Publifarum n° 8 - AFFRONTER LA CRISE : OUTILS ET STRATEGIES

Pierre Boulez e il Salto Mortale

Nicola FERRARI


Salto Mortale
successione di movimenti che portano allo stacco da terra del corpo, che, dopo una traiettoria in aria, compiuto un giro completo su stesso, ricade sul terreno.

se quindi Takemitsu viene accusato di avere disertato il campo di battaglia sul quale marciava il modernismo musicale bisogna ammettere che molti dei suoi colleghi avanguardisti si sono ormai ugualmente allontanati dalle barricate, e non pochi di loro lo hanno fatto più o meno negli stessi anni.
Peter Burt, 20031

quello che lui voleva fare era sviluppare un nuovo orecchio; […] non sapeva se avrebbe trovato qualcosa e che cosa avrebbe trovato, ma sicuramente avrebbe smesso di scrivere se non avesse trovato nulla. Ero preoccupata per lui: perciò vedevo quanto profonda era la sua sofferenza […] ma non sapevo se sarebbe riuscito a portare a compimento quel travaglio.
Nora Pärt, 20042

Capovolgere la propria posizione nello spazio per ristabilirne la dirittura, consolidarne la solidità, riacquistarne l’originaria direzione, vincere momentaneamente la necessità del peso per poterla riaffermare in rinnovata certezza: con un’intuizione letteraria di squisita profondità, nel suo ultimo, grande romanzo, Oe Kenzaburo, ha immaginato Il salto mortale3 come possente, icastica figura della crisi e del suo superamento. La crisi narrata da Oe si colloca all’interno dell’inquieta spiritualità contemporanea, nella dimensione intimamente contraddittoria di una ricerca ideologico-religiosa, privata della forza legittimante delle grandi narrazioni del passato e sospesa tra intime esigenze di autenticità spirituale e ingenui esiti di grottesca banalizzazione, tra fanatismi e incredulità, antiche tradizioni e nuovi sincretismi, accorti opportunismi imprenditoriali e intime nostalgie di Rivelazione. Guida e Maestro, per scongiurare il rischio di un attacco terroristico minacciato dagli elementi più estremisti dell’apocalittica setta religiosa da loro stessi fondata e condotta, si presentano in televisione abiurando il loro credo, autodenunciando l’arbitrarietà delle pratiche, la falsità dei precetti, e la truffaldina vanità di ogni promessa escatologia - prima fase del salto mortale: rinuncia al terreno e ribaltamento completo della prospettiva iniziale. Nella perdita del suolo, nell’attimo eterno del volo senza ali - per Guida e Maestro si consumano anni bui, nell’inferno dell’attacco, del distacco dagli antichi fedeli. Ma il dolore, la fatica dello slancio, del corpo che si rinchiude e distende su se stesso rimane solo preparazione per la fase finale del salto, per ricostruire dalle rovine l’antico credo, riaggregare sotto la loro mano la comunità religiosa rimasta in attesa: Maestro dovrà quindi rinnegare la propria apostasia, incendiarne la tenebra per mostrare la luce – il salto compiuto, i piedi nuovamente saldi sul terreno a sorreggere il peso ritrovato. Dall’abiura (tradimento - negazione) all’affermazione (rafforzamento – negazione della negazione), la dinamica di questo movimento - faticosamente sofferto nella preparazione, rigorosamente preciso nell’istante esecutivo - cerca di consolidare la stabilità di una posizione problematica attraverso l’acrobatico esercizio di una rivoluzione prospettica reiterata. L’immagine del salto mortale compiuto nello spazio di una visione trascendente le cui meteore, confusamente percepite, si disgregano fatalmente al contatto con l’immanenza di un linguaggio che cerchi di tradurla e afferrarla, riesce a definire - nel suo impasto fascinoso di partecipazione e distanza, nel suo raggiunto effetto di straniante empatia - un’allegoria sfuggente e polisemica della crisi contemporanea (e del suo possibile attraversamento - o annullamento) nei codici di comprensione e rappresentazione della Realtà, non solo esistenziali e sociali quanto soprattutto artisticamente creativi. Se l’arte del Novecento (primo e secondo) è stata insieme radicale esperienza e problematica messinscena di una – di mille infinitamente simili e differenti - crisi, nella negata possibilità di un passo progressivo e lineare (la chiusura di qualsiasi direzione, tanto in avanti che all’indietro), il salto mortale si rende necessario – un suolo può ritrovarsi solo dopo l’abbandono, il librarsi che lo distanzi, lo ribalti, lo riacquisti infine attraverso il rischio di una caduta, definitiva e irreversibile. Sperimentando il vertiginoso gesto che nega e successivamente riafferma la propria posizione, in questo paradossale moto senza movimento, il soggetto gioca infatti la propria vita – la sua legittimazione a percepire (e pensare, dire) la crisi. Ma la riuscita del salto, attraverso il sacrificio di ogni stabilità, immagina di poter superare, nel proprio movimento aereo, la discontinuità del percorso senza, tuttavia, mutare direzione. Ritrovando così un equilibrio nello stesso luogo percepito, prima, come incerto, inerte, estraneo.

