«Les Chiens et les Loups» di Irène Némirovsky: per una risposta sull'esilio
Abstract
Italiano | IngleseLa riflessione sull'esilio nella letteratura di Irène Némirovsky assume una valenza personale che si traduce nella assenza di quelle "verità" comuni agli scrittori in esilio. Manca lo sguardo retrospettivo e il rimpianto verso il passato felice, così come non si verifica il passaggio con forza ad una lingua altra ; tuttavia la partenza obbligata consente alla scrittrice di interrogarsi sul male nel corso della storia. In Les Chiens et les loups la testimonianza infantile trova nella punizione divina una possibile risposta al dolore estremo che caratterizza il destino degli uomini.
Mais le mortel chassé de ses foyers y rentre-t-il jamais?
Hélas! l’homme ne peut dire, en naissant,
quel coin de l’univers gardera ses cendres,
ni de quel côté le souffle de l’adversité les portera. [...]
N’espérons donc que dans le ciel, et nous ne craindrons plus l’exil:
il y a dans la religion toute une patrie
CHATEAUBRIAND, Génie du Christianisme,
Première partie, Livre cinquième, chap. VII
La mia scoperta della letteratura dell'esilio si ebbe con lo studio dell'opera di Agota Kristof, scrittrice fuggita nella Svizzera francofona a seguito della Rivoluzione ungherese del 1956 (BENEDETTINI, 2002). Di scoperta, in effetti, si tratta, perché l'esame dei caratteri peculiari di una scrittura basata su una lingua diversa da quella madre, l'attenzione all'aspetto catastrofico del mondo e alle possibili consolazioni che si presentano agli esuli, danno vita a una nuova letteratura, che unisce il dramma della partenza obbligata, con i suoi risvolti spesso politici, alla voce e all'immaginario dell'autore. Lo sguardo “estraneo” sul nuovo ambiente in cui si trova a vivere dà allo scrittore in esilio la capacità di cogliere, in maniera “altra”, le molteplicità del mondo (ORLANDO, 1996). La mia attenzione si volse dunque alla capacità di Kristof di costruire, sia nei suoi celebri romanzi, sia nelle pièces teatrali, un sistema immaginativo che appare ogni volta reazione meditata alla sofferta esperienza biografica. Inquadrata in un'ottica di distaccata testimonianza, la scrittura è la sola possibilità di sollievo per dare voce alla continua sofferenza provocata dalla perdita del passato felice. «Hier tout était plus beau / la musique dans les arbres / le vent dans mes cheveux / et dans tes mains tendues / le soleil». Si riconoscono, in questi pochi versi – scritti in Un rat qui passe (KRISTOF, 1972: 134) e poi utilizzati, con lieve variante, come esergo a Hier (KRISTOF, 1995: 7) –, le idee di quella nostalgia per il paese perduto che segna i protagonisti dei testi della scrittrice, protagonisti che, ricordiamolo, «indurirono il cuore come un diamante» (Zaccaria, 7, 12). Abbiamo di fronte un'opera che coglie nel vivo i motivi principali della vita in esilio, all'estero, in un paese che parla un'altra lingua e che ha costretto la profuga-operaia Agota Kristof ad anni di silenzio e di “analfabetismo”, situazione capovoltasi completamente solo grazie alla sua capacità di riscattarsi, riversando nello scritto i pensieri, i ricordi e i desideri di chi è stato privato della libertà. L'atto di scrivere è dunque una conquista d'individualità, di autonomia e di identità, intimamente legato al posto che si occupa nella vita sociale (GORRIS CAMOS, 1999; 2002).
La democrazia in cui l'esule arriva (Agota Kristof mette piede in Svizzera per puro caso e finisce poi per restarvi) lo salva da una situazione di pericolo ma lo mette di fronte a una realtà del tutto nuova. La voglia di essere accettato, la barriera linguistica, la riflessione sulla distanza e il senso di straniamento, sono tutti indizi di una crisi dell'identità che conferiscono all'esilio un'inevitabile condizione metafisica. In La vendetta è il racconto, Pier Vincenzo Mengaldo – in un'ottica interamente rivolta alle testimonianze e riflessioni sulla Shoah, ma che ben si adatta alle testimonianze letterarie proposte durante la «Giornata della Francofonia» tenutasi a marzo 2010 a Verona –, sottolinea che «i testimoni stessi sono coscienti per primi della diversità con cui hanno vissuto esperienze uguali o in tutto simili» (Mengaldo, 2007: 55). Recuperare e ripercorrere molteplici testimonianze, mettendole a confronto sistematico, è l'interesse di Mengaldo per mostrare come, sebbene cambino i punti di vista, essi si rivelino tutti utili e necessari nel tentativo di ottenere una visione d'insieme il più possibile ampia.
