2004) fornisce, per ciascuna delle falangi del cosiddetto dito del cavallo, dai tre ai quattro termini. La terza falange, ad esempio, si chiama anche falange distale, osso del piede e osso triangolare. L’articolazione interfalangea prossimale si chiama anche seconda articolazione interfalangea, articolazione del piede, articolazione corono-navicolo-triangolare, e così via. Di fronte a una proliferazione incontrollata che in prospettiva minaccia una «babélisation du langage» (Jammal, 1999: 233 ), non stupisce che gli addetti ai lavori siano stati tentati da una soluzione drastica e forse velleitaria: l’adozione di una terminologia standard internazionale basata sul latino (Barone, 19808).
Contrariamente a un pregiudizio diffuso, la sinonimia patologica non è uno dei difetti che la terminologia erediterebbe dai lessici naturali9, ma una patologia incoraggiata dalle modalità stesse di formazione dei lessici di specialità, sconosciuta ai lessici naturali. Se guardiamo con occhio disincantato alla realtà, e non all’ideale, ci rendiamo conto che un lessico di specialità è enormemente più esposto a una proliferazione incontrollata di sinonimi di qualsiasi lingua naturale. A differenza dei lessici naturali, i lessici di specialità si arricchiscono prevalentemente grazie all’accumulo di scelte individuali sottratte al tacito ma severo controllo della comunità dei parlanti.
Quando la sinonimia è patologica, la distribuzione dei diversi termini è casuale, priva di un criterio di orientamento. Di converso, una distribuzione regolare e prevedibile dei sinonimi dovrebbe essere una spia attendibile di una specializzazione funzionale. Il caso più significativo si ha sul piano diastratico, in presenza di una differenziazione degli utenti elettivi di ciascun sinonimo sulla base di un diverso grado di specializzazione.
La terminologia del trasporto aereo (Giampreti, 2003; Bertaccini, Giampreti, 2006) è un buon esempio di come possono coesistere fianco a fianco strati di sinonimi giustificati funzionalmente dalla stratificazione degli utenti e veri e propri doppioni patologici dovuti a una formazione non controllata. Da un lato, si rileva nelle serie sinonimiche una coesistenza non risolta di soluzioni traduttive diverse che abbiamo già riscontrato per il digitale terrestre. Dall’altro, la presenza simultanea sulla scena comunicativa di tecnici altamente specializzati, personale delle compagnie e operatori turistici in contatto diretto con il pubblico degli utenti impegnati nelle più diverse forme di interazione favorisce una differenziazione sistematica degli ambiti d’uso dei diversi sinonimi.
In italiano, la stratificazione dei sinonimi in funzione delle categorie di utenti interferisce con la tendenza all’accumulo disordinato di termini autoctoni, prestiti integrali o parziali dall’inglese, calchi strutturali dall’inglese o, meno frequentemente, dal francese, che non presentano differenze significative di distribuzione. Il prestito integrale terminal, ad esempio, coesiste con aerostazione e con il prestito integrato terminale; il calco parziale banco check-in con banco di accettazione e con sportello di registrazione (dal francese enregistrement); la sigla [I:I]CRS [/I:I](prestito integrale dall’inglese) con sistema di prenotazione computerizzato (calco strutturale dall’inglese computerised reservation system) e con sistema telematico di prenotazione (formulazione dell’U.E.). In francese, «un sentiment marqué de défense de la langue nationale et du droit de tout citoyen de comprendre entièrement ce qui est énoncé, écrit, transmis» (Bertaccini, Giampreti, 2006), autorevolmente sostenuto da organismi ufficiali come l’Académie française e la Délégation générale de la langue française, oltre che da commissioni ministeriali di terminologia, incoraggia la creazione di termini autoctoni e l’acclimatazione dei prestiti. In questo modo, lo spettro delle alternative si riduce, anche se meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Così, compagnie aérienne subisce la concorrenza di ligne aérienne (calco strutturale dall’inglese airline), transporteur aérien (calco strutturale dall’inglese air carrier); vol charter (prestito parziale dall’inglese) della forma abbreviata charter e di vol affrété (calco strutturale dall’inglese).