La critica ai modelli stilistici precedenti intesa come discontinuità incommensurabile dalla tradizione – e non suo naturale, necessario e integrabile sviluppo storico - aveva generato una contraddittoria ambiguità per molti paradigmi creativi delle avanguardie - e soprattutto neoavanguardie - artistiche novecentesche, incerti tra uno statuto di espressione o di risoluzione della crisi, che li aveva generati. La loro interpretazione in senso fondativo – definitorio di nuovi codici espressivi e rappresentativi – si scontrava con la generale constatazione di un’insoddisfacente (quando non del tutto mancata) efficacia comunicativa, dimostrandosi più che cura alla malattia del corpo artistico (come sostenevano gli artefici), sua primaria causa di infezione (come sospettava il pubblico). L’alternativa di considerare i nuovi codici in senso puramente negativo (parassitariamente distruttivi dei precedenti) rimandava al problema di un loro superamento - necessario ma difficilmente immaginabile – pena il dissolversi del loro senso, se privati della costitutiva natura transitoria. Ancora, la risposta critica alla presunta crisi definiva assai più, in realtà, la crisi stessa, generando uno stato di ‘crisi permanente’, nella quale l’autenticità delle ragioni iniziali sembravano a poco a poco mutarsi in una sclerotizzata autoparodia.
Tra crisi e crisi della crisi, nell’esigenza di reincantare i codici, senza smarrirne il valore palingenetico – le problematiche estetiche risuonano, non certo casualmente, di quelle mistico-religiose narrate da Oe4 -, l’avventura intellettuale di uno tra i più sensibili interpreti di questo momento della creazione contemporanea, Pierre Boulez – animatore culturale, compositore, direttore d’orchestra, saggista raffinato e onnisciente: ideale sineddoche della vicenda storica e ideologica della musica (‘colta’) nell’Europa (Francia) del (secondo) Novecento – si può raccontare, sul palinsesto del romanzo di Maestro e Guida5, come salto mortale.

1. Schönberg è morto

C’è una frase, bellissima e rivelativa, che Boulez ha scritto per definire le due differenti tipologie di relazione creativa con la tradizione storica: ‘la modernité c’est l’amnésie, et le classicisme, la mémoire’6. La cesura delle modernità7 si fonderebbe su un atto di volontaria censura, di perseguito oblio delle forme precedenti. Perchè, percepita la crisi dei mezzi di espressione giunti fino ad essa, si impegna nella loro radicale cancellazione, nell’erosione stessa di ogni loro traccia. Proprio di questo, il giovane Boulez, in un articolo dal titolo terroristicamente provocatorio 8, accusa con burbanzosa irruenza proprio il padre maestro di tutte le avanguardie musicali: l’innovatore Schönberg nell’elaborare la sua una tecnica di ‘composizione con i dodici suoni’ risultava tuttavia reo di non avere dimenticato abbastanza. Perchè la sua invenzione, completamentamente immemore del secolare principio di organizzazione tonale9 non però delle « forme preclassiche o classiche che reggono la maggior parte delle sue architetture», avrebbe prodotto « uno iato inammissibile tra infrastrutture legate al fenomeno tonale e un linguaggio di cui si scorgono ancora sommariamente le leggi di organizzazione». Nell’impasto vizioso di memoria e oblio (perché Schönberg, classicamente leggeva una continuità – integrabile – tra mondi per la sensibilità di Boulez postulati come ‘incompatibili’) «queste architetture’ avrebbero «annullato le possibilità di organizzazione incluse in questo nuovo linguaggio». Unilateralmente applicato alle altezze, il nuovo sistema strutturale risulta perciò contraddittorio rispetto a un discorso ritmico e a «un piano sonoro propriamente detto» (cioè le intensità e gli attacchi) tradizionalmente omogenei alla disintegrata (dimenticata) sintassi tonale. Riconosciuta pienamente fondata dal tribunale neoavanguardista l’imputazione a Boulez di un’opera intimamente incoerente, contraddittoria fino al non-senso, la sentenza non può conseguentemente che risultare capitale – letta e contestualmente eseguita «senza alcuna volontà di stupido scandalo, ma anche senza ipocrisia pudica e senza inutile melanconia: SCHÖNBERG è MORTO».

Leggendo questa paradossale denuncia di reazionarismo per il compositore che, nella coscienza comune del pubblico colto dell’epoca, rappresentava il punto più problematicaticamente avanzato - e drammaticamente irreversibile - della ricerca musicale contemporanea, in sistema con la provocatorietà (simmetricamente inversa) della rivendicazione progressista proposta da Schönberg per l’autore simbolo di una presunta estetica conservatrice, Johannes Brahms10, si avverte chiaramente l’opposizione tra una strategia della memoria - tanto necessaria da legittimare l’adozione di un avo lontano privo di alcuna somiglianza somatica (rivendicandone però il profondo, segreto, legame di sangue) -, e una politica dell’oblio - così radicale da proporsi di ammazzare un padre riconosciuto e premuroso (assolutamente, indubitabilmente legittimo). Questa perseguita vacanza mnemonica - nella quale si consuma il passaggio da un rinnovamento, sviluppo proiettato sul passato conosciuto, a un’innovazione, rivoluzione palingenetica tesa verso un futuro ignoto – spalanca però le porte alla più dolorosa crisi che la storia della musica occidentale abbia mai attraversato.

