Publifarum n° 10 - Les Caraïbes: convergences et affinités

Spazi cadenzati: dal Tout-Monde al Désir-Monde in Patrick Chamoiseau

Marinella TERMITE



Sensibile alle scelte urbanistiche e alla loro presenza nell’organizzazione – anche delle pagine – di Texaco, Patrick Chamoiseau esplora l’Habitation de L’Esclave vieil homme et le molosse e il cachot d’Un dimanche au cachot, proponendo la cadence come marqueur romanzesco. Questo studio mira ad analizzare i diversi tipi di luoghi presenti in questi due testi costruiti ad eco con il sostegno di pagine, vegetali, minerali, animali – i cris creoli – e ad interrogare la nozione di spazio che ne deriva. Già in Texaco, la conquista dello spazio dell’En-ville (Fort-de-France) era scandita, piegando il tempo alle potenzialità della precarietà, attraverso il passaggio dal vegetale al minerale; ogni epoca corrispondeva ad un materiale (temps de carnet et d’ajoupas, temps de paille, temps de bois-caisse, temps de fibrociment, temps béton). In questo modo, lungi dal condividere il progetto di distruzione di un mondo carico di memorie paradossalmente «impalpabili», Chamoiseau si proponeva, attraverso la testimonianza di Marie-Sophie Laborieux, come il vero architetto della città, condividendo le posizioni dell’urbanista Christian de Portzamparc sulla necessità contemporanea di tener conto della realtà esistente nell’attività di creazione. Di qui la conferma del ruolo d’artista dell’architetto alle prese con specificità e non con utopie generalizzanti.

Ora, l’aspetto organico – relazionale, flessibile, transitorio, in divenire – è una risorsa per un’opera che ha a che fare con la memoria e l’identità? Memoria ed identità sono aspetti, del resto, molto controversi nella scrittura francese dell’extrême contemporain per i risvolti ontologici e finzionali connessi al problematico rapporto fra storia e reale. Come cogliere, allora, la totalità quando le faglie delle testimonianze appaiono sotto la forma dell’impossibilità? Questo contributo privilegerà l’ultimo romanzo di Chamoiseau, alla luce anche delle sollecitazioni provenienti sia dalla pubblicazione, sempre nel 2007, di Édouard Glissant su Mémoires de l’esclavage con cui si propone la fondazione di un centro nazionale per conservare la memoria dello schiavismo, sia dalle riflessioni di Pascal Bruckner sul ruolo della cultura occidentale rispetto a tali problemi e sul senso di colpa. Lo stesso Chamoiseau precisa le sue posizioni sulla repentance nel pamphlet scritto proprio con Glissant e pubblicato nell’autunno scorso.

1. Habitation e Cachot

L’Habitation e il cachot si presentano come i luoghi simbolo del mondo dello schiavismo.
Nel romanzo del 1997, l’autore punta sulla localizzazione geografica, avvalendosi delle componenti vegetali per conservare la traccia, il legame con la memoria. Questa ricostruzione precede la descrizione del contenuto, circoscrivendo il tutto per la parte. Non a caso ne sottolinea le dimensioni ridotte, identificabili con ricordi frantumati al punto tale da diventare polvere e da polverizzare anche il tempo. La storicità viene indicata attraverso la commistione di elementi primari, in cui il «déshumain grandiose» apre «l’existant comme densité inerte, indescriptible» (CHAMOISEAU 2005: 22). Di qui il dominio del disincanto che priva gli abitanti di sogni e di futuro.

La presentazione dell’Habitation Gaschette nell’ultimo romanzo di Chamoiseau compone il passato e il presente. Zuccherificio ai tempi dello schiavismo, questo luogo si trova su un’altura e dà sulla baia. Di lui restano solo tracce di muri ingabbiati nel verde. «Le fleuri des arbustes et des arbres» (CHAMOISEAU 2007: 30) contribuisce a presentare il quadro spaziale. L’aspetto virtuale è sottolineato anche dai locali dell’associazione per i quali si parla di «configuration invisible de la sucrerie» (CHAMOISEAU 2007: 30). Queste caratteristiche dello spazio – fra rovina e ossessione divinatoria – si articolano intorno alla mancanza di testimoni per gli orrori che lì si sono consumati e al sentito dire che alimenta la ricerca del tesoro nascosto da parte di maghi, veggenti, quimboiseurs. L’atteggiamento di Chamoiseau, chiamato in causa in quanto educatore prima di autodefinirsi «bidon», è all’inizio falsamente attento, poi completamente preso dal rudere in cui si trova la bambina tanto da superare la fase «palinsesto» del romanzo. La rovina lo sottrae alla realtà e lo mette in contatto con gli oggetti del passato, riqualificando il discorso della memoria. «Je n’aime pas toucher à ces objets anciens, surtout à ceux qui gisent dans des terres sans mémoires. À leur contact, ma conscience s’émiette entre l’immédiat et le passé, et ne relie plus rien» (CHAMOISEAU 2007: 37). Di qui il ricordo dell’episodio all’origine del testo L’Esclave vieil homme et le molosse (le ossa come reliquie dello schiavismo) e la necessità di scriverne a lungo per liberarsene. La rovina è presentata come un riparo di pietre, proprio di una rinascita. I cachot, definiti «effrayants» dagli schiavisti, sono solo citati in altri testi di Chamoiseau, mentre in questo caso sono visti dall’interno con le loro inquietudini. «Posé là de toute éternité, en dessous de plateau, derrière les bâtiments, pas très loin des manguiers. Invisible dans les racines de ce figuier maudit qui s’avitaille dans son horreur» (CHAMOISEAU 2005: 38-39). Oggetto di terrore, sono l’esempio più resistente dello schiavismo. «L’expérience directe ne vaut rien pour l’Écrire: elle cache le plus précieux de l’existence qui souvent ne s’accorde qu’aux fabulations expérimentales» (CHAMOISEAU 2005: 39). L’effetto del cachot è legato, perciò, alla graduale distruzione, alla diluizione e alla possibilità di condividere questa situazione-limite. L’Habitation è deformata dal dolore che s’irradia nel tempo. Nel riconoscere la durezza dello schiavismo, l’autore sottolinea l’importanza del non ricordare come condizione per rivelare un’assenza senza drammatizzarne gli effetti.