Come si nota anche dagli esempi, la presenza di specializzazioni funzionali attenua l’impatto della sinonimia sull’anisomorfismo, e quindi sulla circolazione interlinguistica dei termini. In particolare, tra italiano e francese si osservano significative corrispondenze interlinguistiche «non seulement entre les termes principaux des différentes langues d’analyse, mais aussi […] entre synonymes et variantes de ces termes, aussi bien que entre termes principaux et synonymes dans les autres langues» (Bertaccini, Giampreti, 2006). Fenomeni come questo meritano di essere segnalati nelle schede terminologiche e nei glossari10. Più generalmente, la sinonimia funzionale alla stratificazione degli utenti rappresenta un incentivo a abbandonare modelli di repertori e schede basati su una semplificazione eccessiva degli usi e sprona a progettare strumenti di registrazione più flessibili e rispondenti all’uso sociale dei termini.
Come si vede, l’atteggiamento del terminologo e del terminografo nei confronti della sinonimia funzionale non si discosta in linea di principio da quello del lessicologo e del lessicografo. La sinonimia fisiologica è funzionale all’uso e, di conseguenza, deve essere in qualche modo registrata dalle schede e dai repertori, così come è registrata nei dizionari delle lingue naturali. Come il lessicologo e il lessicografo, il terminologo prende atto dell’esistenza di paradigmi di sinonimi e cerca di ricostruire con precisione le motivazioni funzionali soggiacenti: come scrive Gambier (1991, p. 8), «la dimension sociale est non seulement une dimension des technolectes, mais elle devrait être aussi partie intégrante de la théorie terminologique». È su questa premessa, in particolare, che si è sviluppata la socioterminologia (Temmermann 2000), che si sforza di riportare la pluralità dei termini sinonimi alla stratificazione sociale degli utenti e ai diversi gradi di specializzazione. Indagare sistematicamente le motivazioni funzionali della sinonimia e correlarla con la stratificazione degli utenti, d’altra parte, non significa scegliere un male minore nell’impossibilità di una soluzione ideale. Viceversa, la prospettiva socioterminologica è il frutto maturo del riconoscimento delle radici della terminologia nel più generale uso linguistico, con il quale condivide le motivazioni funzionali.
La sinonimia patologica, viceversa, rappresenta un ostacolo alla compilazione di repertori e schede perché in primo luogo è di ostacolo al funzionamento della terminologia stessa, e in particolare all’univocità della categorizzazione e della comunicazione, in primo luogo intralinguistica ma anche, e soprattutto, interlinguistica. In quanto tale, andrebbe idealmente eliminata dall’uso, e di conseguenza dalle schede e dai repertori.
3. Descrizione e normalizzazione
L’analisi della sinonimia ci ha così portati ad affrontare in modo diretto ed esplicito uno dei problemi annosi e mai risolti della ricerca terminologica e della pratica terminografica: il complesso rapporto tra descrizione e normalizzazione.
Il riconoscimento della natura testuale e sociale dei termini porta a ridimensionare in modo drastico il ruolo della normalizzazione in terminologia, e a sostituire, o almeno integrare, la spinta normalizzatrice con un atteggiamento descrittivo: nel caso della sinonimia, in particolare, porta a valorizzare la funzionalità della sinonimia rispetto alla stratificazione degli utenti. Al tempo stesso, la presenza a volte massiccia di una sinonimia patologica conferma e rafforza l’idea che la spinta normalizzatrice è ineliminabile dalla ricerca terminologica e dalla pratica terminografica, che non possono che perseguire, almeno come ideale normativo, il massimo di univocità compatibile da un lato con il radicamento linguistico, e dall’altro con la stratificazione dei testi, delle situazioni e degli utenti. Ora, mi sembra che un’analisi linguistica fine degli esiti del radicamento endocentrico dei termini – anisomorfismo, omonimia, polisemia, sinonimia - sia in grado di fornire criteri solidi e affidabili a un progetto realistico e teoricamente fondato di normalizzazione, del tutto compatibile con una descrizione adeguata dei fatti empirici.
Le due strategie – la descrizione e la normalizzazione – hanno oggetti, criteri ispiratori e scopi completamente diversi. Proprio per questo, non sono incompatibili ma possono coesistere, a condizione che le loro differenze di ambito e di finalità siano esplicitate e rispettate.