Per Schönberg infatti la denuncia dell’esaurimento della tonalità viene contestualizzata, senza tragicità, all’interno di una storia caratterizzata dal continuo, necessario, trapassare di sistemi linguistici (una storia naturale delle generazioni nel più o meno marcato avvicendamento degli stili). Differentemente, la posizione di Boulez definisce un paradigma epistemologico incommensurabile, che attraverso la violenza (totalizzante e coerente) della sua negazione, insieme agli strumenti espressivi del passato (tutti, solidalmente) si trova a dover rifiutare ogni consolidato codice estetico e fruitivo11. Da lì non ci si può più arrestare: se le architetture formali classiche, nel loro giuoco di spinte, pesi e contrappesi modellati sull’articolazione tensiva e distensiva della sintassi armonica, risultano incapaci di rappresentarsi nella struttura non polarizzata dall’ordinamento seriale, perché, esclusa ogni legittimazione di tipo storicista, dovrebbe modellare l’organizzazione complessiva dei parametri proprio un sistema fondato sulle altezze (in più arbitrariamente limitato al sistema intervallare temperato della tradizione occidentale)? Perché la musica nuova deve essere legata a un ascolto tradizionale, perché, in definitiva, all’ascolto stesso? - il senso dell’accusa a Schönberg si può quindi facilmente rivoltare contro il suo veemente enunciatore. Quando Boulez ne acquista coscienza, è la crisi. Il passato implicherebbe fallimento (l’oblio costitutivo costretto a contraddirsi nella coazione al ricordo), il futuro però conduce alla catastrofe, all’afasia12. Infatti, nel consumato - e pressoché completo - scollamento tra pubblico e creazione artistica dagli anni Cinquanta in poi, non si poteva leggere solo le lenta pigrizia dei Filistei, inerti alla necessità di rinnovamento dei linguaggi (così avrebbero voluto condurre la loro marcia i mai pacificati, Davidsbündlers), ma un’intrinseca indeterminabilità delle relazioni tra progetto intellettuale e il suo esito sensibile: l’occhio e l’orecchio avevano d’un tratto perso la loro solida, secolare, vicarianza. Ma che l’istanza poetica (l’invenzione delle strutture) non potesse più proiettarsi comprensibilmente sul proprio prodotto estesico (l’ascolto) rappresentava un fenomeno che obbligava ad ammettere di avere intrapreso una direzione sbagliata o, salva la coerenza, elidere dalla musica una dimensione estetica (acustica e sensoriale) anche solo potenziale. La percezione della crisi viene innescata, primariamente, dalla crisi di una percezione, che le strategie compositive non riescono più a predeterminare, svincolando anarchicamente il momento ricettivo da quello creativo.

2. Boulez è morto?

Paradossalmente, solo la disciplina della scrittura, strumento principe della memoria, avrebbe permesso, attraverso l’oggettivata esibizione dei suoi procedimenti, l’effettiva cancellazione di ogni residuo mmestico. La rivoluzione neoavanguardistica degli anni Cinquanta si fondava sul dogma dell’assimilazione senza residui della percezione all’intellezione: che, cioè, la scrittura musicale fosse capace di un controllo globale dell’evento sonoro, di una perfetta sintesi spaziale del decorso temporale (che rivelasse nella pura presenzialità dell’ascolto, ogni presupposto passato, ogni futura implicazione). Negli anni ’80, a conclusione di un periodo di sofferto silenzio, la posizione di Boulez sembra ribaltarsi: la scrittura musicale da modello totalizzante di pre-visione dell’ascolto si riduce allo sguardo tentennante del sordo13. Cita Berg che, dopo avere condotto un’analisi rigorosamente numerologica della combinatoria seriale del suo Kammerkonzert, denunciava l’insoddisfazione per un esame di presupposti compositivi (‘fenomeni esteriori’), che non riescono a rendere ragione dei ‘processi musicali interni’, quindi del senso (!) del pezzo14. Afferma che la qualità del discorso musicale sfugge alla pura misurazione delle sue relazioni quantitative. Dalla tirannia dell’ordine della musica attraverso il numero passa alla nostalgia per « l’adéquation totale et inéluctable de la qualité du résultat avec les quantités des objets mis en jeu ». Ma soprattutto, riconoscendo la natura utopica del progetto di quel serialismo integrale nel cui nome era stata decretata la morte di Schönberg, consuma il suicidio di quella scrittura, che, proprio nel sogno di non rappresentare più il fenomeno quanto piuttosto di crearlo in sé stessa, proprio nel porsi a unico motore (non più semplice intermediario) dell’azione, precipita nel risultato antinomico di una non-scrittura – esito caotico della massima volontà d’ordine proposta dalla storia occidentale. L’orecchio (il mondo della percezione), che avrebbe seguito - avrebbe dovuto seguire - lo spirito, oppone una resistenza cieca contro la quale si infrangono tutte le sistematiche combinazioni di piani.

Iniziato il salto mortale, Boulez sembra far proprie le critiche generalmente ascritte ai compositori della sua generazione: « on accuse les artistes des années 1950 d’avoir tué la vitalité de la création par une dogmatisme excessif »15, seppure in un accorto tentativo di minimizzare attraverso un appello alla contingenza storica (la necessità di mettere in ordine elementi disparati, la difficoltà di « trovare un linguaggio », l’inevitabilità in una fase formativa di certe forzature e rigidezze « dans les principes et dans le maniement »), attraverso un principio di corresponsabilità diffusa (nell’adozione dei nuovi procedimenti dichiarata universale 16) e, infine, attraverso l’invocazione implicita di un forte senso etico nella pratica seriale qualificata come ‘disciplina’. Se la scelta di una soluzione globale per risolvere, integralmente, i problemi linguistici ed espressivi, aveva cercato di opporre la generalità del dogma alla parzialità di risposte locali (cioè di stile più che di statuto, di elaborazione più che di fondazione), con il loro rischio di incoerenza e proliferazione contraddittoria e non sistematica, la bruciante consapevolezza acquisita che ‘trop de sens ne fait plus des sens’ conduceva a un passo dall’abiura: «entre l’oeil et l’oreille, entre la mémoire et la perception, entre le pouvoir expressif et le moyen technique, le dogmatisme absolu est irrémédiablement voué à l’échec, car il n’arrive pas à prendre en charge les multiples aspects du problème: la rigidité de l’attitude mentale entraîne le dépérissement de l’invention»17

