Mes départs: dall’erranza all’esilio in Panaït Istrati
Abstract
Italiano | IngleseL’esilio e l’esperienza continua dell’erranza costituiscono due capisaldi dell’opera letteraria di Panait Istrati. Lo scrittore rumeno di espressione francese era infatti un instancabile viaggiatore, come traluce dai suoi testi narrativi, in particolare nel ciclo di Adrien Zograffi, nel quale descrive la realtà di estrema sofferenza degli emigrati e degli esiliati che egli incontrò personalmente lungo le strade e sulle rotte marittime del variopinto mondo dei Balcani e del Mediterraneo. Nel racconto autobiografico Mes départs il romanziere narra il proprio esilio unitamente a quello dei tanti greci, turchi, rumeni, albanesi, bulgari ed ebrei che convivevano pacificamente nel quartiere cosmopolita di Braïla, la città natale dello scrittore, dando vita ad un affascinante universo multiculturale. In questo récit il protagonista, alter ego dello scrittore, sperimenta in prima persona le sofferenze e tutti gli aspetti negativi che l’esilio comporta, ma questa dolorosa esperienza, al pari del prolungato vagabondaggio, rappresentano altresì occasioni incomparabili di rinascita culturale, ricerca interiore e maturazione artistica.
Uno spirito ribelle
Istrati è stato definito dai critici letterari con molteplici espressioni, spesso per sottolinearne, oltre alle indubbie capacità letterarie, l’esistenza avventurosa ed errabonda, l’anima insofferente e ribelle, alla costante ricerca di nuovi stimoli e nuove esperienze: «le frère des bannis et des étrangers, […] rebelle à toute sujétion»1, viaggiatore, pellegrino, écrivain-vagabond, dépaysé, «un chevalier errant moderne»2, «vagabond de génie»3, «un chardon déraciné»4, «migrant de l’écriture»5, «le chantre des vagabonds»6, «l'écrivain vagabond des Balkans »7, «uno scrittore nomade»8, ecc.
In effetti, l’erranza, il desiderio di evasione e il cosmopolitismo hanno affascinato e contraddistinto il pensiero dello scrittore rumeno sin dalla prima adolescenza e affondano le loro radici nelle origini e nel tormentato vissuto di Istrati. Panaït Istrati (pseudonimo di Gherasim Istrati) nacque a Braïla, un importante porto fluviale sul basso Danubio, figlio di una contadina rumena e di un contrabbandiere greco, ucciso in un conflitto a fuoco con i guardiacoste quando il piccolo Panaït non aveva ancora nove mesi.
La perdita prematura del padre e la continua ricerca delle sue origini greche, che perdura anche negli ultimi récits della sua breve e intensa produzione letteraria, hanno avuto un ruolo fondamentale nel determinare il cosmopolitismo e l’esistenza errabonda di Istrati. I suoi racconti sono sovente intimamente legati alle vicende biografiche dello scrittore. In particolare, i due récits che compongono Mes départs, ossia Fin d’enfance. Premiers pas dans la vie e Pour atteindre la France, si confondono quasi con l’autobiografia.
Per Panaït Istrati, come per molti altri scrittori esiliati, la quête d’identité, la difficile ricerca delle proprie radici e le molteplici esperienze vissute trovano il loro sbocco naturale nella scrittura, strumento privilegiato e imprescindibile con cui esprimere le tormentate tappe della propria odissea, le innumerevoli avventure e le straordinarie figure umane incontrate, in una narrazione che assume di volta in volta tratti realistici o picareschi e che nel ciclo di Adrien Zograffi si configura come vero e proprio romanzo di formazione.
La scrittura diviene per Istrati una sorta di «rachat de l’errance» (RENARD, 2000: 141), un modo per riscattare agli occhi della madre e dei suoi concittadini i vagabondaggi dell’adolescenza e della giovinezza e la perenne precarietà lavorativa, come dichiara all’amatissima madre Adrien, l’alter ego dello scrittore: «il faut que je rachète à tes yeux toutes les souffrances que je te cause en ce moment, et je ne ferai cela que le jour où je serai un écrivain» (ISTRATI, 2006b: 643). Zoïtza Istrati, la madre dello scrittore, al pari della madre di Adrien Zograffi, ha sempre vissuto con dolore e insofferenza le scelte di vita del figlio, soprattutto il suo eterno vagabondare e la mancanza di un’occupazione stabile. La donna, una povera lavandaia di origini contadine, dopo la morte improvvisa del marito ha scelto di dedicarsi interamente al suo unico figlio, rinunciando a risposarsi. Di conseguenza, ha dovuto sopportare in solitudine e per lunghi anni i commenti sarcastici e gli scherni dei vicini di casa, le loro insinuazioni maligne sul rapporto di amicizia profondo che legava lo scrittore, allo stesso modo del suo alter ego Adrien, a Mikhaïl, l’inseparabile compagno delle sue infinite peregrinazioni.