La descrizione ha come oggetto i dati così come si danno all’osservatore, e si fonda sul loro rispetto incondizionato e disinteressato. Scopo della descrizione, e della teoria che le fornisce categorie e metodi, non è manipolare i dati, ma predisporre strumenti sempre più precisi per la loro descrizione quanto più possibile esatta. La regola aurea dell’analisi descrittiva è formulata esplicitamente da Husserl (1913(1965: 50-51)): «Nessuna immaginabile teoria può coglierci in errore nel principio di tutti i principi: cioè, che ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà».
La normalizzazione capovolge le gerarchie della descrizione. Al primo posto viene lo scopo da raggiungere sul piano pratico con un’azione interessata: nel caso della terminologia, la categorizzazione e la comunicazione univoca di concetti ben circoscritti a livello interlinguistico. I fatti così come si danno non sono rispettati ma manipolati in funzione del fine.
Nelle scienze umane, dove i fatti stessi sono comportamenti condivisi di esseri umani, identificati sulla base di motivazioni condivise, e cioè di funzioni, le due prospettive, anche se nettamente distinte in termini assiologici, si intrecciano e si confrontano nella complessità dei dati in un’interazione tanto conflittuale quanto ineludibile. Da un lato, la semplice presa d’atto incondizionata della realtà empirica può portare alla legittimazione di pratiche funzionalmente patologiche e disgregatrici, allontanando la prospettiva di una loro correzione. Sul versante opposto, la presa di distanza dai dati insita nella spinta normalizzatrice porta facilmente a sovrapporre l’astratto ideale normativo ai fatti empirici: a promuovere l’ideale ai danni del reale. Per neutralizzare questi rischi opposti, c’è un’unica strada: un’analisi rigorosa e metodologicamente illuminata dei fenomeni, che sappia discriminare i fatti funzionali, cioè i comportamenti giustificabili, dai fatti patologici, destinati a produrre entropia.
Un esempio di come un’analisi esatta di un fenomeno complesso in tutte le sue sfaccettature possa discriminare derive funzionali e derive patologiche, confuse sia da un’astratta spinta normativa, sia da una cieca idolatria del dato di fatto, viene dall’ambito delle lingue naturali, e in particolare dalla grammatica. Nelle lingue naturali, come in terminologia, si mescolano derive funzionali e derive disgregatrici, che alimentano l’entropia del sistema e l’insicurezza e il disorientamento degli utenti. Una descrizione adeguata è l’unica strada per discriminarle.
L’uso recente delle forme atone dei pronomi personali in italiano documenta una sovraestensione della forma obliqua maschile singolare gli da un lato a danno della forma femminile singolare le, e dall’altro a danno della forma plurale loro. Da un punto di vista astrattamente normativo, entrambi gli usi appaiono devianti, e come tali da sanzionare. Se però applichiamo un criterio funzionale, i due usi si differenziano nettamente, e danno indicazioni opposte.
La sovraestensione verso il plurale possiede una solida ragione funzionale. Al plurale, le terze persone non hanno forme oblique atone distinte dalle forme toniche corrispondenti. La forma loro, anche quando non è preceduta da preposizione, occupa comunque la posizione di fuoco tipica delle forme toniche. Le forme Ho scritto a te, a lui, a voi, che presentano il pronome tonico in posizione di fuoco, si oppongono a Ti, gli, vi ho scritto, che presentano il pronome atono in posizione debole. Viceversa, le forme Ho scritto a loro e Ho scritto loro presentano entrambe il pronome in posizione di fuoco. I parlanti percepiscono questa lacuna come un difetto del paradigma grammaticale e un ostacolo all’espressione. Per questo, la tendenza a estendere al plurale la forma atona del maschile singolare gli può essere interpretata come una spinta a completare il paradigma e a migliorare il suo rendimento funzionale: come al singolare, Ho scritto a loro si oppone a Gli ho scritto.