In questo intervento ci vogliamo occupare di un'autrice antitetica ad Agota Kristof, potremmo dire del tutto antitetica, ma che comunque vive questa condizione dello scrittore in esilio (o piuttosto dell'esiliato scrittore): Irène Némirovsky, che scrive i romanzi che l'hanno resa famosa nel secondo ventennio del Novecento, in esilio in Francia, e che muore ad Auschwitz nel luglio del '42 (PHILIPPONAT et LIENHARDTF, 2007). Il problema è: come raccontare un esilio? Vedremo che Irène Némirovsky compie un percorso ben diverso da quello di Agota Kristof, diversità riscontrabile nell'esperienza di vita e che si riafferma poi nella letteratura. In questo modo si possono, crediamo, aprire nuove strade interpretative a questa domanda.
L'intera famiglia Némirovsky parte da Pietrogrado nel gennaio 1918, a seguito della Rivoluzione bolscevica, per recarsi dapprima in Finlandia, quindi in Svezia, infine a Parigi, abbandonata anch'essa, in un secondo momento, per trovare nuovo rifugio nella provincia francese. L’arrivo in Francia, paese conosciuto ed amato, fa sì che Irma Irina cambi il proprio nome e diventi così Irène Némirovsky. In quest'ottica, in cui la partenza è sì obbligata ma, allo stesso tempo, desiderata, e quindi non particolarmente sofferta, è inevitabile che cambino i rapporti dell'esule con il tempo, lo spazio, con la famiglia e gli amici, con la memoria stessa.
Abbiamo ritenuto interessante soffermarci principalmente su un testo della scrittrice, Les Chiens et les Loups, romanzo pubblicato dall’editore Albin Michel nel 1940. Oramai persa ogni speranza di naturalizzazione francese, da circa due anni Irène Némirovsky vive un esilio nell’esilio, trasferitasi con la figlia Elisabeth in Borgogna, nella cittadina agricola di Issy-L’Évêque, con il timore che la zona passi nuovamente un giorno nell'orbita di Vichy. La stesura del romanzo è contemporanea al cambiamento di religione della scrittrice, atto formalizzatosi con il battesimo, il 2 febbraio 1939, nella chiesa di Sainte-Marie, a Parigi, nel XVIe arrondissement (ANISSIMOV, 2004). Némirovsky ha cambiato l'ambiente in cui vive, il proprio credo religioso, ed è scettica sul futuro (che presto si concluderà tragicamente): tuttavia, il suo adattarsi al nuovo contesto non si traduce nell'opera letteraria con rinvii alla sua situazione personale, alla sua vita appunto, ma si inquadra in una dimensione più ampia, quella condizione metafisica dell'esilio cui si è già fatto riferimento. Quanto vogliamo far notare è che, una volta ammessa, e sempre presente, la condizione dell'esilio, questa si traduce in letteratura con risposte diverse. Infatti, sebbene in Les Chiens et les Loups compaiano elementi ricorrenti in tutta l'opera della scrittrice, essi trovano qui una risposta che è anche un indizio della capacità di Irène Némirovsky di sentire il mondo esterno in maniera creativa. Come è noto, la scrittrice cerca di risolvere il contenzioso con il Dio d’Israele e di dissipare i tormenti della sua identità di esule: di ebrea, di cristiana, di russa, di francese, di europea e di cosmopolita. In questo romanzo, l'incomunicabilità tra gli adulti e i bambini, il tentativo di spiegare la presenza del male nei tempi storici, sono dati che sembrano concretizzarsi in una riflessione sulla questione ebraica, affrontata non solo in termini di questione religiosa, ma di razza1.