In tutti i récits del ciclo di Adrien Zograffi, da Kyra Kyralina a Méditerranée (Coucher du soleil), la vita errabonda del giovane protagonista è fonte di continui conflitti con la madre, che gli rimprovera soprattutto i lavori miserrimi che è costretto ad accettare ogni volta che ritorna a casa, per coprire, almeno parzialmente, i costi dei suoi incessanti viaggi:
- Hum! Tu veux donc être un écrivain. En attendant, tu es un valet d’hôtel! Cela n’est jamais arrivé dans notre famille. Nous sommes des paysans très pauvres, je suis une blanchisseuse. Mais valet d’hôtel! J’ai honte de montrer ma tête dans la rue! Ce que tu fais loin de ton pays, personne ne le sait. Tu peux faire même le vidangeur. Ici, non, non! (ISTRATI, 2006b: 644)
L’amore di Adrien per la madre è profondo e indiscutibile, ma ad ogni ritorno, ad ogni incontro fra i due, vi sono nuove lacerazioni che esasperano il giovane e lo inducono a ripartire rapidamente verso altre mete. In maniera quasi paradossale, il loro legame si rinsalda solamente quando Adrien si trova lontano dalla sua città natale. Il perenne girovagare del protagonista diviene così una necessità anche di carattere familiare, essenziale per non esasperare le divergenze di idee con la madre:
Je n’y tenais plus. Je savais que chaque nouvelle rencontre avec ma mère ne faisait qu’élargir l’abîme qui nous séparait, et pour rien au monde je ne voulais être amené à haïr celle que j’aimais plus que tout au monde, quoiqu’il me fût impossible de la satisfaire. Mais une fois loin d’elle, la tension entre nous s’évanouissait, l’amour reprenait le dessus, nous nous ennuyions l’un de l’autre. Il me fallait donc partir. (ISTRATI, 2006b: 644)
La smania di partire, la frenesia di viaggiare, la ricerca senza tregua dell’altrove troveranno sbocco nella scrittura. All’inizio degli anni Venti, ormai quarantenne, Istrati pone fine alle sue peregrinazioni in Europa e lungo le coste del Mediterraneo orientale, per dedicarsi alla creazione letteraria, alla stesura di racconti fortemente autobiografici e che spesso assumono i tratti di veri e propri resoconti dei suoi viaggi. Allo spazio fisico dei tanti itinerari percorsi subentra lo spazio del romanzo, la dimensione del racconto, come sottolinea Pierrette Renard: «Le pays de la guérison n’est plus l’Égypte ensoleillée ni la mer mais l’espace du roman, même si “écrire est un drame”» (RENARD, 2000: 141). La quête esistenziale di Istrati ha trovato il suo naturale approdo nella scrittura, con la quale egli riesce finalmente ad esprimere pienamente se stesso ed il suo bisogno assoluto di fratellanza e di giustizia, come egli precisa nel 1932, nella Préface à «Adrien Zograffi» ou les aveux d’un écrivain de notre temps: «L’art de mon Adrien, ce sera ma vérité, mon désir de justice. Le document, moi, ma parole» (ISTRATI, 2006b: 197)
«Mes départs»: gli inizi difficili
Il récit autobiografico Mes départs è stato pubblicato per la prima volta per i tipi di Gallimard nel 1928. Si tratta del terzo volume de La Jeunesse d’Adrien Zograffi, che costituisce la seconda parte del cosiddetto ciclo Adriano (dal nome del protagonista, il giovane alter ego dello scrittore). Istrati terminò la redazione di questo racconto nel marzo del 1927, sette mesi prima dell’inizio del suo lungo viaggio in Unione Sovietica.
