Publifarum n° 10 - Les Caraïbes: convergences et affinités

Elementi di poetica damassiana: Note sulle relazioni interindividuali, sociali e interculturali nell'opera di Léon G. Damas

Antonella EMINA



La relativa semplicità dello stile damassiano, la caratteristica immediatezza del tratto, la trasparenza del segno corrispondono a una diffusa quanto insospettata opacità, soprattutto a riguardo dell'intreccio delle relazioni interculturali, sociali e interindividuali.

Imprevedibilmente anche sulle relazioni intercultuali permane una zona d'ombra, nonostante siano note le prese di posizione ideologiche a favore della Négritude da parte dell'autore, il quale, nella prima raccolta poetica, Pigments, ha richiamato con decisione la sua ascendenza africana («mes poupées noires», DAMAS 2001: 43) nonché la sua partecipazione alla vita dei “nègres” che giocavano per strada, oltre alla sua personale simpatia per quel mondo di diseredati, talmente abbandonati a loro stessi da poter godere di qualche sprazzo di libertà («et que je vous reprenne dans la rue […] / à jouer / à vous ébattre avec un tel / avec Untel qui n’a pas reçu le baptême, DAMAS 2001: 37). Nonostante questo partito preso, quindi, nonostante la denuncia che Damas, per primo nel mondo francofono, porta avanti con tanta enfasi, la relazione fra le diverse anime che lo abitano non si risolve in una scrittura interpretabile univocamente: l’emergenza della complessità culturale ed esistenziale è tutt'altro che lineare. La forza e, al contempo, l'opacità della sua parola derivano anche dall’assimilazione degli strumenti che il surrealismo ha sperimentato, per lo meno per quanto riguarda la libertà espressiva che, nel caso del nostro, si rivela con gradualità.

Molteplici influenze si intersecano, dunque, si sovrappongono o si accostano, introducendo elementi contraddittori. Possiamo stilare un primo elenco di criticità a livello della compresenza di diverse influenze culturali nella stessa persona: l’appartenenza viscerale a una cultura guianese, con tutte le contraddizioni che comporta; l’appartenenza a una cultura profondamente sudamericana, direi amazzonica e continentale; un’educazione franco-antillana; una formazione francese e un pronunciato legame con il continente nordamericano.

La presenza della cultura respirata nel periodo dell’infanzia è piuttosto evidente nell’insieme dell’opera damassiana, ma per verificarne il lavorio, basterà superare l'avvincente lettura del saggio Retour de Guyane (1938), che già dal titolo indica la presa di distanza da una patria che non si connota come terra madre, per accedere alla raccolta di racconti tradizionali Veillées noires (1943), dove la tradizione orale, spesso confusa dai lettori con i canoni africani, si rivela, invece, profondamente guianese per diversi motivi – fra i più evidenti: il ricorso a un bestiario tipico della zona, l’evocazione di un territorio di foresta, abbondante di acque, e il cenno a tipi e a un’organizzazione sociale che richiamano quello stato di sopraffazione permanente che Damas segnala, anche in altri scritti, come tipiche del paese.

A indicare il legame con il mondo sudamericano, amazzonico, dei grandi fiumi e della foresta impenetrabile, come ho detto sopra, per limitarci alle indicazioni geografiche, quindi continentale e non caraibico o antillano delle isole, possiamo trovare molti esempi. Mi soffermo su due versi tratti da Black-label, il poemetto in quattro parti pubblicato da Gallimard nel 1956: «De la Crique encombrée de pirogues» e, poco più sotto, «le souffle même de l’Orénoque».

Se la crique fosse in Martinica o in Guadalupa, non si sentirebbe il soffio dell’Orinoco e rinvierebbe quindi a una piccola ansa di mare non a una crique di fiume come se ne trovano dalle parti dell’Orinoco, magari ingombra di piroghe; inoltre vi sono abbondanti indicazioni toponomastiche esplicitamente guianesi.