3. Boulez è vivo?

Potrebbe apparire rinuncia, abbandono del campo, onesto riconoscimento di un fallimento (generazionale, epocale), ma il passo indietro si rivela, in realtà, fase prima del salto mortale, a conclusione del quale, il dogma18 si rivelerà dissolto solo nel senso che «il doit tout irriguer au point de n’être plus isolable»19 - non tanto oggetto dell’atteso «renoncement» quindi, quanto di un sorprendente «élargissement». Boulez cerca di dimostare come le idee degli anni Cinquanta abbiano dovuto perdere la loro angolosa, aggressiva rigidità per permeare della loro sostanza tutti gli elementi del linguaggio. Pur riconoscendo il ricorso a procedimenti tradizionali, che, in opere come il Trio di Ligeti, le Sequenze di Berio o il proprio Dialogue de l’ombre double, rompe programmaticamente l’imperativo amnesico20, Boulez non ammette, per questo, l’abbandono delle precedenti posizioni, aggressivamente, integralmente votate alla ricerca e alla scoperta, il ripiego al tiepido conforto d’una situazione finalmente ristoricizzabile (classicizzabile, classificabile). «Eh bien, non!»: le idee più tradizionali sarebbero infatti tradotte in un linguaggio arricchito di tutti i rapporti più recenti, i vecchi procedimenti non ripresi 'tels quels’, ma integrati e ripensati in un contesto nuovo che doni loro «un élan et une vigueur insoupçonnée»21. Lungi dal segnare un’abdicazione, il disperato (e sublime) salto mortale, nel tentativo di superare la crisi di una progressista ideologia del nuovo, si propone di sacrificarne la parte più debole (il precetto, l’intrasigenza formulare, il dogma, «chose primaire, relativement facile à atteindre»22) attraverso la promessa di una sua costante messa in discussione interpretativa, attraverso una invenzione creativa che sperimenti l’astrazione del programma nella concreta verifica del fare compositivo23. Rendendolo meno urticante, si può salvare il principio fondativo: la necessità di un ferreo controllo ‘visivo’ – razionale, costruttivo - sull’immaginazione sonora, altrimenti risucchiata nel vortice del già-ascoltato, dei – demonizzati – «clichés auxquels elle est alors tentée de s’abandoner» 24. Si osservi come, in questo passaggio dall’integralismo all’integrazione - nonostante tutte le concessioni, la flessibilità e l’apertura al dialogo manifestate – il confronto con la storicità linguistica, pur riconosciuto necessario, mantenga intatta tutta la sua problematicità, rispetto a una posizione poetica fondata sull’imperativo imprescindibile della dimenticanza. Il salto mortale di Boulez libera dall’alternativa tra il suicidio teoretico (ritirare la giovanile condanna della memorialità ‘classicista’ di Schönberg) e l’eutanasia compositiva (nella lingua della completa dimenticanza che precipitava nell’afasia, non potendo rinunciare a evocare, seppure ex negativo, il discorso tradizionale25, offrendone nell’incompromissoria negazione la forma più perversa e pervasiva di nostalgica celebrazione). Nel salto, si riassesta la costitutiva dialettica tra oblio e dimenticanza, che definisce l’atteggiamento dei compositori rispetto alla storia. Nell’articolo del 1996, nel quale si definisce la nostra dialettica Classique-Moderne, Boulez offre finalmente una tassonomia che, per chiarire esattamente dove voglia collocare se stesso, definisce quattro posizioni nella relazione tra presente e passato: di epigonismo, di regressione, di compimento, di innovazione. Rispetto ad esse, il passato può costituire un modello, essere cioè mantenuto nell’autonomia dei suoi tratti, senza possibilità di essere assorbito ma solo citato, attraverso un approccio che si voglia seriosamente concettuale («on adopte le modèle comme règle dominante, voire absolue, et les idées s’ajustent jusque dans leur conception […] à des impératifs qui n’étaient pas conçus pour cela»), artigianalmente applicativo («on prend les contours du modèle de façon superficielle et on l’imite de façon littérale - coquille vidée de sens et de nécessité»), o infine ludicamente distorsivo («on prend le modèle comme objet stylistique et on lui applique un traitement de travestissement - par distanciation […] on fait comprendre le jeu effectué à partir du modèle»). Ma si può opporre a questa vincolante ‘chiusura’, una vivificante anarchia dello sguardo all’indietro, al luogo del passato come raggiunto e insuperabile equilibrio tra componenti espressive e formali, uno spazio cangiante, ribollente di processi in continua rigenerazione e metamorfosi: la tradizione può offrirsi cioè come esempio («il y a en même temps observation, déconstruction, réévaluation et déduction. Ex écriture canonique chez Webern – reconnaissable comme méthode , méconnaissable comme perception») ma soprattutto - seguendo un paradigma generale e unificato che permetta di assimilare isotopicamente tutti gli altrove, non solo temporali ma spaziali, culturali e disciplinari – la storia può offrirsi come ‘référence’ («aller aux concepts à partir des réalités d’autrefois, de voir et d’analyser leurs mécanismes, comment et pourquoi ceux-ci fonctionnent et en déduire des conséquences en relation avec le matériau utilisé et la grammaire qu’il implique [...] toute imitation et tout maniérisme sont exclus»26). In questo acrobatico sforzo classificatorio, sembra porsi in giuoco soprattutto la possibilità ideologica di liberare l’atto di memoria da ogni senso letterale in una prospettiva astratta e concettuale, nella quale riconsiderare (senza ritrattare) la condizione amnesica della modernità: si può precisare quindi l’accusa a Schönberg e alla sua scuola, denunciandone l’invocazione ‘citazionale’ dell’antico (in nessun modo figuralizzato); si può formulare la propria linea di difesa rivendicando una profonda metaforicità (trasfigurativa) capace di desostanzializzare la riconoscibile presenza di procedimenti d’impianto tradizionale (compatibile, quindi, con il progetto globale di rinnovamento). La traccia non rappresenta quindi una via da ripercorrere, quanto l’orizzonte che accompagna un cammino teso ad andare avanti, non la cogenza di un ritorno ma l’urgenza di un proseguimento, nel quale, parafrasando il bellissimo titolo delle postume ‘lezioni americane’ di Berio, il tempo del ricordo si può coniugare solo al futuro.