La percezione della partenza obbligata, che si inquadra nell'ottica più ampia dell'esodo degli ebrei, risulta dunque meno contemporanea di quanto avviene, ad esempio, con l'esodo narrato in Suite française (NÉMIROVSKY, 2004), così come meno lirica, se confrontata a una novella quale La Niania (NÉMIROVSKY, 2009). Tuttavia, crediamo che questa nostra scelta, legata a considerazioni pratiche proprie al genere letterario, possa contribuire a tracciare una storia dell’immagine dell’esilio da parte di una scrittrice che, nella sua vicenda biografica, ha vissuto questa condizione più come una «migrazione» – si spiega così il passo di Chateaubriand menzionato in esergo a questo lavoro – che come un distacco accompagnato da un profondo senso di perdita2.
In Les Chiens et les Loups, l'angoscia della perdita e l'abituarsi faticoso alla condizione della lontananza fanno parte dell'umanità, alla pari del male che fa parte del divino. Nel dualismo spiccato su cui si articola il romanzo (cani/lupi, ebrei/non ebrei, ricchi/poveri, esuli/rimasti in patria), ci sembra di poter riconoscere un interrogativo ricorrente: come può Dio tollerare il male, gli omicidi di massa, i pogrom, gli esilî, fino alla grande catastrofe della Shoah? Il Dio che Irène Némirovsky raffigura in Les Chiens et les Loups si rifà all’immagine dell’Antico Testamento: è un Dio geloso, tirannico, che esige obbedienza assoluta dalle sue creature. Indifferente al pentimento, alle preghiere e alle richieste di aiuto degli uomini, Egli castiga i peccatori e mette alla prova i giusti. Lo sradicamento di chi subisce l’esilio va di pari passo con il destino del popolo ebraico alla continua ricerca di una terra dove fermarsi. La fuga della protagonista Ada, che vive in esilio a Parigi e che, con la propria pittura, dà voce – nel senso zumthoriano del termine – alla lontananza, il peregrinare costante di Ben, la migrazione di Harry, sembrano ben riassumere il senso tragico che accompagna lo sradicamento dell’esule: da un lato la vita nomade, dall’altro quella sedentaria di chi ha trovato una casa, dualismo simbolicamente riconoscibile nell’opposizione, portata dal titolo, tra i «lupi» e i «cani»3. Tutto ciò ci ha indotto ad analizzare la figura di Dio e a esaminare i conflitti, come quelli fra le religioni, che appaiono essere una causa dell'esilio e che, al contempo, influenzano la condizione stessa dell’esule.
Fin dalle prime pagine del romanzo, l’immagine di Dio è tratteggiata in maniera chiara:
Dieu était immobile et présent, guettant l’homme comme une araignée au centre de sa toile et prêt à le châtier s’il se montrait orgueilleux de son bonheur. Dieu était toujours là, zélé et jaloux; il fallait le craindre et, tout en le remerciant de ses bontés, ne pas lui laisser croire qu’il avait accompli tous les souhaits de sa créature, pour qu’il ne se lassât pas, pour qu’il continuât à la protéger. (NÉMIROVSKY, 1940: 14)
Il punto di vista è quello di Ada bambina, la quale dà voce agli adulti e alle loro credenze, spesso superstiziose, nei confronti del Signore. L’episodio dei due idoli, che si apre e si chiude con un rinvio alla «noia» della protagonista, accoglie le immagini forgiate dagli antichi popoli tribali: sul modello di un capo tribù ebraico, il Dio degli eserciti e delle tempeste è accompagnato dalla moglie, entrambi logorati dal tempo e dagli uomini. La coppia, che per Ada rappresenta il nonno e la nonna, incute paura ma suscita anche familiarità; si noti che, con spirito provocatorio, le spalle del vecchio Dio sono da Ada accarezzate come se si trattasse di un cane:
Ada s'ennuyait; les moustiques dévoraient ses bras nus; elle fit le tour des allées en marchant doucement, puis à cloche-pied, jusqu'à ce qu'elle fût arrivée auprès de deux blocs de pierre que l'on appelait dans le pays 'didko' et 'babko', le grand-père et la grand-mère; ils portaient une vague ressemblance humaine sur leurs traits à demi effacés. On avait dit à Ada que c'étaient des idoles païennes d'autrefois: le dieu des orages et son épouse, reine de la fertilité; on reconnaissait encore, aux pieds du couple, le socle des sacrifices, avec la rigole creusée dans la pierre pour que s'écoulât le sang des victimes, mais pour Ada, c'étaient des amis familiers – vraiment le grand-père et la grand-mère, tiédis au soleil, sommeillant au seuil de leur demeure. Elle avait bâti une petite hutte de feuilles mortes et de branchages derrière eux, pas plus haute qu'une taupinière, et elle imaginait que c'était là leur maison, qu'ils avaient laissée pour venir se reposer à la lumière du jour et qu'ils y rentreraient à la nuit. Elle fit une couronne de marguerites jaunes, aux cœurs noirs, à l'odeur amère, et elle la posa sur le front de la féroce idole, puis elle grimpa sur les épaules du vieux dieu des orages et le caressa comme un chien, mais, bientôt, elle s'ennuya (NÉMIROVSKY, 1940: 32-33).