La sovraestensione verso il femminile, viceversa, sollecita e in prospettiva sconvolge il sistema senza alcun beneficio funzionale, dal momento che la forma le, vittima della deriva, presenta le stesse caratteristiche funzionali di gli. La tendenza in atto porterebbe semplicemente alla perdita della distinzione tra maschile e femminile che è vitale nelle forme di terza persona in italiano come in tutte le lingue del mondo11.
Tornando alla terminologia dopo questa digressione, credo che l’applicazione di un criterio simile porti a distinguere con chiarezza i fenomeni funzionali, che arricchiscono le terminologie e come tali devono essere segnalati e valorizzati dalla descrizione, dai fenomeni patologici, che minacciano le loro funzioni elettive e come tali meritano di subire interventi mirati di normalizzazione.
I fenomeni che abbiamo brevemente segnalato come spie del radicamento endocentrico dei concetti – anisomorfismo, omonimia, polisemia, sinonimia – sono molto diversi tra di loro da questo punto di vista. Dalla nostra discussione, inoltre, si sarà capito che i problemi si concentrano soprattutto nell’area della sinonimia.
L’anisomorfismo non si lascia facilmente ridurre, ma in compenso non ha ricadute serie sulla comunicazione interlinguistica. Un traduttore ne deve essere consapevole, ma senza sopravvalutarlo. Se i singoli termini non hanno corrispondenti diretti nella lingua di arrivo, le relative aree concettuali e le pratiche e le istituzioni sulle quali poggiano sono largamente condivise. Per un buon traduttore economico-finanziario dall’italiano al francese, ad esempio, la presenza del solo termine credito nella lingua di partenza non è un ostacolo all’uso corretto degli equivalenti crédit e créance nella lingua d’arrivo.
L’omonimia è certamente una forma di patologia dell’espressione, e quindi un ostacolo potenziale alla comunicazione. Tuttavia, l’organismo linguistico è in grado al tempo stesso di tenerla sotto controllo e di tollerarla in quantità ridotte, e lo stesso vale nell’ambito della terminologia. Quanto alla polisemia, l’idea stessa di ridurla è priva di senso, dal momento che si tratta di una delle risorse funzionali più produttive della lingua. D’altra parte, se la polisemia è accuratamente distinta dall’ambiguità, ci rendiamo conto che è sostanzialmente priva di ricadute negative.
A questo punto, rimane la sinonimia, che rappresenta il vero e proprio snodo critico tra descrizione e normalizzazione.
La terminologia si differenzia da una lingua naturale in quanto a una sinonimia funzionale associa una sinonimia decisamente patologica, che rappresenta un ostacolo tanto alla comunicazione specialistica che alla redazione di schede e glossari multilingue. Questa premessa ci porta a una prima precisazione sul ruolo della normalizzazione: la normalizzazione non ha come bersaglio un difetto che le terminologie erediterebbero dai linguaggi naturali, ma un male endemico e specifico, che caratterizza la terminologia e la distingue dalle lingue naturali.
Fatta questa doverosa premessa, l’atteggiamento del terminologo verso la sinonimia non può che essere differenziato, e guidato da una consapevolezza metodologica sicura nel distinguere i paradigmi di sinonimi funzionali dai casi di proliferazione patologica e incontrollata. La sinonimia patologica dovrebbe idealmente sparire da una terminologia adeguata; la sua eliminazione è un obiettivo coerente, anche se non facilmente realizzabile nei fatti. La sinonimia funzionale, viceversa, deve essere riconosciuta nel suo valore di segnale della stratificazione sociale degli usi e descritta per quello che è. Non solo deve figurare all’interno delle schede e dei glossari, ma deve anche spingere alla creazione di strumenti adeguati al suo trattamento. La sinonimia è il terreno sul quale la spinta normalizzatrice si incontra con l’analisi linguistica, perché solo l’analisi linguistica può fornire il criterio di discriminazione tra sinonimia patologica e sinonimia funzionale.
4. Conclusioni
I lessici di specialità non sono sistemi di etichette neutre, ma segni che si formano all’interno di una lingua. In quanto segni, i termini condividono con i lessemi delle lingue naturali un relativo ancoraggio endocentrico dei concetti, che si manifesta in fenomeni come l’anisomorfismo, l’omonimia, la polisemia e la sinonimia.