L’educazione, invece, l’ho definita franco-antillana perché si tratta di un sistema educativo allargato a tutte le colonie americane della Francia, tipico della piccola borghesia mulatta e ben sviluppato in Martinica, dove Damas, dodicenne, è inviato per proseguire gli studi secondari. È il sistema che ha fornito molti funzionari all’amministrazione coloniale. Il testo damassiano più noto al riguardo è certamente Hoquet, tratto da Pigments:

Ma mère voulant d’un fils très bonnes manières à table
Les mains sur la table
le pain ne se coupe pas
le pain se rompt
le pain ne se gaspille pas
le pain de Dieu
le pain de la sueur du front de votre Père
le pain du pain
(DAMAS 2001: 35)

Ma l’argomento non si esaurisce con la prima raccolta, quella scritta in età giovanile (Damas ha venticinque anni quando pubblica Pigments), ma è un leitmotiv che percorre tutta la sua poesia. In Black-label ci sono ancora riferimenti precisi al tema, la cui vera valenza, però, si coglie soltanto nella lettura dei testi ancora inediti, che non siamo autorizzati a citare. Ci limitiamo a ricordare una scena di vita in società, evocata in Black-label, dove è ricostruita una piccola crisi familiare, anzi l’ordine è inverso, prima si dà conto della crisi familiare e poi se ne esplicitano le cause:

Les cris de joie feinte
d’autres diraient de rage
que tu poussais à perdre haleine
à la toute dernière fessée reçue pour t’être
sous le regard acerbe de ta mère offusquée
et à la gêne polie de tous
farfouillé le nez
d’un doigt preste et chanceux
au goûter de Madame-La-Directrice-de-l’École-des-Filles
(DAMAS, 1956: 64)

Per quanto riguarda la formazione francese, si sa quanto l’insegnamento fosse franco-centrico anche nelle colonie, e non mi attardo sull’argomento che avrebbe bisogno di uno spazio specifico.

La compresenza di tutte queste influenze, da sola, non spiega, tuttavia, la ragione per cui i tre fiumi della celebre metafora di Black-label non possano sfociare in un armonico unico corso onnicomprensivo. Ciò che ostacola l'auspicato riunirsi delle acque è una situazione sociale sempre e comunque di dominazione. La pratica dell'assimilazione, che ha accompagnato e poi seguito la colonizzazione, avrebbe dovuto attenuare tali intenti di dominio, proprio in virtù del fatto che il concetto sembra costruito su un altisonante principio di eguaglianza. Nella realtà dei fatti è stato lo strumento concettuale e morale per giustificare l'aspirazione a ridurre il molteplice all'uno (il modello francese). Inoltre, secondo l'opinione di Damas, mentre l'assimilazione predica l'eguaglianza, allo stesso tempo nega tutti gli strumenti che consentirebbero ai «dominati» di affrancarsi dalla situazione di asservimento, a partire da oggettivi mezzi finanziari ed economici, come si evince dalla battuta finale della citazione sotto riportata, tratta dall’ultimo capitolo di Retour de Guyane (Cfr. DAMAS 1938: 202 e 157-180).

Così, se le condizioni sociali, nel senso ampio di tutti gli aspetti economici, di riconoscimento ecc. che caratterizzano la vita di un individuo all'interno di un gruppo, avessero favorito colui che era in se stesso portatore del molteplice, allora, forse... Ebbene, non è possibile concludere la proposizione se non con formulazioni utopistiche, perché lo scrittore – l'intellettuale, l'uomo pubblico e, per un certo periodo, anche l'uomo politico – ha denunciato a più riprese la condizione di dominazione subita da alcuni gruppi «razziali» nella Francia dell'assimilazione e della dipartimentalizzazione. Su questo aspetto pragmatico si fonda principalmente l’interesse di Damas per gli Stati Uniti. Nato certamente per la scoperta degli autori della Negro-Renaissance, si è poi evoluto anche per motivi inaspettati di ordine sociale ed economico, il che pone Damas in una posizione liminare rispetto all’evoluzione politica di quei territori americani, in seguito assimilati alla Francia esagonale. Nel saggio del 1938, costruito o sugli appunti o sulla memoria del viaggio di prospezione antropologica nella foresta guianese che Damas compie nel 1934 per conto del Musée de l’Homme, leggiamo:

La France sera sans excuses. Aucune assemblée internationale contemporaine, quel que soit son désir de ne rien bouleverser, ne pourra admettre de plaidoirie sentimentale en face des froids dossiers géographiques, géologiques, miniers, agraires que des missions américaines, à peine camouflées, viennent périodiquement constituer sur place. Le chef d'une de ces missions me disait cyniquement à la terrasse de l'Hôtel des Palmistes, face au secrétaire général du Gouvernement de la Guyane, à Cayenne:
– Vous avez l'or, la terre, les bois, la mer, les sites, les hommes… Vous faites des citoyens. Nous aurions fait des millionnaires.
– Il y en a, lui ai-je rétorqué.
Cod-fish aristocracy, me répondit-il avec dégoût, en replongeant dans son whisky; ils ne rapportent pas un sou à la masse: ils sont plus nègres que le boy qui nous a servi le Canadian Club…
(DAMAS s.d.: 117)

«Codfish aristocracy» è un’espressione originaria del Massachusetts, che risale agli anni Quaranta del XIX secolo; fa riferimento a una classe di nuovi ricchi che devono la loro fortuna all’industria del merluzzo. E’ certamente utilizzata in un’accezione dispregiativa. Il senso globale del passo è chiaro.