La conciliazione tra imperativo all’oblio e recupero della memoria - che, sul piano teoretico potrebbe considerarsi ingegnoso meccanismo di paradosso ideologico svicolato dall’onere della prova - sul piano compositivo sperimenta la ricostruzione di un discorso, capace di offrire ai vocaboli della nuova lingua una sintassi (e quindi una semantica), il recupero di una narratività che, delle antiche morfologie non riprendesse la pavida sicurezza di modelli consolidati, ma la rinnovata urgenza a una continuità percettiva. «C’est la question de la narration telle qu’on la rencontre chez Proust, Joyce, Musil, Faulkner entre autres: […] leur logique consiste à vous mener vers quelque chose de nouveau que vous croyez pourtant reconnaître»27. Far scoprire il nuovo all’interno di un processo di riconoscimento: grazie a questa capitale tecnica dell’illusione prospettica e dell’ambiguità nelle relazioni cronologiche, la rinnovata narratività musicale - negata fino ad allora tanto dalla radicale prospettiva antistoricistica delle posizioni di poetica, che dall’effettiva fissità presenziale delle opere, strutture immobili, come nota Nattiez, fin dai loro titoli – torna alla musica per via di una doppia metaforizzazione28. Il tempo, dopo il salto mortale di Boulez, vuole tornare a costituire la dimensione privilegiata dell’ascolto (Orfeo cede un’altra volta lo scettro a Crono, nella secolare e cruentissima lotta per il predominio sul regno musicale29).

L’attenzione alla diacronicità percettiva, non sussumibile dalla sincronicità intellettiva, implica la ricerca di possibili linee di evoluzione, sviluppo, articolazione interna delle forme, per garantire al linguaggio musicale la ritrovata (seppure, si è detto, trasformata) possibilità di racconto. Répons, creato nel 1981 a Donaueschingen poi rielaborato in progressper Londra e Torino fino al 1984, rappresenta l’opera paradigmatica di questa uscita dall’impasse, l’evento consacrativo che segna la piena riuscita del salto e dimostra, nei fatti, la possibile sopravvivenza del progetto poetico neovanguardistico attraverso la creazione di un linguaggio musicale nuovo, affrancato tanto da ogni nostalgia reazionaria che da ogni sommario velleitarismo rivoluzionario. Nattiez, che dedica a quest’opera un’imprescindibile esegesi30, legge Répons
come documento dell’avvenuto superamento della «crise de la ‘communication’ musicale contemporaine». Riconosciuto il fallimento sul piano percettivo (per Nattiez che segue il lessico semiologico del suo maestro Molino: estesico) dell’equiparazione dei parametri postulata dal serialismo integrale (significativa solo sul piano poietico delle strategie compositive), Boulez ne avrebbe ripristinato la gerarchia, riconoscendo il primato tradizionale e strutturante dell’organizzazione delle altezze. Così, per cessare di essere «grammatica senza sintassi» (cioè struttura senza temporalità) l’oggetto sonoro si può affrancare dalle relazioni tonali ma non dalla possibilità da esse implicate di un’articolazione formale costruita, sul modello trasformazionale melodico-ritmico, grazie all’ «orientamento fornito da ripetizioni – ve ne sono -, periodicità, parallelismi, enucleazione attraverso l’orecchio di entità autonome distinte mediante contrasti, silenzi o indicatori di sezioni, possibilità di cogliere la continuità e i prolungamenti»31. In questa «rivoluzione da una prospettiva poietico-centrica ad una estesica» – o meglio nella riconquistata congiunzione «secondo modalità proprie ai differenti parametri, tra i due poli caratteristici di ogni forma simbolica umana» – l’esito informale, entropico (prodotto dell’amnesia poiesica definitiva) diviene (estesicamente) momento di sviluppo morfologico32, passibile cioè di entrare come elemento costituente di una dialettica temporalmente narrativa. Attraverso l’obbedienza ai «principii universali che guidano la percezione» - a una memoria della memoria, si potrebbe dire, che non impegni minimamente rispetto all’adozione di soluzioni compositive storicamente definite – il successo di Répons testimonia la riuscita definizione di un nuovo linguaggio capace di comunicare, esprimere, raccontare; in definitiva, quindi, di risolvere il problema capitale della crisi novecentesca e finalmente «ritrovare il proprio pubblico».
Una storia a lieto fine, dunque?