Per essere riconosciuto come tale, un termine non ha bisogno di una relazione biunivoca con un concetto: è sufficiente che sia riconosciuto come tale in un testo di specialità appartenente a un dominio dato. Questa banale osservazione apre i lessici di specialità alla polisemia: tanto una parola comune che un termine già istituito sono pronti a assumere in modo assolutamente non ambiguo un valore di termine in un testo appartenente a un dominio dato.
Un lessico di specialità non rimane confinato a un’élite di specialisti, ma circola in una società stratificata, dove gli specialisti puri coesistono con gli utenti non specializzati e con gli specialisti che con questi ultimi sono in contatto. Per venire incontro in modo adeguato alle diverse funzioni sociali, un lessico di specialità è pronto a stratificarsi in funzione della stratificazione degli utenti esattamente come l’accesso ai lessemi di una lingua naturale si differenzia in funzione della stratificazione sociale dei parlanti. Sullo sfondo di queste osservazioni, la sinonimia diventa una risorsa funzionale.
Infine, i termini circolano tra le comunità linguistiche soprattutto grazie alla traduzione. Se una quota di anisomorfismo è il prezzo da pagare per la circolazione interlinguistica, una proliferazione incontrollata e patologica di sinonimi ne può essere la conseguenza indesiderata, sulla quale concentrare gli sforzi di normalizzazione. Una terminologia adeguata, capace di distinguere i fenomeni funzionali da fenomeni formalmente simili ma decisamente patologici, non solo fa posto a uno sforzo di normalizzazione, ma gli fornisce il necessario fondamento metodologico.
Se i termini non sono etichette esteriori di concetti isolati dalla loro incarnazione linguistica e dalla circolazione sociale, ma «multifaceted units», al tempo stesso «units of knowledge, units of language and units of communication», si giustifica l’idea di una “multidimensional theory of terminology” (Cabré, 2003) aperta al contributo della liguistica e in particolare della lessicologia.
Il fine delle mie argomentazioni non è negare un confine disciplinare, ma mostrare che può essere attraversato nei due sensi, alla ricerca di suggerimenti e di proposte di soluzione di problemi che possono portare giovamento tanto al terminologo che al linguista. Il terminologo troverà certamente nella ricerca linguistica gli strumenti concettuali per far fronte ai problemi che la terminologia condivide con la lessicologia delle lingue naturali, e in particolare la polisemia nel suo rapporto con l’ambiguità, e la sinonimia nelle sue correlazioni con la stratificazione degli utenti. Inoltre, sarà spinto a inquadrare i problema delle nomenclature di specialità in uno studio più ampio dei testi di specialità, non solo a livello lessicale ma anche a livello grammaticale e testuale. Il linguista potrà prendere a prestito gli strumenti metodologici e le risorse tecnologiche elaborate dai terminologi, che potrà applicare con profitto alla descrizione lessicale e alla compilazione di dizionari, e in particolare al trattamento dello strato di terminologia naturale presente in dosi massicce nel lessico di ogni lingua naturale.
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Tesi di laurea redatte presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì
Di Marco, V. (2004). Database terminologico bilingue italiano-francese: anatomia del ‘dito del cavallo’ e analisi di un problema di sinonimia in ambito scientifico. Rel. Prof. M. Prandi. Forlì: Università di Bologna, Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori.
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Rumori, D. (2004). Salvatore Ferragamo SpA: un’azienda, una terminologia. Rel. Prof. D. Boothman. Forlì: Università di Bologna, Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori.
Sales, V. (2004). Esercizi e attrezzature nel settore del fitness: Proposta di glossario terminologico bilingue italiano – francese. Rel. Prof. D. Maldussi. Forlì: Università di Bologna, Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori.
Note
↑ 1Ringrazio Franco Bertaccini, Danio Maldussi, Micaela Rossi e Alessandro Vaccari per i suggerimenti ed esempi.
↑ 2Il termine condivisione rende nello spirito, se non nella lettera, il termine thésis usato da Aristotele (Dell’espressione) per distinguere il symbolon, o segno linguistico, dal seméion, che è un indice. Il termine thesis, che nel Cratilo di Platone si oppone a physis, natura, è normalmernte tradotto con convenzione.