L’important était de ne pas se souvenir. De ne pas entrer en collision avec ces traces qui vous lancinent les os. De les anesthésier d’une absence à soi-même que seuls le tafia, le tambour, la danse, le datou et autres sauve-qui-peut aidaient à pratiquer… La fuite du vieil esclave n’avait rien modifié mais son absence ouvrait au grouillement des absences. (CHAMOISEAU 2007: 60)

Cachot e Habitation visualizzano ciò che resta dello schiavismo in termini di spazialità, ma sollecitano anche una nuova prospettiva nella gestione dell’atto creativo, in cui la tendenza alla patrimonializzazione della scrittura deve far fronte alla problematicità della testimonianza «invisibile» e «lontana». Non a caso, alla fine della prima cadenza dell’ultimo romanzo, il venditore di porcellana – il testimone quale figura immancabile dei romanzi di Chamoiseau – non annota nulla. In uno spazio drammatico non si chiosa l’esistenza; il vuoto si è imposto in mancanza di una coscienza collettiva, il che mantiene aperto, però, l’orizzonte dell’immaginario, risorsa continuamente sollecitata dall’autore per scavare nell’abisso della memoria perduta.

2. Cadenze

Raphaël Confiant propone i cercles per riorganizzare la materia narrativa sia in Brin d’amour che nel recente Case à Chine; Patrick Chamoiseau gioca con i ritmi alternati delle onde, sulle vibrazioni dei suoni per fare della cadence la chiave dell’incompiutezza, quella che sposta il racconto dall’asse della narrazione a quello della letteratura, dell’indécidable come elemento forte che fa scattare il desiderio: «[…] dans l’Écrire comme dans la chose vivante, achever ou conclure, comme comprendre ou connaître, c’est refuser un nouveau pas et renoncer à la beauté» (CHAMOISEAU 2007: 318). Come le pulsazioni del cuore del vecchio schiavo finiscono per fare tutt’uno con le zampe del molosso, così espressioni disseminate nel testo come pietre sonore (CHAMOISEAU 2005: 66: «bidong bidong»; 73: «claquement-pak, roulis-roulés»; 101, 102, 117: «ouélélé sombre, flap»; 113: «biwoua»; 109: «bankoulélait») creano una ritmica complessa che affronta il caos, stabilendo sintonie singolari che ripetono e rilanciano le azioni. A segnare queste oscillazioni che costituiscono la cadence sono due elementi sonori caraibici: crier e raconter. Il crier (chiamare nell’accezione antillana) non si sente, perché espressione del ripiegare su se stessi, mentre il raconter (raccontare) implica una tensione comunicativa come arte del convincimento. Ecco perché Caroline – la bimba rifugiatasi nel cachot – può urlare senza che lo scrittore la senta. L’invisibilità favorisce la presa di distanza dal reale ed insinua la coincidenza dei personaggi Caroline-L’Oubliée al di là del tempo e dello spazio, ponendoli sulla stessa pagina.

Questi richiami non restano, però, solo all’interno di una singola opera, ma creano coincidenze ed allusioni anche fra diverse situazioni scritturali tanto da snidare effetti di falsa riproducibilità.

Ad esempio, L’Esclave vieil homme et le molosse è introdotto dallo stesso interrogativo di Un dimanche au cachot sull’intenzionalità del mondo. Attento alla totalità in quanto relazione, Chamoiseau rompe la circolarità e mette in discussione l’ipotesi di una finalità del mondo, ricorrendo alla cadence per indicare i vari capitoli, introdotti da frammenti paratestuali e citazioni tratte da Toucher. I titoli delle varie articolazioni riprendono elementi primordiali sul piano della materialità e della gestione del passar del tempo. Così alla materia segue il vivere al participio presente (vivente) per indicare ciò che è vivo. Poi, ci sono le acque, la cui pluralità assicura al liquido l’informe, insistendo sul carattere di mobilità e sulle forme del movimento senza limiti. Con Lunaire e Solaire si coglie l’alternanza della notte e del giorno attraverso aggettivi «planetari». Con La Pierre e Les Os dominano l’elemento primario complesso e i resti-testimonianza della vita da schiavi che ritorneranno anche nel romanzo del 2007.