Se è vietato ai credenti delle religioni monoteiste di rappresentare Dio con immagini scolpite o dipinte (BETTETINI, 2006), gli stessi fedeli non si astengono dal rivolgergli continui appelli. Così i mercanti del romanzo, nell’atto di vendere o di acquistare merci, entrano nel pieno di questo dramma:
Dans une chambre enfumée, basse et demi-sombre, cinq ou six hommes criaient comme des volailles qu'on égorge. Leurs figures étaient rouges; les veines se gonflaient sur leurs fronts. Ils levaient les bras en l'air et montraient le ciel ou se frappaient la poitrine. Ils disaient:
- Que Dieu me tue à cette même place si je mens! ...
Parfois, ils désignaient Ada:
- Sur la tête de cette enfant innocente, j'atteste le Seigneur que la soie était intacte quand je l'ai achetée!... Est-ce ma faute, à moi, malheureusement Juif, chargé de famille, si, en route, les souris en ont rongé une partie?
Ils se fâchaient; ils partaient; ils claquaient les portes; sur le seuil, ils s'arrêtaient; ils revenaient; les acheteurs, d'un air d'indifférence feinte, buvaient du thé dans de grands verres à support d'argent; les intermédiaires (il y en avait toujours cinq ou six qui se présentaient en même temps, dès qu'ils flairaient une affaire), les intermédiaires s'accusaient mutuellement de tromperies, de vols, d'escroqueries, des pires crimes; ils paraissaient prêts à s'entre-dévorer. Puis, tout s'apaisait: l'affaire était finie (NÉMIROVSKY, 1940: 13-14).
Irène Némirovsky rivela qui il senso basso dell’umano e dell’infinita indifferenza divina. Dio viene utilizzato solo a tratti, quando può tornare utile, con un uso umano, molto umano. È noto che la religione ebraica è più interessata alla sapienza di Dio che al riconoscimento della sua potenza o del suo amore. Perciò, è negli atti di giustizia, come nelle disgrazie individuali e collettive, che i personaggi di Les Chiens et les Loups ne riconoscono il significato. Manca anche il conforto dato dalla lettura dei Salmi, come quando il nonno della protagonista non ne ricorda un passo, utile invece al suo lavoro:
Le grand-père remuait légèrement les lèvres et poursuivait dans sa mémoire la citation d'un psaume nécessaire au chapitre XII, paragraphe 7 de son ouvrage, et qui le fuyait. Le bavardage de la famille était pour lui comme s'il n'existait pas. Le monde extérieur n'avait d'importance que pour les êtres grossiers qui ne savent pas s'abstraire dans les méditations désintéressées et les pures spéculations de l'esprit (NÉMIROVSKY, 1940: 27).