4. Un’altra storia

Forse, la storia si potrebbe narrare altrimenti. Torniamo un’ultima volta al romanzo-allegoria di Oe. Maestro fonda la ‘Chiesa dell’Uomo nuovo’ riuscendo ad attrarre nuovamente a sé (a convincere) le ‘Donne silenziose’ e i ‘Tecnici’, i due gruppi più estremisti interni alla setta, prima dell’abiura pubblica. Sono loro che sanno leggere la continuità dietro la tragica frattura e accettano di ricomporre i fili. Pure, non saranno loro, i fedeli, a ereditare la chiesa ma le conflittuali, eretiche ‘Giovani Lucciole’- una squadra di ragazzi delle medie e del liceo intesi a creare una comunità completamente indipendente dal mondo esterno, trasfigurando antiche tradizioni e mitologie locali. Solo Gii, il loro leader, acerbo ma assai carismatico, saprà impiegare in funzione della radicale alterità del suo progetto la luce altrimenti perduta di Maestro: la ‘Chiesa dell’Uomo nuovo’ non si sarebbe potuta reggere che sulle spalle di colui che più di ogni altro avesse mostrato segni di poter divenire un uomo nuovo esemplare.

Come a dire che, dopo il salto, ci si può trovare ancora in piedi perché, al di là delle nostre abilità, il piano è ruotato abbastanza da sostenerci nella nostra caduta.
Nattiez (con il rigore logico dei ‘Tecnici’, con l’intima adesione delle ‘Donne silenziose’) è riuscito a interpretare il successo di Boulez come ristabilimento di un paradigma narrativo per la composizione, capace di conciliare, attraverso la mediazione metaforicamente strutturante del piano delle altezze, progettualità compositiva ed efficacia percettiva. Boulez cioè sarebbe riuscito a realizzare una forma di memoria così astratta da consentire la dimenticanza di ogni specifico residuo contenutistico ad eccezione del principio fondante la concezione stessa della musica come linguaggio:

la forma nella musica
serve alla comprensione attraverso la memoria. Uniformità regolarità simmetria suddivisione ripetizione, unità relazione ritmica e armonica e persino logica, nessuno di questi elementi produce o aiuta o produrre la bellezza. Tutti però contribuiscono a determinare un’organizzazione che rende intellegibile la presentazione dell’idea musicale. Il linguaggio mediante il quale le idee musicali vengono espresse in note, si può paragonare al linguaggio che esprime sentimenti o pensieri con le parole”33.

Come Schönberg poteva leggere il progressismo di Brahms, così Nattiez può tornare a leggere il ‘tradizionalismo avanguardistico’ di Boulez: evoluzioni, risoluzioni di problematiche interne al linguaggio musicale. Se, al termine del salto, i capi di imputazione risultano pertanto alleggeriti (le accuse non rivolte), in realtà, la condanna a morte decisa negli anni Cinquanta contro Schönberg, è già stata eseguita (in luoghi sconosciuti alla stessa Corte che l’aveva decretata). Mentre infatti l’allievo più lucido ed eretico proponeva la sua estremizzazione, prima (e poi personale riassimilazione), del maestro, proprio quel principio comune - riconosciuto fondante per quanto incorentemente applicato - era andato progressivamente esaurendosi. Boulez aveva brillantemente risolto dei problemi linguistici mentre, contemporaneamente, a dissolversi intorno a lui era stata la stessa concezione linguistica della musica.

Nella sua analisi, che cerca paradigmaticizzare la nuova lingua musicale di Répons, Nattiez ha giustamente denunciato l’esito di una profonda mutazione concettuale, la rivoluzione prospettica dalla scrittura all’ascolto. Ma non ha voluto (o potuto) cogliere che la sua efficacia effettiva passava dietro le intenzioni di Boulez, perché, contestualmente, il senso di quell’ascolto rispetto al quale si definiva l’immaginazione creativa era cambiato in modo radicale e irriducibile: non più l’attiva tensione dell’orecchio-cervello, proiettato a ristabilire nel tempo della fruizione nessi e relazioni, organizzati nello spazio della composizione, non più l’orecchio-memoria impegnato a mettere in sistema il prima col poi, a ritrovare nella successione degli avvenimenti acustici la coerenza logico-causale. Se, per Nattiez, propugnare la centralità dell’ascolto significava ristabilire delle condizioni (perdute nell’ipercomplessità neovanguardista) di recepibilità e decodifica per un discorso compositivo, l’ascolto che rivendicava la propria assoluta centralità - l’ascolto della pura presenzialità sonora, dell’epifania e dell’esperienza, contro la storia e l’intellezione – deflagrava, al contrario, la secolare strutturazione narrativa dell’esperienza musicale.