Ogni cadence si confronta con lo spazio, ricorrendo a forme di obliquità con l’aiuto della botanica prima di instradare la conquista della trace in cui appare l’elemento antropico, culturale.

Matière, la prima cadence, colloca il protagonista davanti alla struttura tipo del suo tempo, la «Case». Gli occhi del narratore costruiscono lo spazio mentre la voce appare come forma di distonia che si oppone alla compresenza delle storie di due paesi. «J’ai vu ses yeux, j’ai vu ses yeux égarés chercher l’espace du monde» (CHAMOISEAU 2005: 16). Vivant, seconda cadence, presenta il vieil homme come fuggitivo e, assorbendolo mediante le acacie in particolare, determina esiti spaziali. Eaux, terza cadence, modifica il punto di vista delle precedenti, poiché il personaggio è una donna dall’identità certa, presentata in azione, attraverso lo sguardo. Si passa da «Marie Celat y regarda» a «Marie Celat vit au travers de la barrique» (CHAMOISEAU 2005: 58), situazioni cui corrispondono due elementi naturali, il mare e il cielo. Del primo si coglie il fondo mediante un movimento verso il basso, dell’altro la spinta verso l’alto. Nel primo caso domina la trasparenza della profondità, nel secondo il ritagliarsi uno spazio all’interno della foresta in quanto elemento totalizzante. Di fronte al combattimento epico in divenire, il testo presenta prima la spettatrice – il pubblico – e, poi, riprende gli attori in attesa di agire, creando con l’allusione al personaggio principale una specie di palinsesto, di cornice esterna in cui si cambia il punto di vista per reiterare l’azione dopo averne creato l’attesa. Gli aspetti materiali ed organici sottendono le connessioni con la memoria, procedendo per esclusione, in modo da rallentare e sottolineare l’azione, potenziare l’attesa.

Lunaire, quarta cadence, amplifica il contesto vegetale in termini di spazio in movimento, di unità nella complessità delle piante citate. A rappresentare il passato disordinato sono le lianes, i figuiers-maudits, i bambous, i mahoganis e questo passato lo portano fino a Parigi; la capitale è indicata indirettamente attraverso il pont de l’Alma, unico riferimento spaziale non botanico, ma antropico, esterno all’ambiente e alla dimensione spaziale fin qui costituiti. Alle piante di acomas è legata, invece, la metafora «familiare» con le radici. L’albero generico fa proprio il cri, la sillaba caraibica, paragonabile al pianto solitario. Nell’acquisire consistenza collettiva, la sua singolarità appare attraverso il ricorso al «tu» dell’immediatezza, della distinzione di Solibo le Magnifique che si fa orientamento spaziale.

Con la quinta cadence, Solaire, il pronome «nous» sfugge all’identità fissa. Al mondo agricolo spetta il compito di svelare il mistero della denominazione poiché dare un nome significa dissodare, ma al tempo stesso raffreddare. L’aspetto incongruo è dato dal luogo in cui si trovano i nomi: sono inscritti in alto e portano con loro la dimensione della terra. È singolare l’atteggiamento della totalità relazionale fra terra e mare. Al «terrer au haut» che indica il rintanarsi o il mettere terra ai piedi di un albero si affianca il «déhaler les noms» (CHAMOISEAU 2005: 82) che implica lo spostamento in termini marinareschi.

La Pierre, penultima cadence, si basa sulla mineralità. Introdotta nella cadenza precedente sotto forma di lava che scorre facendo raffreddare e, quindi, solidificare i vari strati, diventa in questo caso il simbolo stesso dell’origine. Roccia costituitasi nelle profondità del mare e cinta di verde (non di azzurro), dalla forma arrotondata per scivolare, rotolare, la Pierre ha contribuito a modificare gli equilibri geologici prima che geografici. La faglia atlantica e le placche continentali sono spostate da questa presenza minerale in movimento. Il quadro spaziale si carica della denominazione, nel momento in cui la mineralità diventa etimologia per il Béké. Il suo cognome sarebbe diventato «la Roche» o «Laroche»; la variante è data dalle piante, «les faugères de Balata» (CHAMOISEAU 2005: 120); queste felci, con il loro movimento, trattengono il suono, lo interrompono, lo possono alterare, lasciando filtrare il vento. L’apporto botanico incide sulle origini, gestendo l’etimologia. Il «je» della narrazione interviene per attribuire storicità al Béké attraverso i legami culturali. L’ultima cadence, Les os, s’inquadra esplicitamente nell’oggi e nel declino della canna, anche se all’idea di ruggine si affianca la cauzione del verde cupo delle cime, quasi a dischiudere nella verticalità la riduzione in polvere, il mescolamento, l’unificazione. L’interrogativo finale fa riaffiorare lo spazio, attraverso il recupero degli strati.