Eppure, paradossalmente, Dio è sempre presente. Alla sua tirannia – che per molti aspetti è simile alla stessa obbedienza assoluta e alla severità che le madri, nei romanzi di Némirovsky, impongono alle figlie –, l'uomo può reagire con dolce rassegnazione o con ostinata ribellione. Le cose, del resto, non potrebbero andare diversamente perché, qualunque disgrazia si concretizzi, «Dieu nous protège». Prendiamo ad esempio l'episodio del pogrom, che insieme al colera rappresenta uno dei due grandi pericoli che minacciano il gruppo di ebrei cui appartiene la giovane protagonista. Il ricordo – in cui si confonde la memoria di quanto Irène Némirovsky visse all'età di due anni e mezzo e di cui in seguito ha sentito parlare –, è espressione di come la costante minaccia divina possa compiersi da un momento all'altro. Le preghiere per allontanare questo pericolo, la consapevolezza del suo prossimo verificarsi, i canti accorati che si levano durante il suo corso conservano anch'essi tratti di familiarità persino allorquando si confondono con il rumore delle pietre e con gli inni patriottici del popolo invasore:
Les enfants étaient assis sur le bord de la malle, serrés l'un contre l'autre, trop hébétés pour pleurer. Peu à peu ils entendaient tel ou tel son différent qui se détachait du vacarme monotone, formé de mille voix. L'oreille tendue, les mains tremblantes, ils recueillaient avidement ces bruits qui les effrayaient moins que les autres, parce qu'ils pouvaient les reconnaître:
– Ça, ce sont des vitres qu'on brise. Tu entends les éclats qui tombent? Ça, ce sont des pierres qui volent, sur les murs, sur les rideaux de fer du magasin. Ça, c'est la foule qui rit. Et une femme crie comme si on l'éventrait. Pourquoi?... Et ça, ce sont les soldats qui chantent. Et ça...
Ils se turent, tentant de comprendre le sens de cette houle profonde et rythmée qui parvenait jusqu'à eux.
– Ce sont des prières, dit Ben.
Hymnes patriotiques, prières de l'église russe, cloches qui commençaient à sonner, cela faisait presque plaisir d'entendre ces sons familiers... (NÉMIROVSKY, 1940: 55).
Senza contraddizione apparente, Dio protegge e punisce. E se Dio è onnipotente, come può egli tollerare le minacce di morte, le ferite, fino agli arresti arbitrari degli ebrei? «Les grandes personnes ne répondirent pas» (NÉMIROVSKI, 1940: 51), frase che anticipa quanto vedremo in conclusione. Al silenzio, del resto, s'accompagna uno sguardo distaccato che è un po' quello degli osservatori attenti di fronte al banco degli imputati, «Peut-être contemplaient-ils [i cosacchi] la confusion et l'horreur du Ghetto comme au théâtre, avec ce petit frisson superficiel qui saisit le spectateur d'un drame, mais qui s'apaise aussitôt dans un confortable sentiment de sécurité», «distanza» che appare alla protagonista inquadrabile in un'immagine che si muove ancora interamente nell'ambito dell'indifferenza divina: «Ada les imaginait semblables aux anges qui se penchent sur les balcons du ciel et regardent avec indifférence la pauvre terre» (NÉMIROVSKI, 1940: 65). Stessa impenetrabilità che la voce narrante ravvisa, nel dualismo su cui si è visto costruirsi il romanzo, tra i pensieri del ricco parente Israël Sinner (non è certo casuale la scelta del cognome «Sinner» che, ricordiamolo, in inglese significa peccatore) e i pensieri di coloro che sono riuniti intorno a Dio: «Mais les pensées d'un homme si riche doivent être d'un ordre impénétrable au commun des mortels, élevées et étranges comme celles des habitants du Ciel» (NÉMIROVSKI, 1940: 74). Quanto alle altre credenze religiose, e al culto delle loro rispettive immagini, leggiamo il resoconto che ne fa la voce narrante: «Les maisons où vivaient des orthodoxes portaient toutefois des icônes à leurs balcons, dans l'espoir d'arrêter les assaillants par le respect dû aux Saintes Images» (NÉMIROVSKI, 1940: 62). «Rispetto» che sappiamo cadere nel vuoto, tra le grida delle donne che, in fuga, si raccomandano al Signore, «Jésus-Christ, ayez pitié de nous!», e i bambini che, senza saper bene dove andare, cercano rifugio allontanandosi dal Ghetto. In questa prospettiva l'esilio, nella sua particolare necessarietà di salvare l'uomo dal pericolo, e pur avendo il carattere di «un saut dans l'inconnu» (NÉMIROVSKI, 1940: 96), resta la sola opportunità.