In Retour de Guyane la scrittura è principalmente referenziale, con una prevalenza dell'uso della terza persona. Il saggio affronta le contraddizioni, le fragilità dell'organizzazione sociale guianese, la violenza nelle relazioni interpersonali, lo stato di abbandono. Chi parla è un narratore che, pur assumendo spesso la veste distaccata dell'osservatore esterno, diventa anche intervistatore, non esitando a entrare nel testo mediante il ricorso al pronome di prima persona. Si aprono a questo punto alcune questioni, fra queste la corretta individuazione di colui che sta parlando in quanto il pronome è di per sé contraddittorio. La filosofia l’ha ben definito come «io viaggiante» (shifter) contrapposto all’«io ancorato», sottolineando, da un lato la sua «posizione rispetto alla quale molteplici enuncianti virtuali sono sostituibili l’uno all’altro […] Ma, allo stesso tempo [… designando] ogni volta soltanto una persona ad esclusione di ogni altra, quella che parla qui e ora» (RICŒUR, 2005: 129). A differenza del nome proprio, esso rimanda quindi a una persona diversa a seconda di chi lo dice o scrive, in un certo momento e in un certo luogo. Porta, insomma, in evidenza il momento enunciativo. Il che introduce uno degli elementi di opacità dell’opera damassiana, riscontrabile nell’incertezza delle situazioni cui fanno riferimento gli enunciati.

Si drammatizza insomma quell’opposizione contraddittoria fra la sostituibilità dell’«io» (i diversi possibili enuncianti), sopra citata, e la sua insostituibilità (ogni volta rinvia a un solo enunciante), ricontestualizzando nell’ambito delle letterature post-coloniali l’interrogativo posto da Ricœur: «Quale senso si può, in effetti, attribuire all’idea di un punto di prospettiva singola sul mondo?» (RICŒUR, 2005: 131). La questione della focalizzazione resta infatti ancora oggi l’argomento caratterizzante della letteratura post-coloniale. La mobilità del punto di vista, che varia senza fornire tutti i dati utili alla sua identificazione, costituisce un ulteriore aspetto critico dei testi presi in esame.

Dall'identificazione di questa prima persona, soprattutto nelle opere poetiche, si generano percorsi di senso non sempre del tutto chiari e talvolta sorprendenti.

Black-label non si esime dal mettere in evidenza la posizione immediata – naturale – del soggetto «je». Nella sequenza che segue, i tre primi versi, con la loro intenzione apodittica, si distinguono nettamente dall’ultimo per l’evidenza che accordano al soggetto, mentre nell’ultimo è banalmente funzionale, spostando l’attenzione su un’altra fondamentale parte della proposizione: «d’ici».

Je vois
je sais
je sens
j’entends d’ici les mots
(DAMAS 1956: 12)

I primi tre, così isolati, mettono in evidenza elementi peculiari della persona, elementi naturali nel senso proprio del termine, in quanto legati ai sensi: il primo alla vista; il terzo al tatto, al gusto, all’udito e all’odorato. Il secondo, invece, connota particolarmente l’umanità di tale natura, insistendo sulla sapienza come parte del suo essere. Sapienza da intendersi vs conoscenza, la prima come proprietà dell’essere umano mentre la seconda come frutto di un’azione e di una volontà. «Io vedo», «io so», «io sento» affermano in primo luogo la certezza della mia esistenza, implicita nel fatto stesso di vedere, sentire e sapere, in breve: «io esisto». Fanno spiccare cioè la fondamentale certezza dell’esistenza: io sono colui che vede, colui che sente e, soprattutto, colui che sa, unico verbo fra i tre a rinviare a una capacità astratta o intellettuale, in mezzo a due che colgono l’oggetto non nel suo insieme e nelle sue implicanze complessive, ma nella sua corporeità. Quindi esisto come persona di carne, ossa e anima (o spirito o intelletto: le differenze fra i tre termini non sono di interesse specifico per questo studio).