Ad ogni cadence corrisponde una citazione che contribuisce a costruire un’opera aperta attraverso palinsesti dell’éclatement; la frammentazione entra in relazione con le varie componenti a livelli diversi, ricorrendo a tecniche narrative differenti, come l’emboîtement di citazioni predisposte opportunamente tanto da sviluppare il potere evocativo delle immagini fra richiamo ed obliquità. Tutte le citazioni sono tratte dai feuillets della raccolta Toucher, titolo emblematico per rendere il passaggio esperenziale, metodo e strumentazione propri della gestione della testimonianza primaria, quella sensoriale. Da una citazione all’altra, gli elementi ritornano con mediazioni, slittamenti che confermano forme di circolarità aperta, fatte di approssimazione all’immagine principale, fra accumuli e diramazioni. La spazialità – elemento particolarmente sollecitato – veicola la nota della letterarietà, finendo per prendere le distanze dalla nozione di ambiente, di luogo e per inglobarne le specificità opache e incongrue. Si tratta di un fattore determinante per comporre il «désir-monde».

Nella prima citazione domina l’elemento visionario legato a ciò che è stato e che non è più e che, tuttavia, in questa distinzione s’impone con la propria immobilità. Ciò che esplicita questo atteggiamento sono le ossa, come traccia tangibile all’interno di un sogno. Poste, poi, fra materialità ed organicità, assicurano flessibilità e gestione organizzativa, lasciando intuire la carica per il presente nel passato e l’incompletezza come dinamica del mondo, in quanto capace di smentire ogni sorta di finalità. La terza citazione riprende le ossa sempre in maniera obliqua, attraverso il riflesso attorno al quale quest’immagine si sviluppa in mancanza di consistenza e forte della loro unicità dovuta proprio a questa caratteristica di vuoto. La loro specificità si colloca, inoltre, anche in relazione agli inizi e ai finali, alle fasi liminari come le gestazioni e le agonie. Nel quarto feuillet di Toucher le ossa sono ancora presenti, ma in modo obliquo e attraverso un’opposizione luminosa. L’agglutinazione clarté-miroir è la caratteristica che Chamoiseau attribuisce loro, sottolineando la specularità delle ossa stesse in termini di luce (non più solo effetto, come il riflesso, ma strumento del legame fra presente e passato); nella nuit organique totale, invece, l’organicità e la totalità contengono la vita in fieri. Sia la relazione con il passato che quella con il futuro sono viste in proiezione, mediante forme fluide, di mediazione. Intimamente legata alla sua introduzione, la quinta citazione fa delle ossa l’effetto di ciò che resta del passato non in chiave di immobilità, ma di prospettiva. Di qui il fondamento segreto della creazione e della ricreazione di cui si appropria la cadence. Così, quest’ultima s’inquadra nel ritmo proprio delle origini, novità e ripetizione intesa come nuova creazione. Fra memoria e abbandono l’obliquità delle ossa si esplicita nella loro dimensione informe. Ed è questo l’intento del creatore, quello del non chiarire, né dare forme definite o definibili. In questo modo, il titolo della raccolta delle citazioni rende l’ambivalenza e la spinta creatrice che sta nell’indefinibile, nel desiderio inafferrabile; stimola e rilancia, pur passando attraverso il toccare, il palpabile.

Le cadences lasciano le tracce di un Tout-Monde la cui complessità – naturale ed antropica – trova nell’opacità, nell’obliquità di un’immagine uno spazio mobile, in cui il riplasmare non è sollecitato solo dall’indagine, dalla ricerca di testimonianze perdute, ma va al di là dei meccanismi della narrazione. L’informe è reso attivo dal desiderio, dalla spinta narrativa a cercare nel vuoto e non più nel pieno, elemento ribadito anche nel testo del 2007.

La cadence ritorna nell’ultimo romanzo di Chamoiseau. L’apparato paratestuale si presenta sotto forma di eco, nel senso di cri creolo, rispetto a L'Esclave vieil homme et le molosse. Vengono ripresi sia l’interrogativo iniziale che la struttura. «Le monde a-t-il une intention?» (CHAMOISEAU 2007: 9) introduce la finalità problematizzando, nei due casi, le logiche colonialistiche prima attraverso lo schiavo che si libera inseguito dal molosso e poi incastonando questa storia all’interno di un’altra storia più ampia alle prese con la memoria e l’oblio. La ripetizione stabilisce corrispondenze strutturali fra i due romanzi, garanzia di una totalità articolata in divenire secondo criteri di materialità e di temporalità. Nel romanzo del 1997, la scansione delle cadences punta al recupero di elementi organici – originariamente tali o resi tali dalla storia come residui delle sue tracce sedimentate nei secoli. Nel romanzo del 2007, la cadence costruisce un quadro temporale, privilegiandone la circolarità in nome dell’inizio, del ricominciare senza passare attraverso la fine dichiarata. Essa si pone così come una forma aperta, in cui l’andirivieni del tempo impedisce la staticità e favorisce punti di fuga all’interno della ciclicità. La storia non finisce mai. Ai referenti fissi corrispondono variazioni tali da aprire nuove possibilità narrative. Le cadences del 2007 insistono sul prefisso IN-EN. Nella prima, Incommencements accentua le potenzialità dell’inizio, assolutizzandolo come incarnazione di un inizio. In En-bon-matin (2), En-midi (3), En-nuit (6), Chamoiseau imprime una flessione creola al suo francese per insistere sulla forma interna delle parti della giornata quasi a dare loro uno spessore spaziale, a ritagliare nella ripetitività e nella continuità della giornata antillana uno spazio per il tempo. Singolare è, poi, l’effetto della sesta cadence, in quanto la sonorità crea il gioco En-nuit (nella notte) – «ennui» (noia) –; ci si avvicina alla fine come perdita d’interesse, come inevitabilità cui segue Recommencements, il nuovo avvio legato alla molteplicità del leggere la stessa storia, quella che si ripete da secoli.