Opportunità che, come nella vita di Némirovsky, sembra essere accettabile solo da coloro che non hanno particolari legami con la propria terra. Non vanno dimenticate infine le parole che Ada rivolge a Ben, artefice del fallimento di Harry Sinner:
Tu l'as rejeté de force parmi nous, la racaille juive, les aventuriers, les émigrés, les métèques... Que sera-t-il de plus que cela maintenant? Lui qui avait des amis, une famille, une fortune, marié à une Française! Tu imagines cela? Tu imagines le contraste? Qu'est-ce que c'est, pour moi, le scandale? le déshonneur? On ne m'a jamais respecté! Qu'est-ce que ça signifie pour moi, l'exil? Je n'ai pas de pays. Mais lui... Et tu penses qu'il te pardonnera ça? (NÉMIROVSKY, 1940: 214).
Ma il timore di Ada, per quanto riguarda il prossimo esilio del suo amante, non tiene conto della consapevolezza che anche Harry possiede di questo destino: «Et d'ailleurs tout cela passera. Tout cela est déjà arrivé, je ne sais quand, je ne sais où, mais j'ai déjà tout perdu et je l'ai retrouvé. Tout cela est sans réelle importance. La mort elle-même n'a pas de réelle importance» (NÉMIROVSKY, 1940: 226). Sono parole che rinviano alla sofferenza provata dal popolo ebraico – già se ne trovava traccia nel dialogo tra la madre di Harry e la moglie Laurence – e che al contempo suonano comuni – quasi kristoffiane – all'angoscia propria della vicenda biografica del profugo. In fondo, insomma, un punto emerge: l'ebraica «incertezza dei confini» (A. Prosperi) manca nel paese di origine («la ville ukrainienne, berceau de la famille Sinner, était, aux yeux des Juifs qui l'habitaient, formée de trois régions distinctes, comme on voit sur les tableaux anciens», NÉMIROVSKY, 1940: 9) e diventa invece un elemento cardine su cui l'intera esistenza dell'esule sembra condursi: un nuovo contesto spaziale e temporale caratterizza la scrittura sull'esilio e dall'esilio. La presa di coscienza di questa condizione non è elusa da nessuno dei personaggi di Irène Némirovsky, neppure dal ricco e francesizzato Harry Sinner (la famiglia francese, lo sappiamo, lo salverà dalla bancarotta e, di conseguenza, dalle traversie della partenza obbligata).
Ha scritto Edward W. Said che «l’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi» (SAID, 2000: 216). Tanto più avvincente, ci pare, se l’esule appartiene alla ricca borghesia ebrea di inizio Novecento, quella società cosmopolita che sembra non avere, né voler mettere, radici in nessun luogo: «Cette sociéte mouvante, cosmopolite, qui n'a d'attaches ni de foyer nulle part» (NÉMIROVSKY, 1936: 10). Ecco cosa piace leggere al pubblico. Quello stesso pubblico che si riversa nelle aule della Corte d'Assise per assistere al processo di Gladys Eysenach, la protagonista di Jézabel, una donna bella, ricca, insospettabile ma accusata di omicidio premeditato. Il racconto piace perché provoca molte emozioni: il genere letterario che prende spunto dalla cronaca nera, è noto, fornisce un ampio repertorio per soddisfare e alimentare il bisogno collettivo di fantastico, di meraviglioso, di inverosimile. È l’interesse per il male che abita e tormenta il cuore degli uomini, il cadere della maschere che nascondono la vera natura che spingonole signore del romanzo a seguire il dibattimento e ad appassionarsi alle vicende narrate. Passioni scabrose, lucidità mefistofelica (o alla Jézabel), legami personali che finiscono nel sangue: sono questi alcuni degli elementi ricorrenti nei romanzi di Irène Némirovsky che, associati a una rappresentazione dell’esilio che sembra sfuggire alle «verità» ricorrenti sul tema, aprono al lettore ampie prospettive (BRODSKIJ, 1988). Manca, lo si è visto, il passaggio obbligato da una lingua madre a una lingua del paese d’esilio, come manca quel sentirsi un «essere retrospettivo e retroattivo» con lo sguardo continuamente volto al passato felice, a tutto ciò che di bello si è «lasciato dietro di sé» (BRODSKIJ, 1988: 22). Irène Némirovsky non ha, a differenza di Agota Kristof, «tagliato i ponti» con la madrelingua, ma li ha consolidati. La lingua infantile è infatti per lei il francese, lingua appresa dalle governanti e durante i lunghi soggiorni nel «plus beau pays du monde». Felicemente recuperato e scritto nei suoi libri, il francese quale scelta linguistica fa emergere un punto importante nella vita della scrittrice: che la nostalgia, quando si ha, non è per il paese di nascita, la Russia, ma per quello di arrivo, la Francia. Contrariamente a quanto di solito si verifica, contrariamente a quanto accadeva per Agota Kristof, in molti romanzi di Némirovsky ci troviamo di fronte a un esilio singolare, da ovest verso est: sono le giovani francesi – delle quali da tempo tutti hanno dimenticato il nome perché chiamate semplicemente «niania», «bonne», «nounou» («tata» in italiano) –, che lavorano presso le ricche famiglie russe a soffrire il distacco dalla dolce terra e a morirne, come avviene nella trasposizione letteraria del Vin de Solitude (NÉMIROVSKY, 2004) o delle Mouches d'automne (NÉMIROVSKY, 2009).