Tuttavia, segnalare quelle che sono le caratteristiche proprie della mia natura mi identificano come essere umano, come facente parte di quello specifico gruppo di esseri viventi, ma non come singolo individuo: una rappresentazione del soggetto, una sua oggettivazione, colto com’è nelle sue funzioni peculiari. Ricaviamo da qui un primo elemento, ottenuto parafrasando e banalizzando il Cartesio letto da Ricœur (cfr. RICŒUR, 2005: 83): «io esisto vedendo» e poi «io esisto ‘sapendo’» e ancora «io esisto sentendo». In altre parole, il vedere, il sentire o il sapere soggettivo permettono l’accesso del soggetto all’esistenza. Ma, all’inverso, in assenza cioè degli stessi, saremmo di fronte alla negazione del soggetto? Non entro nel dibattito filosofico riguardo a tale impasse, tuttavia la contraddizione nell’emergenza letteraria dell’io è un elemento sensibile nella letteratura post-coloniale e vero nodo gordiano dell’opera damassiana.

Rimando ad uno studio successivo l’analisi degli altri casi di oggettivazione del soggetto per accostare alla domanda sul chi parli quella sull’interlocutore (a chi parlo?), tenendo sempre ben presente l’anfibologia sull’«io» di cui abbiamo accennato sopra.

Distinguere «a chi» il soggetto parli è sicuramente un passo fondamentale per mettere a fuoco la rete relazionale e, di conseguenza, per aggiungere qualche tassello nel lavoro interpretativo, tuttavia, la quantità di situazioni comunicative incerte rischia di inficiare anche gli sforzi del più elementare approccio semantico.

Alla confusione ingenerata dall’uso dei pronomi di prima e seconda, all’incertezza nel determinare con precisione i contesti enunciativi, l’autore non si fa scrupolo di integrare ed eventualmente riprodurre nei suoi testi, sia nella poesia sia nella prosa, un discorso o un frammento di discorso altrui, o magari anche suoi ma prelevati da altri lavori. Accumula, in buona sostanza, diversi punti di vista, di cui si possono scorgere i termini solo in talune circostanze, principalmente, quando utilizza il discorso diretto, mentre sono meno evidenti quando ricorre al discorso indiretto, al discorso indiretto libero (ben più frequente) o al discorso narrato.

Per poter percepire il senso, va da sé la necessità di chiarire almeno i termini basilari della griglia relazionale, non solo quindi il locutore, sul quale convergono le ombre sopra individuate, ma anche l’allocutore, quando è il caso, e il destinatario o i destinatari per lo meno quelli impliciti.

In tale situazione il discorso diretto è quello che dovrebbe porre meno problemi di reperibilità dei termini e solo di tale strategia mi occuperò nel seguito dell’articolo. Esemplificativo di tale occorrenza potrebbe essere il breve e chiarissimo dialogo, sopra citato, tratto da Retour de Guyane, dove il capo di una missione americana, incaricata di preparare un dossier geografico, geologico, minerario o agrario della regione è indicato come il locutore e il narratore come allocutore, il quale interloquisce con lo stesso e quindi si ha, di tanto in tanto, un evidente rovesciamento dei ruoli. Vi è poi la presenza di una terza persona, il segretario generale del Governo della Guyana. Persino i luoghi sono denominati in modo esplicito: la Place des Palmistes, vera icona di Cayenna, dove sorge il bar des Palmistes, qui chiamato hôtel, che già all’epoca occupava la maison Thémire risalente al XIX secolo. Il tempo, un momento durante il suo viaggio in Guyana del 1934.

La citazione è attribuita a chi l’avrebbe enunciata attraverso il verbo introduttore più neutro possibile, «disait», scelta che supporta la caratteristica di base del discorso diretto, il quale dà l’idea di restituire fedelmente l’argomento trattato. Il ricorso a un altro verbo avrebbe potuto connotare il discorso, sovrapponendo l’opinione del narratore.