Il successo di Répons quindi si può interpretare ribaltando completamente i termini proposti dal suo creatore. Non si trattava di offrire all’ascolto quel tanto di concettualizzata memoria capace di riattivare la percezione, quanto la possibilità che un ascolto amnesico godesse fenomenologicamente del puro impasto sonoro esploso nello spazio - senza più storia, senza più discorso. Quelli che per Nattiez sono i tratti pertinenti della riuscita estetica di Répons (la ricreazione di una riconoscibile dialettica formale capace di articolare coerentemente - e quindi dar loro senso -materiali linguistici complessi, affrancati dai nessi tonali), rappresentano nel nuovo paradigma, organi embrionali abbozzati e non sviluppati, tracce filogenetiche di un precedente, ormai abbandonato, modello evolutivo.

Come la dottrina apocalittica di Maestro era potuta rinascere (dentro ma contro lo stesso Maestro) nella lettura vitalistica delle ‘Giovani Lucciole’ di Ogii, la palingenesi apollinea del linguaggio musicale immaginata dal giovane Boulez, come fondazione
per integrale concettualizzazione del discorso - pura strutturazione astratta di un materiale acustico destoricizzato e privato della sua connotatività sensibile -, riletta dopo il vertiginoso salto mortale del Boulez maturo come fondazione per integrazione formale – strutturazione storicizzante il nuovo materiale riconsiderato in relazione alle sue qualità percettive -, si era rivelata invece apocatastasi dionisiaca di una musica definitivamente senza linguaggio34.

Questa percezione sciamanica, corporea e rituale - anticoncettuale, antinarrativa, antitemporale – costituita alla confluenza, negli esiti fruitivi prima che nei programmi, di esperienze disparate, di generi ritenuti incompatibili, di visioni estetiche eccentriche e marginali - questo fiume sotterraneo ormai gigantesco era improvvisamente emerso (aveva preso coscienza di sé), aveva inondato le lucide architetture di Répons con una forza capace di sradicarle dal terreno nel quale si credevano saldamente piantate e trascinarle, fluide e iridiscenti, nella propria corrente.
Effettivamente, per la prima volta dopo secoli, prive di memoria - e nostalgia.
2007


Note

↑ 1 Peter Burt, La musica di Toru Takemitsu, Ricordi, Milano 2003.

↑ 2 (Enzo Restagno, c.), Arvo Pärt allo specchio. Conversazioni, saggi e testimonianze, il Saggiatore, Milano 2004.

↑ 3 Oe Kenzaburo, Il salto mortale [Chugaeri, 1999] (G. Coci, t.), Garzanti, Milano 2006.

↑ 4 Nel romanzo, le problematiche estetiche della creazione contemporanea, oltre a essere rappresentate indirettamente dagli sviluppi ideologico-organizzativi della setta mistica di Maestro, si presentano attraverso le vicende e i caratteri di alcuni personaggi, artisti di professione o dilettanti. In particolare, Morio, il cui lieve ritardo mentale non impedisce il manifestarsi di una sensibilità musicale fuori dal comune e di divenire compositore ufficiale del gruppo religioso, tratteggia una figura assai interessante nella complessa relazione tra felicità dell’intuizione artistica e impossibilità di una sua verbalizzazione, tra l’immediatezza dell’azione compositiva e la sua mancata autocomprensione.

↑ 5 Nella nostra trattazione, assegneremo il ruolo di Guida, colui che interpreta le visioni di Maestro, a Jean-Jacques Nattiez, massimo musicologo e semiologo francese vivente, che offre una lettura ‘fondativa’ del capolavoro del Boulez, successivo al salto mortale, Répons.

↑ 6 Pierre Boulez, Classique-Moderne [1996] in: Regards sur Autrui. Points de Repère II, (Jean-Jacques Nattiez, Sophie Galaise, c.), Bourgois, Paris 2005, p. 473.

↑ 7 Nonostante la categoria sia posta in termini metastoricamente plurali, la sua piena incarnazione si può riscontrare solo all’interno delle poetiche del secondo Novecento.

↑ 8 Pierre Boulez, Schönberg est mort in ‘The Score’, 1952 [trad. it. in Pierre Boulez, Note d’apprendistato, L. Bonino Savarino, t., Einaudi, Torino 1968, pp. 233-239].

↑ 9 Di fatto, negandone, su un piano tanto pratico che teoretico la pretesa naturalità ‘fondata sulla natura stessa del suono’, così come era stata postulata dalla scienza armonica di Jean-Philippe Rameau (1722).

↑ 10 Ancora enunciata fin dal titolo, Brahms il progressivo, in una conferenza del 1933 ma pubblicata due anni prima del saggio di Boulez in Arnold Schönberg, Style & Idea, Philosophical Library, New York 1950.

↑ 11 Si definisce così non solo un’inconciliabile alterità rispetto a ogni altra esperienza musicale, ma la rivendicazione di un’inassimilabilità di principio (non una musica-merce tra le altre, differente per imballaggio e omogenea nella sostanza). In prezioso dialogo con Foucault, sulla vexata quaestio della relazione con pubblico, Boulez scriveva (1983: nell’epoca del salto mortale): “en parlant des musiques, et en affichant un œcuménisme éclectique, qu’on va résoudre le problème? Il semble bien, au contraire, qu’on l’escamote – en phase avec les tenants de la société libérale avancée […] tout est bien, rien n’est mal; il n’y a pas de valeurs mais il y a le plaisir. Ce discours, si libérateur qu’il se veuille, renforce, au contraire, les ghettos, réconforte la bonne conscience de se trouver dans un ghetto surtout si, de temps en temps, on va explorer en voyeur le ghetto des autres […] il y a des musiques qui rapportent et qui existent pour le profit commercial; il y a des musiques qui coûtent, dont le projet même n’a rien à voir avec le profit”, Pierre Boulez, La musique contemporaine et le public inRegards sur Autrui, op. cit., p. 484.