↑ 3Il territorio variegato dei concetti esocentrici crea lo spazio per un equivalente naturale della terminologia. Di questo spazio, in particolare, si è impadronita la linguistica cognitiva, che ha spostato l’attenzione della semantica delle lingue naturali dall’ambito dei concetti endocentrici, altamente specifici, a quello dei concetti esocentrici, debitori di strutture cognitive più generali. In questo modo, le funzioni tradizionalmente attribuite alla terminologia, e cioè l’etichettatura e la messa in circolazione di concetti indipendenti e facilmente trasferibili, vengono riconosciute come funzioni centrali dei lessici naturali, spesso con un’enfatizzazione di segno opposto ma altrettanto radicale di quella propria dello strutturalismo, come osserva Cruse (1992).
↑ 4La distinzione tra concetti esocentrici e concetti endocentrici si correla in modo interessante con la distinzione tra «schede orientate al concetto» e «schede orientate al termine» tracciata da Bertaccini e Lecci (2008, in questa raccolta). Mentre i concetti esocentrici possono essere immediatamente descritti sia da «schede orientate al termine», sia da «schede orientate al concetto», i concetti endocentrici richiedono «schede orientate al termine».
↑ 5Sulla base di questa premessa, si potrebbe pensare all’etimologia come a un criterio discriminante, capace da un lato di documentare l’estraneità dei lessemi omonimi e dall’altro di ripercorrere nella ricostruzione storica le trame concettuali delle estensioni polisemiche. In realtà, la perdita parziale di una memoria storica condivisa dei percorsi di estensione e la tendenza complementare alla rimotivazione delle relazioni omonimiche rendono il discrimine confuso nei fatti, anche se teoreticamente chiaro.
↑ 6Gross (2005(2006)) segnala che il Petit Robert contiene, a fronte di 60.000 voci, 300.000 accezioni, vale a dire una media di cinque accezioni per ogni lessema.
↑ 7Gaudin (2003) dedica l’intero cap. 7 alla descrizione dei processi di estensione del significato, e in particolare della metafora, nel passaggio dei termini da un campo all’altro del sapere.
↑ 8Barone (1980, pp. 6-7) fa riferimento ai Nomina Anatomica Veterianaria (N.A.V.) del 1967, elaborati da una commissione internazionale creata dall’Associazione Mondiale degli Anatomisti Veterinari. I tentativi di razionalizzazione della terminologia per sostituzione integrale del patrimonio in uso, quando non riescono, finiscono con l’aumentare l’entropia del sistema. Un esempio significativo viene dalla terminologia della linguistica. Nella sua monografia Wilmet (1986) introduce una terminologia integralmente nuova per il trattamento della referenza nominale, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto mettere ordine nella materia. Tuttavia, nel momento in cui non vengono accettati da tutti gli addetti ai lavori, i termini nuovi si affiancano ai termini in uso, aggravando ulteriormente il problema.
↑ 9Come esempio di quanto questa idea sia data per scontata, si veda ad esempio Bouveret (1998: 11): «Mais en réalité, le terme est sujet à la synonymie et à la polysémie, à tous les ‘dysfonctionnements’ que connaissent les dénominations de langue commune».
↑ 10E suggerisce l’idea di “un vocabulaire stratifié, à consulter non seulement sur la base du terme principal, mais aussi des variantes et des synonymes, pourvus eux-aussi de leur propre équivalent inter-linguistique. Un tel outil serait certainement à même d’attirer des usagers beaucoup plus variés parce que, contrairement aux vocabulaires spécialisés, il irait à l’encontre des exigences d’une souche beaucoup plus vaste de personnes. En effet, chacun pourrait y accéder selon ses propres connaissances du secteur et par le biais des termes qu’il, sur la base de ses compétences, estime être les termes ‘vedette’” (Bertaccini, Giampreti 2006).
↑ 11Naturalmente, la storia della lingua è piena di esempi di mutamenti di sistema nati da derive non funzionali. Il dato reale, una volta accaduto, è consacrato dalla sua stessa irreversibilità, e come tale rivendica le sue ragioni; ma questo non implica ancora che il reale sia razionale, e che la comunità linguistica debba accettare qualsiasi deriva per il solo fatto che si è innescata.