In questa nostra “lettura” si è cercato di collocare il tema dell'esilio entro i confini di un romanzo che, fin dall'inizio, si situa nel punto in cui genere letterario e religione (religione intesa come rapporto con la divinità e come rapporto con la collettività) sfumano l'uno nell'altro. Nel punto in cui la scrittrice in esilio mostra come per il suo popolo la divinità è nascosta e l'esilio è un esempio di punizione inviata dal Signore contro Israele. In conclusione vogliamo ricordare due interrogativi che Irène Némirovsky si pone nelle «scene» evocate in Naissance d'une révolution e che ci sembrano opportuni anche nel caso dell'esilio: in apertura, la domanda «Quel est l'instant exact où naît une révolution?» e, in chiusura, «Pourquoi cette cruauté? Comment des hommes peuvent-ils infliger pareil supplice à un autre homme, de leur plein gré?» (NÉMIROVSKY, 2009: 97 e 102). La natura del ricordo – si pensi alla «Trilogia»di Kristof e alle parole, già menzionate, di Pier Vincenzo Mengaldo – è qui fondamentale: come si capisce dal sottotitolo, Scènes vues par une petite fille, la persecuzione è vissuta in età infantile, testimonianza-riflessione che si carica di una gravità ben diversa di quanto avviene quando il perseguitato è un adulto. La memoria della protagonista, l'incomunicabilità da lei avvertita con il mondo degli adulti, incapace di rispondere, trova analogie con le storie narrate nelle pagine della scrittrice. «Il y a eu un moment, pourtant, où l'enfant que j'étais a compris “qu'il se passait quelque chose”, quelque chose d'effrayant, d'excitant, d'étrange qui était la révolution, le bouleversement de toute la vie» (NÉMIROVSKY, 2009: 97). Alle motivazioni di questo «bouleversement», e alle crudeltà commesse nel suo realizzarsi, la scrittrice in esilio –come anche lo scrittore dalla prigione, dal lager, dalla malattia, dalla lontananza in genere (BABBI e ZANON, 2007) – ha cercato di dare una risposta.
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Note
↑ 1 Nel romanzo (pp. 196-197), l'educazione del figlio di Harry costituisce un momento che ben esprime il contrasto tra la «race heureuse» dei francesi, di cui si fa portavoce la madre Laurence, e quella infelice degli ebrei, nella figura della nonna, che dà voce alla tradizione ebraica.
↑ 2 Sul termine più adatto per indicare lo scrittore che ha dovuto lasciare il proprio Paese d'origine, partenza che molto spesso causa anche l'abbandono della propria lingua madre, ci siamo interrogati ampiamente durante la discussione conclusiva della Giornata di studio.
↑ 3 Interessante sarebbe indagare la presenza ricorrente dei cani nei romanzi di Némirovsky. Gli stessi sono invece quasi assenti nei testi di Agota Kristof, dove spesso l'animale, connotato dal pelo, assume una valenza sessuale ben precisa (BENEDETTINI, 2003).