La cadence 4 è normativa sul piano ortografico e lessicale, ma sottolinea la centralità del trait d’union. Se, infatti, in Après-midi esso costituisce un legame normale, nelle cadence 2-3-5-6 consolida il legame spaziale all’interno di questi elementi temporali con risultati che vanno al di là delle flessioni creole, perché sono indice di legame fra le parti del discorso a conferma di un desiderio di totalità anche laddove non sia materialmente e normalmente visibile. Le cadences 1 e 7 (prive di trait d’union) inquadrano gli estremi e, al tempo stesso, con il plurale assicurano il desiderio di totalità nella pluralità dei punti di vista.

Le cadences di Un dimanche au cachot tendono a far proprio il quadro paratestuale assorbendolo, agglutinandolo alla narrazione. Se nell'Esclave vieil homme et le molosse i diversi orientamenti scritturali hanno una loro autonomia non solo formale in quanto la loro disposizione frammentaria a sipario è visibilmente «tracciata», nel suo ultimo romanzo Chamoiseau incastona i richiami, i cris creoli, nel tessuto stesso della narrazione. Restano apparentemente all’esterno solo i titoli delle sequenze dalle quali non si evince la distinzione fra paratesto e sviluppo narrativo. L’unico elemento che fa da collante è la domenica, elemento non sistematizzante, anomalo, irregolare pur facendo parte di una sequenza regolarmente codificata sul piano temporale. La domenica attenua il ritmo settimanale; è spazio di libertà, di creatività scritturale per l’autore che la identifica con la poetica del cristallo:

Je suis explosé d’écriture. En mots et en images. Chaque mot: un univers à inventer. Chaque image: un pays à trouver sans territoire et sans frontières. Cette diffraction de mon être essaie de fréquenter l’autre épaisseur du monde: une terre-matrie possible dessous l’imaginaire marchand. Il faut m’imaginer alors en zombi multiforme dont on ne voit qu’une silhouette immobile, anime du bleu froid d’un écran. (CHAMOISEAU 2007: 23)

Lo spazio a cadence trova, perciò, i suoi cris sulla pagina, nell’elemento vegetale, nei richiami minerali, nelle presenze animali ed è attraverso queste declinazioni che la temporalità stessa sfugge ai suoi parametri tradizionali, assicurando l’ici-maintenant, proprio dell’ontologia creola e delle tendenze attuali dell’extrême contemporain, in cui la complessità degli intrecci identitari mette in discussione le radici.

2.1. Cri da pagina

La tipologia del «cri da pagina» tiene conto dei richiami d’inchiostro presenti nella stessa opera e in opere diverse dello stesso scrittore. Forte è il legame saggistico con altri autori del Tout-Monde, continuamente sollecitati, che appare in una nuova veste proprio nel romanzo del cachot. Faulkner, Glissant, Saint-John Perse sono evocati anche attraverso le loro pratiche di scrittura (come l’idea del ceppo, utilizzata da Faulkner in Tandis que j’agonise) grazie alla figura del lettore che, per la prima volta, appare come postura specifica e combattiva all’interno della complessa identità di Chamoiseau. È definito come parassita che vive nel narratore, come l’educatore e lo scrittore; s’intende di tutto o perché lo ha letto o perché lo ha sentito. Accompagna sempre il narratore ed intrattiene con lui una relazione particolare, poiché nei momenti in cui lo scrivere viene meno, il lettore con aria beffarda ricorda una lista di autori. Se il lettore divaga, il narratore immagina, diventando scrittore. «Quand je baille à l’Écrire, il se ramène en ricanant avec des peuples d’auteurs et des cabrouets de livres. Avec lui, l’Écrire est la solitude la plus nombreuse qui soit» (CHAMOISEAU 2007: 133)

Non mancano i richiami metascritturali come l’inizio e la fine. In quest’ottica, la cadence, struttura della ripetizione e del rilancio, fa proprie le sonorità e le tradizioni caraibiche all’interno della ciclicità temporale, sottolineata dalla presenza dirompente della domenica e del suo ruolo essenziale nell’atto di creazione. Il riferimento biblico viaggia sulla doppia accezione, collettiva ed individuale. Accanto alla riflessione obliqua sulla tratta degli schiavi e sulle sua tracce, che giustificano il ricorso alla figura del testimone esterno per indagare ed annotare, come nei testi precedenti di Chamoiseau, appare lo sguardo d’autore alimentato dalla sua singolarità e pronto a farsi parola.