↑ 12 Nel racconto di Oe, la crisi di Maestro, nasce, come si è detto dal dover affrontare un gruppo di estremisti, che, portando alle estreme conclusioni le prospettive apocalittiche della sua setta, occupa una centrale nucleare per farla esplodere: se il messaggio di conversione si lega all’imminenza della fine del mondo, perché limitarsi a una preparazione personale, piuttosto che accelerarne il corso?

↑ 13 Pierre Boulez, "L’écriture du musicien: le regard du sourd", Critique, 408, mai 1981], in: Pierre Boulez, Regards sur Autrui, op. cit.

↑ 14 Implicando la limitazione delle intenzioni e i calcoli del compositore (oggetto principe della riflessione analitica e poetica neovanguardiste) a un contesto personale di scoperta e non oggettuale di giustificazione dell’opera (come la famosa mela, fondamentale per Newton, ma del tutto inutile a chi voglia comprendere le leggi della gravitazione universale, argomentate per formule e teoremi): le ragioni del successo, dell’efficacia, della sostanza musicale, sono da ricercarsi altrove rispetto alla pianificazione strutturale del pezzo.

↑ 15 Pierre Boulez, Classique/Moderne, op. cit.

↑ 16 Su questo punto, la storia testimonia non solo differenti proporzioni nell’effettiva adozione del dogma seriale, ma anche denuncia una repressione politico-ideologica capace di censurare duramente le altre istanze poetiche e compositive.

↑ 17 Pierre Boulez, L’écriture du musicien, op. cit., p. 292.

↑ 18 Nonostante il razionalismo di Boulez, appare chiaro quanto la risonanza religiosa della terminologia implichi una metaforizzazione della problematica linguistico-estetica nella sfera cultuale, del credere e celebrare prima che argomentare. Non arbitrariamente si pone quindi la possibilità del nostro parallelo romanzesco.

↑ 19 Pierre Boulez, Moderne/Postmoderne [1987] in: Pierre Boulez, Regards sur Autrui, op. cit., p. 479.

↑ 20 Si potrebbe dire che l’anatema contro la ripetizione, - tanto a livello fraseologico che macroformale, legge costruttiva di base del discorso musicale ‘classico’ – proietti sul livello delle strutture morfologiche quel voto di dimenticanza che informava completamente la poetica neovanguardista.

↑ 21 Pierre Boulez, Moderne/Postmoderne, op. cit.,p. 475.

↑ 22 Ivi, p.480.

↑ 23 «La dissolution du dogme implique […] que l’invention se remette toujours en question», Ibidem. «Pourquoi se lamenter sur la difficulté de devoir faire coïncider sensibilité et organisation, schéma et geste, prévision et accident? Apprenons donc à vivre pleinement l’instabilité de notre condition», Pierre Boulez, L’écriture du musicien, op. cit. p. 292.

↑ 24 Ibidem.

↑ 25 Offrendone proprio nell’incompromissoria negazione la forma più perversa e pervasiva di nostalgica celebrazione.

↑ 26 Pierre Boulez, Classique-Moderne, op. cit., p. 475.

↑ 27 Pierre Boulez, Entretien avec Jean-Pierre Derrien, 1998, in : Pierre Boulez, Regards sur Autrui, op. cit.

↑ 28 Ritraducendo musicalmente dal romanzo modernista, secondo il modello metaforico della référence obbligato non dalla distanza cronologica ma dall’eterogeneità dei codici, quanto la letteratura aveva metaforicamente tradotto dalle morfologie musicali classiche.

↑ 29 Seguendo la poetica suggestione di Jean Jacques Nattiez, Le combat de Chronos et d’Orphée, 1993.

↑ 30 Jean-Jacques Nattiez, ‘Répons’ et la crise de la ‘comunication’ musicale contemporaine, 1987, in: Jean-Jacques Nattiez, Le combat de Chronos et d’Orphée, op. cit.

↑ 31 Ivi, p. 343.

↑ 32 Come, rispetto alle forme classiche, costruite proiettivamente sullo schema tensivo/distensivo dell’armonia tradizionale, l’opporsi e avvicendarsi di dissonanza e consonanza, del momento della rottura modulante e momento della conferma cadenzale.

↑ 33 Arnold Schönberg, Brahms il progressivo, op. cit. in Arnold Schönberg, Stile e Idea, L. Pestalozza, t, Rusconi, Milano 1960, pp. 54-55.

↑ 34 È interessante notare quanto questa posizione (simmetricamente inversa, nella recente fine del Secolo, alla svolta linguistica dei suoi inizi – il linguaggio come paradigma privilegiato per concettualizzare ogni esperienza artistica) sia generalizzabile anche ad altre arti perfomative, in particolare al teatro, che si è progressivamente affrancato dalla sudditanza al testo, riuscendo dopo le scritture sceniche delle avanguardie degli anni ‘Settanta a raggiungere la scena senza scrittura, una nuova forma di effusione comunicativa, di immediatezza emozionale, oltre la strutturazione narrativa della parola. In particolare, si può interpretare in questa chiave il successo europeo del teatro di Pippo Del Buono.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482