La questione si complica nell’esempio successivo tratto da Black-label, dove nessun verbo introduttore è utilizzato per lo scambio sotto citato. Alcune informazioni sugli interlocutori sono, tuttavia, reperibili nel testo e l’espressività del discorso è salva:

ALLÔ ALLÔ
Allô Sicy
Sicy-Chabine
ICI Limbé

Veux-tu que nous jouions
au jeu de notre enfance enjouée
dis
veux-tu que nous jouions
au jeu du baiser-pur
du baiser-sur-le-front
du baiser-jamais sur la bouche
(DAMAS 1956: 37)

Si tratta evidentemente di due innamorati, o amanti, che si conoscono dal tempo dell’infanzia, ma non tutto è chiaro: i nomi benché esplicitati, sono essenzialmente latori di connotazioni che vanno al di là della loro funzione di designare individualmente una persona. In fin dei conti, non ci è dato sapere a chi rinviino in concreto. E poi, nella prima strofa, sarà Sicy-Chabine a chiamare Limbé o viceversa? Con l’aiuto dell’introduzione della punteggiatura e di una diversa suddivisione del testo possiamo ipotizzare la lettura che ci pare più probabile:

— ALLÔ
— ALLÔ
— Allô, Sicy? Sicy-Chabine? ICI Limbé

In tal modo ipotizziamo in maniera netta che sia Limbé a chiamare Sicy-Chabine. Tale lettura è supportata, in modo particolare, da «Ici Limbé», dove Ici è il generico «qui» di chi chiama e sta ad un capo del filo, ma questo scambio indica anche la presenza contemporanea dei due interlocutori e quindi potremmo accostare al «qui» esplicitato l’avverbio «ora». I pronomi che sanno ben interpretare l’epifania del «qui e ora» sono la prima e la seconda persona singolare, anzi, nella circostanza dello scambio sopra citato, la prima perché la seconda è piuttosto relegata «là-bas», laggiù, a distanza, dall’altra parte dal cavo telefonico.

Là, laggiù troveremo quindi Sicy, nome femminile certamente, come confermato anche dall’appellativo Chabine, con la lettera maiuscola, come fosse un secondo nome, come Jean-Jacques o Marie-Claire. In realtà l’appellativo chabine convoglia una serie di connotazioni sul nome cui si riferisce che lo caratterizzano sotto diversi punti di vista.

Di per sé, il termine chabin/chabine indica uno specifico gruppo di meticci che conservano caratteristiche etniche molto vaghe (per esempio tratti negroidi, pigmentazione chiara e capelli crespi) e, al pari di mulâtre, si basa su un’etimologia denigratoria. Se mulâtre è da mettere in relazione con mulo, un incrocio contro natura fra un cavallo e un asino, chabin designa il frutto dell’incrocio, sempre contro natura, di un montone con una capra o di un caprone con una pecora (cfr. BARBOTIN, 1995; e R. LUDWIG (et alii), 2002). Se, in termini generali, lo chabin ha spesso caratteristiche morali negative,1 alla sua versione femminile si aggiungono considerazioni di tipo sessuale. La chabine possiede indubbiamente doti seduttive che tuttavia non riescono ad affrancare il tipo antropologico da quell’alea inquietante che lo circonda, alea inquietante che, secondo i redattori del sito creoles-free (Groupe Européen de Recherches en Langues Créoles, che fa capo all’Università di Aix-en-Provence), è da attribuirsi alla loro caratteristica di non essere «né bianchi né neri, [al fatto] che devono essere collocati piuttosto dalla parte del bianco, [al fatto che hanno conservato] tratti da una parte e dall’altra non per ottenere una colorazione intermedia, come per i classici meticci, ma [hanno mantenuto] tratti del nero e tratti del bianco, in qualche modo giustapposti».2 Per avere informazioni ulteriori sull’allocutore (Sicy), dobbiamo proseguire la lettura di Black-label dove incontriamo un altro discorso diretto:

AVAIS-JE EU RAISON DE DIRE
JAMAIS
AVEC
VOUS
(DAMAS 1956: 47)

Il cambio di situazione discorsiva è segnalato dall'uso della lettera maiuscola, distinguendo la parola di quella certa Ketty da quella del narratore e da quella dell'interlocutore. Inoltre, il discorso diretto sopracitato è introdotto da tre versi che chiariscono innanzitutto che è stata Ketty a scrivere alla lavagna quelle parole (quindi non proferite ma scritte), segnalando così che, in questo caso, chi dice «je» non è Limbé: «KETTY belle / KETTY blonde / KETTY nue / [la quale] s’en fut crayonner au grand tableau vert» (DAMAS 1956: 47).