La prima cadence di Un dimanche au cachot si apre con un interrogativo, elemento destabilizzante necessario per avviare un romanzo. Fra gli strumenti dell’inizio, c’è il risveglio con le coordinate spazio-temporali e identitarie dell’incertezza e della natura. Il corne de lambi fa da suoneria, mentre la paille indica il letto, custode dei sogni, dei quali si sottolinea il condizionamento sulla scarsa resa della giornata. Il cielo introduce l’instabilità, dall’inquietudine degli uccelli alla loro identità, alla comparsa di «elle». Gli uccelli richiamano il cognome dello scrittore come segno di una presenza. «Elle» appare obliquamente dopo gli uccelli per metterli in relazione con l’inizio della giornata che è anche l’inizio del romanzo. Questa pluralità si riflette nella duplice possibilità di azione, propria della messa in scena di un personaggio da parte dello scrittore. Da sempre presente nelle sue pagine come Oiseau de Cham, lo scrittore suggerisce ipotesi sulle intenzioni del personaggio in via di creazione, mentre il personaggio non pensa, agisce. Dal se dire e dal penser proposti dallo scrittore si passa al souffler-offrir les yeux-bredouiller del personaggio, situazioni sfumate rispetto ai verbi iniziali che rendono la reazione del pensiero in movimento. Il dire si articola in soffiare (azione volontaria differente dell’azione riflessa della respirazione), offrire gli occhi (orientamento dell’azione, in più reso in forma implicita), mormorare (indizio delle esitazioni, della percezione di una difficoltà espressiva e visiva), sequenze che interrogano l’incertezza e l’ambiguità. La tensione fra la storia e la riflessione sulla pratica di scrittura passano al vaglio dell’acquisizione di un’idea di sé stessi. I riferimenti all’attività dell’autore non mancano, non solo in relazione alla fama di Chamoiseau, ma anche alla propria attività in corso d’opera, tanto che la ripetizione crea la cadenza ritmica con le diverse prime pagine, da quella del racconto del personaggio dell’Oubliée a quella del romanzo in questione, a quella del romanzo che Chamoiseau sta predisponendo. Il ricorso al dimostrativo «ce» sottolinea la compresenza dei piani narrativi.

Un altro richiamo è costituito dalla frase «dimanche c’est la joie» (CHAMOISEAU 2007: 42, 46, 47) che ritorna più volte con variazioni d’interpunzione dall’effetto sonoro. La domenica rallenta il ritmo; questo ritornello irrompe nella ciclicità e nell’inevitabilità per far venir meno la staticità. Nella precarietà emerge l’immaginazione come risorsa indispensabile per colui che racconta perché colma il vuoto delle testimonianze.

Un altro elemento a cadenza è dato dai riferimenti alle opere precedenti di Chamoiseau, in particolare ai personaggi che s’intrecciano con quelli in vista nell’ultimo romanzo. Non a caso, fra le forme d’impossibilità cui far fronte con l’immaginazione, c’è il vieil esclave del 1997, al quale si attribuisce la paternità del figlio dell’Oubliée.

C’était un vieux nègre. Un vieil esclave dont j’ai déjà parlé dans un roman d’avant. Une survivance presque invisible dans cette Habitation, et qui fascinait l’Oubliée. (CHAMOISEAU 2007: 54)

I cris della pagina riorientano le prospettive del Tout-Monde, potenziando la relazione fra scrittura e metascrittura. La pluralità gestionale dell’ultima frase possibile del romanzo ruota di fatto sulla condizione d’impossibilità; le soluzioni opposte proposte dallo scrittore e dal lettore confermano la centralità del desiderio come unico orientamento per il caos. Il ritorno nel cachot dell’Oubliée nonostante la fine dello schiavismo sconcerta il lettore, ma con la sua illogicità apre infinite possibilità allo scrittore (al di là dei meccanismi dell’incertezza già sperimentati da altri e ricordati come modello dallo stesso lettore). Per questo, di fronte alla proposta di ricorrere al monologo interiore, lo scrittore si chiede come esprimere la propria libertà senza monologo o addirittura come non esprimerla.

2.2. Cri vegetale

Un’altra tipologia di cri è legata alle piante che, già nel romanzo del 1997, svolgevano una funzione spaziale. Dai crocs ai fruits-à-pain verts domina la specificità caraibica che contribuisce a ricostruire l’ambientazione narrativa, invertendo anche le disposizioni geometriche. L’idea della sospensione è frequente, come il ripiegare verso il basso piuttosto che slanciare la vegetazione verso l’alto, come nel caso dei «fruits-à-pain verts qui tombent hors raison, en défonçant le sol et sans s’ouvrir eux-mêmes» (CHAMOISEAU 2005: 27). I vegetali sono una presenza elastica, accompagnata sempre da antropomorfismi, quali le «branches agenouillées» (CHAMOISEAU 2005: 59), le «gifles, mains végétales» (CHAMOISEAU 2005: p. 62), le «feuilles patientes» (CHAMOISEAU 2005: 63). L’attaccamento alle radici ha uno sviluppo metaforico fondamentale. Tuttavia, è da rilevare l’inversione applicata all’immagine tradizionale:

J’enviais ces racines qui pénétraient le sol, loin. Elles se plongeaient sous terre pour mieux atteindre le ciel. Je m’évertuais à me vider l’esprit pour mieux les ressembler. Avancer. Avancer. (CHAMOISEAU 2005: 121)

Nella prima cadence di Un dimanche au cachot, la presenza vegetale è funzionale alla costituzione del quadro spaziale. Dalle mangrovie mentali in cui si avviluppano le idee romanzesche dell’autore si passa alla genericità spaziale degli arbusti e degli alberi che costruiscono le vecchie abitazioni, rendendo il declino e la fragilità del passato. I manguiers secolari custodiscono le coordinate del presunto tesoro. Sono nove e allineati in maniera tale che una loro combinazione dovrebbe costituire la chiave di accesso. Appassionato di esorcismo, l’abbé Morland in passato aveva cercato invano il tesoro; ora, è uno spettro che ritorna «flotter spectral sur l’herbe fine du plateau intérieur où ricanent les manguiers» (CHAMOISEAU 2007: 31). Nel mostrare a Chamoiseau queste piante, Sylvain (non a caso un nome vegetale) insiste ancora una volta sul loro ruolo antropomorfico:

Les manguiers sont de vieilles personnes. Ils épinglent l’endroit comme des gardiens qui auraient oublié en quoi consiste leur tâche. Derrière eux, s’étale un vieux ciel grisaillé où se reflète leur âme. Partout des restes de fondations me surveillent à fleur de gazon, me lorgnent parmi les fleurs. (CHAMOISEAU 2005: 32)

Dopo i manguiers è il caso di un albero di fico, «un jeune figuier maudit» (CHAMOISEAU 2007: 33), sistemato come un altro elemento di demarcazione spaziale, davanti alla volta di pietre. Preso da queste rovine, Chamoiseau si avvicina alla loro penombra e appaiono le radici sia a livello metaforico che concreto:

Mon imagination (devenue maladive à force d’aller jouer aux extremis) me précipita dans une pénombre aux formes souffrantes, diluées dans les racines qui crevaient le mortier […] devant cette Caroline qui fixait l’abominable convulsion des racines. (CHAMOISEAU 2007: 34-35)

Un’ altra erba presente è l’herbe-guinée destinata agli animali; la goyave, invece, crea legami con il suo odore (CHAMOISEAU 2007: 143). La tisana di datou unisce i personaggi del vieil esclave e dell’Oubliée; questa pianta della roccia accompagna la gioia muliebre:

[…] un muret de moellons dont le mortier brûlant abritait une plante – de ces exaspérations végétales qui trouvent à vivre au cœur des roches. Le vieil esclave lui avait désigné la petite plante farouche. Sans un mot […] Mais, depuis, voir cette plante fut pour elle un ravissement secret. (CHAMOISEAU 2007: 55)

Il datou è fonte di felicità. L’Oubliée ricorda come la madre e il padre dell’attuale padrone arrotolassero questi fleurs-trompettes seccati al sole per fumarli insieme o berli come infuso. L’effetto benefico si traduceva nel non temere più il buio come prima. Mentre L’Oubliée si lasciava trasportare, la madre guardava i manguiers senza vederli. Il vecchio schiavo è definito anche come «palmier sans palmes» (CHAMOISEAU 2007: 56); questo datou, «petite plante de roche» (CHAMOISEAU 2007: 56) gli sottrae la memoria dell’Oubliée. Se i manguiers mostrano che niente si è mosso, la coscienza di uno scarto, di un vuoto, di una distorsione si insinua nella figura del vecchio schiavo, capace con il suo gesto di rivolta, di imprimere un corso diverso alla storia dello schiavismo, facendo proprio lo spirito della domenica.
Il datou è sempre presente come elemento che fa scattare l’immaginazione. Chamoiseau insiste sul verbo imaginer come produttore e proiettore d’immagini con l’aiuto dei sensi.
I vegetali producono anche suoni mediante il meccanismo dell’ascolto, dando consistenza (elastica) allo spazio, come nel caso dell’Habitation che rende le cadenze già sperimentate:

Elle écouta le son lointain de la cloche d’église, le vent dans les manguiers, la houle immense des cannes. Et puis, à l’orée des Grands-bois, un mouvement de grand fauve. (CHAMOISEAU 2007: 60)

L’attenzione alle piante è costante, da quelle che leniscono il dolore a quelle che sottendono un’origine comune, come le acacie. Oltre ad invadere e a stimolare gli altri elementi naturali (pietre, uomini, animali), le piante sviluppano un paesaggio unico in cui costituiscono la bussola per la fuga, per il marronnage. Inoltre, se il canto, il racconto, la danza trasmettono emozioni, gli alberi e gli animali contribuiscono a dare una consistenza tattile. Le piante fabbricano lo spazio con la provvisorietà, colmando i vuoti. Dal romanzo del 1997 a quello del 2007, tendono a far proprio il cosmopolitismo del Tiers paysage di Gilles Clément, poiché i vegetali dalla denominazione prettamente caraibica affievoliscono la loro specificità a vantaggio di differenze più funzionali e simboliche a conferma di una creolizzazione del verde.

2.3. Cri minerale

Nell'Esclave vieil homme et le molosse il minerale non appare solo attraverso la Pierre, ma anche attraverso la figura del protagonista, solitario e silenzioso, roccioso:

C’était un minéral de patiences immobiles. Un inépuisable bambou […] rugueux telle une terre du Sud ou comme l’écorce d’un arbre qui a passé mille ans. (CHAMOISEAU 2005: 17)

Nella prima cadence di Un dimanche au cachot, il cachot è presentato come la prigione della bambina capace, tuttavia, di rendere serena la protagonista.

Presenza totalizzante, la pietra conserva, tuttavia, una memoria vegetale, perciò, dinamica, capace di creare non lo spazio, ma la «sensation d’espace» (CHAMOISEAU 2007: 210).

2.4. Cri animale

Il molosso che ritorna costituisce la prosecuzione cadenzata del romanzo del 1997, per quanto ci sia spazio anche per il dragon e la bête longue. Quest’ultima mette alla prova il limite dell’oscurità nella percezione di uno spazio illimitato attraverso il tatto. Per il molosso, l’Habitation riflette il suo intimo grazie alle sollecitazioni visive: «Il regardait l’Habitation comme au-dedans de lui-même». (CHAMOISEAU 2007: 61)

3. Dal Tout-Monde al Désir-Monde

Nel pamphlet Quand les murs tombent. L’identité nationale hors-la-loi?, Chamoiseau ribadisce insieme a Édouard Glissant il carattere complesso e fragile della nozione d’identità, sia sul piano individuale che collettivo. Lungi dall’essere statico, questo principio si può sviluppare sia come regressione dovuta alla perdita dell’io, sia come patologia in quanto esasperazione di un sentimento collettivo di superiorità. L’identità implica l’immanenza dell’essere-nel-mondo, il rischio della relazionalità con l’altro e con il suo mondo. Di fronte alla nazione come cementificazione dei valori della comunità per difenderli dalle aggressioni esterne, attingendo ad una dimensione universale, il Tout-Monde, in quanto identité-relation, si svincola dal multiculturalismo per proporre una civiltà in grado di pensarsi come «altro» e con «l’altro», superando le verticalità genealogiche. In questo modo, le ombre e le meraviglie fanno vivere la molteplicità degli immaginari nella loro specificità, al di là delle appartenenze territoriali: «L’identité relationnelle ouvre à une diversité qui est un feu d’artifice, une ovation des imaginaires» (CHAMOISEAU-GLISSANT 2007: 15). In questo, il dialogo fra le varie figure che compongono l’identità complessa di Chamoiseau coglie il segreto del rendere possibile l’impossibile, dell’assicurare letterarietà allo schiavismo. Il disumano rende preziosi il riflesso altro, l’opacità degli aspetti più semplici che esistono. La magia dell’assenza crea il desiderio. Se il narratore può solo paragonare lo scrivere «à une chose vivante» (CHAMOISEAU 2007: 318), per lo scrittore, l’oggetto della letteratura è il desiderio del mondo, quell’atteggiamento che, di fronte ai modelli e ai meccanismi passivi della patrimonializzazione, fa leva sulla diversità, sull’invenzione – anche modificando le forme biologiche – per cogliere situazioni attive in divenire:

Il dit que l’objet de la littérature, le plus haut, est de désirer le monde, c’est-à-dire le créer, car la totalité agissante du monde le rend sensible au pur vouloir, à la grande force d’une belle intensité. Et parce que chaque fois que l’on crée c’est qu’on a désiré, et que désirer détient la force d’un dieu… (CHAMOISEAU 2007: 318)

Così, se lo spazio può esistere o meno in relazione alle presenze vegetali, animali, minerali, culturali, grazie a linee a variabilità geometrica, il cachot dell’ultimo romanzo di Chamoiseau potrebbe non essere un cachot.

Bibliografia

P. BRUCKNER, La Tyrannie de la pénitence, Paris, Grasset, 2006.
P. CHAMOISEAU, L’Esclave vieil homme et le molosse, Paris, Gallimard, 1997, Paris, Gallimard, «Folio», 2005.
P. CHAMOISEAU, Un dimanche au cachot, Paris, Gallimard, 2007.
P. CHAMOISEAU, Texaco, Paris, Gallimard, 1992.
P. CHAMOISEAU, É. GLISSANT, Quand les murs tombent. L’identité nationale hors-la-loi?, Paris, Éditions Galaade, 2007.
G. CLÉMENT, Manifeste du Tiers paysage, Paris, Éditions Sujet/Objet, 2004.
R. CONFIANT, Brin d’amour, Paris, Mercure de France, 2001.
R. CONFIANT, Case à Chine, Paris, Mercure de France, 2007.
É. GLISSANT, Mémoires des esclavages, Paris, Gallimard, 2007.
C. de PORTZAMPARC, Ph. SOLLERS, Voir écrire, Paris, Éditions Calmann-Levy, 2003, Paris, Gallimard, «Folio», 2005.


 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482