Si profila, quindi, un narratore onnisciente che dà la parola agli uni e agli altri, dichiarando tutti gli elementi, fino all'esplicitazione dei segni grafici del discorso diretto (le virgolette) infatti la poesia continua come segue:

Et après qu'elle eut fermé les guillemets
sur ces mots lourds de sens
lourds de morgue
KETTY s’envola par la lucarne
belle blonde et nue
(DAMAS 1956: 47)

Con la nota chagalliana della donna che si libra nell’aria si chiude la situazione discorsiva in cui Ketty faceva riferimento ad un episodio di malamore, di malapassione, di malarelazione3 ma si aprono nuove incertezze sia sul personaggio di Sicy-Chabine, sia sul soggetto principale.

Et l’AUTRE
[..]
Toute à son jeu
mais d’une voix qui n’était plus sienne
mais bel et bien celle
de Sicy-Chabine
en Ketty retrouvée
YDÉ m’a dit
YDÉ m’a dit
(DAMAS 1956: 47-48)

Chi è «l’autre»? Ketty ha appena lasciato la scena. Si affaccia un altro personaggio che parla con la voce di Sicy-Chabine. Potrebbe essere lei, come attesterebbero la voce e il riferimento al gioco telefonico in corso, ma è come se si portasse ancora addosso il fantasma di Ketty. L’identificazione non può in ogni caso avvenire in modo certo.

Non basta! L’abbozzo di dialogo riportato rimanda alla prima persona («Ydé m’a dit») e ingarbuglia ulteriormente l’idea che ci eravamo fatta al riguardo di quell’«io» il quale, nella simulazione della conversazione telefonica, si era denominato Limbé e la cui voce si confonde anche con quella del narratore. Ora Ketty/Sicy-Chabine lo chiama YDÉ che è l’abbreviazione di ÉLYDÉ.

Come nel caso di Sicy-Chabine, Limbé e Élydé non svolgono la funzione tipica del nome proprio, ma rinviano a caratteristiche di qualche tipo. Ketty, invece, non sembra rispondere alla stessa logica, tuttavia oltre alla sua connotazione di nome anglosassone non ci mette in grado di identificare nessuno. Nel caso di Sicy-Chabine è il tipo antropologico a prevalere, mentre nel caso di Limbé e di Élydé è la percezione di sé a determinare il nome.

Possiamo ipotizzare che Limbé sia costruito su «limbe», limbo di un astro, oppure, con maggiore probabilità, su «limbes», non tanto nella sua accezione di luogo nel quale sono (o erano) relegate le anime innocenti o dei giusti, morti prima di essere stati salvati dal peccato originale, ma in quella figurata di stato incerto, indeciso, il che annuncerebbe l’altro nome Élydé che richiama il verbo «élider» che in latino classico («elidere») significava espellere, mentre nel linguaggio comune indica la soppressione di lettere nella composizione di una parola e, in senso generale, comporta un’idea di annullamento.

Indizi per interpretare il significato del nome si possono trarre sia da altri passi di questa seconda parte di Black-label, sia dalla biografia dell’autore.
Per esempio il testo ripete più volte (con piccole variazioni) il concetto seguente:

et ma voix clame en Exil
et l’Exil chante à deux voix
et voici ELYDÉ
(DAMAS 1956: 46)

versi che precedono sempre i seguenti, anche questi ripetuti più volte con piccole variazioni:

ÉLYDÉ
Je dis bien pour ceux ceux qui n’en savent rien
je dis ÉLYDÉ deux êtres confondus en un seul
à jamais seul
malgré la toute première scène
(DAMAS 1956: 44)

La poesia quindi inserisce Élydé all’interno di un campo semantico che vede la compresenza di «Exil», di «deux voix» e di «deux êtres». Esiliato, cioè espulso, ma anche dicotomico o alienato, poiché due sono gli esseri che si identificano in un unico nome, in un’unica persona.

Élydé, «due esseri confusi in un solo essere per sempre solo», potrebbe contenere il tentativo di una raffigurazione di alcune contraddizioni del soggetto di prima persona: l’immanenza e la permanenza, il soggetto forte che dice la propria esistenza contrapposto al soggetto debole che esiste soltanto in virtù del suo fare…

Élydé, «due esseri confusi in un solo essere per sempre solo», ci rimanda anche all’evento originario («malgré la toute première scène»), quello che ha determinato il primo passaggio dal doppio al singolo. La biografia damassiana, secondo l’ipotesi di Daniel Maximin (cfr. MAXIMIN, 1998: s.p.), lo farebbe coincidere con la morte della sorella gemella Gabrielle immediatamente dopo la nascita. Fatto certamente fondamentale che potrebbe spiegare, almeno in parte, l'ampiezza della dimensione del lutto nella sua opera poetica e che certamente comincia ad illuminare sulla costante evocazione del doppio. Si rappresenta così la possibilità dell'estensione della dimensione del singolo al più d'uno, possibilità inscritta nell'uso del pronome soggetto di prima persona. L'uso linguistico si trova allora allineato ad una circostanza che accosta un archetipo culturale (i gemelli) ad una situazione psicologica particolare e individuale, propria di quella specifica esistenza. Lo stesso richiamo all’esilio, dato che Damas non è mai stato esiliato, sembra la dimensione interiore di chi, subendo la giustapposizione degli elementi che ne hanno formato la personalità (relazione con la madre, relazione con la terra-madre, con la molteplicità delle fasi formative: i paesaggi e le culture in contraddizione le une con le altre…), non è riuscito a farne una sintesi. Le coordinate delle situazioni di comunicazione, spesso non del tutto limpide, neppure nel discorso diretto, vanno quindi a sostenere l’espressione di quei motivi di instabilità relazionale personale e culturale che sono elemento pregnante della poetica damassiana.

Bibliografia

M. BARBOTIN, Dictionnaire du créole de Marie-Galante, Amburgo, Buske, 1995.
L.-G. DAMAS, Pigments, Parigi, Guy Lévi-Mano, 1937; Présence Africaine, 2001.
L.-G. DAMAS, Retour de Guyane, Parigi, Corti, 1938.
L.-G. DAMAS, Veillées noires, Parigi, Stock, 1943; Ottawa, Leméac, 1972.
L.-G. DAMAS, Black-label, Parigi, Gallimard, 1956.
F. DEGOUL, Le Diable, les deux Indiens et le Chabin. Une illustration en récit de l'imaginaire du pacte diabolique en Martinique, in J. Bernabé, J.-L. Bonniol, R. Confiant et G. L'Étang (sous la direction de), Au visiteur lumineux, Petit-Bourg (Guadeloupe), Ibis rouge; [Schœlcher (Martinique)], GÉREC-Presses universitaires créoles, 2000, p. 437-450.
M.-Ch. HAZAËL-MASSIEUX, Chamoiseau, cet écrivain qui écrit le créole R. LUDWIG, D. MONTBRAND, H. POULLET [et al.], Dictionnaire créole-français, Parigi, Servedit; [Pointe-à-Pitre], Jasor, 2002.
directement en français, in Esthétique noire "Portulan", [s.l.], Vent des Îles, 2000.
D. MAXIMIN, in Léon-G. Damas, disque, Paris, RFI, 1988.
P. RICŒUR, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Milano Jaca Book, 2005.





Note

↑ 1 Cfr. Le chabin, in http://creoles.free.fr/Cours/chabin.htm. F. Degoul, Le Diable, les deux Indiens et le Chabin. Une illustration en récit de l'imaginaire du pacte diabolique en Martinique, in Au visiteur lumineux, sous la direction de J. Bernabé, J.-L. Bonniol, R. Confiant et G. L'Étang, Petit-Bourg (Guadeloupe), Ibis rouge; [Schœlcher (Martinique)], GÉREC-Presses universitaires créoles, 2000, pp. 437-450. Marie-Christine Hazaël-Massieux, Chamoiseau, cet écrivain qui écrit le créole directement en français, in Esthétique noire "Portulan", [s.l.], Vent des Îles, 2000, pp. 189-202).

↑ 2 «[…] ces êtres ni blancs ni noirs, […] qu'il faut situer plutôt du côté du blanc, qui ont pris des traits d'un côté et de l'autre, non pas pour obtenir une coloration intermédiaire comme chez les classiques métis, mais gardant des traits du noir et des traits du blanc, en quelque sorte juxtaposés», Le chabin, in http://creoles.free.fr/Cours/chabin.htm.

↑ 3 «Et mon odieux désir de Naguère / n’était plus maintenant / qu’une pauvre / pauvre chose / pauvre chose morte // Prise à son piège / prise à sa morgue / à son dédain de Naguère où mon odieux désir d’Elle / lui laissait entrevoir de guerre lasse au besoin le viol» (Black-Label, 163).

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482