Il récit è suddiviso in due parti principali: Fin d’enfance. Premiers pas dans la vie (che comprende a sua volta due distinti capitoli, La taverne de Kir Léonida e Capitaine Mavromati) e Pour atteindre la France (che racchiude la dedica a Charlie Chaplin9 e il racconto Direttissimo).
La decisione di dedicare a Chaplin Pour atteindre la France è particolarmente significativa: l’illustre regista e attore del cinema muto aveva infatti creato il celebre personaggio di Charlot, il vagabondo con baffetti e bombetta, dall’andatura dondolante e dai modi raffinati, che contrappone un temperamento sentimentale e un malinconico disincanto alle diseguaglianze sociali e alle ingiustizie prodotte dalle trasformazioni economiche della società industriale10. Istrati dichiara di aver conosciuto la figura di Charlot attraverso i film che lo vedono come protagonista. Egli è profondamente affascinato dalla produzione cinematografica di Chaplin e, come sottolinea Linda Lȇ, il Mes départs «évoque irrésistiblement l’univers de l’apôtre des vagabonds» (ISTRATI, 2006b: 13). Lo scrittore rumeno decide di dare voce a personaggi oppressi e marginali, appartenenti alle classi popolari, che sono al centro anche dell’opera di Charlie Chaplin, nella quale però non possono esprimersi verbalmente, trattandosi di lungometraggi del cinema muto.
A questo proposito, Ina Alice Pfitzner individua nel racconto Mes départsun «exil illisible» e un «vagabondage illisible» (PFITZNER), poiché in questo récit e in molti altri dello stesso ciclo, come Codine e Mikhaïl, lo scrittore «rend lisible ce qu’on ne lit jamais: les voix des opprimés, les langues de ceux qui vivent dans un monde oral » (PFITZNER). In alcuni racconti, appartenenti a questo ampio ciclo narrativo, sono descritte le condizioni di vita miserabili dei contadini rumeni e la lotta armata contro gli oppressori condotta dagli haïdouc, delle figure leggendarie di briganti ed eroi popolari che sceglievano di condurre una vita da fuorilegge, abbandonando i loro villaggi e vivendo nascosti nelle foreste, per combattere contro gli invasori stranieri.
Nel récit Mes départs, invece, Istrati decide di presentare al lettore il suo mondo, le strade polverose che ha percorso da giovane, il suo primo viaggio clandestino in nave, la fame patita nel soggiorno napoletano, le tante persone che ha incontrato sul suo cammino e i luoghi che ha visitato. Vi sono numerosi riferimenti alla tradizione orale della Romania rurale di inizio Novecento, ma ai contadini si aggiungono molte altre figure, come sottolinea Ina Alice Pfitzner: «ce sont aussi les chômeurs, les pauvres, les émigrants, les blanchisseuses, comme sa propre mère, qu’il rencontre pendant ses voyages» (PFITZNER).
Sono quasi tutte persone che lo scrittore ha conosciuto personalmente durante l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza. In effetti, nel récit Mes départs la voce narrante non è quella solita di Adrien Zograffi, che abitualmente racconta, da testimone privilegiato, vicende altrui, personali o della propria famiglia. Il narratore, intradiegetico ed autodiegetico, è lo stesso Panaït Istrati, il quale rinuncia completamente al filtro del suo doppio letterario. Egli racconta alcuni episodi determinanti della propria vita in prima persona, senza mediazione alcuna, facendo chiari riferimenti alla propria identità. Ad esempio, quando decide di partire per Marsiglia, il suo inseparabile amico Mikhaïl Kazansky, con il quale ha condiviso innumerevoli viaggi ed avventure, cerca invano di convincerlo a rientrare dalla madre in Romania. Si rivolge a lui chiamandolo Panaït:
Comme je voulais partir pour la France, et que mon ami s’y opposait, il me dit une dernière fois :
- N’y va pas … Sois raisonnable … Tu as une mère qui tremble pour ta vie. Tant que nous étions ensemble, cela pouvait encore aller ; je parle plusieurs langues et suis plus débrouillard que toi. Mais, seul, tu souffriras beaucoup plus. Puis l’Occident, qui a des asiles de nuit, est plus dur pour les vagabonds que l’Orient, qui n’en a point. Laisse au diable Marseille […] Crois-moi, Panaït … (ISTRATI, 2006b: 58)
In Mes départs ogni elemento dell’intreccio è riconducibile ad esperienze vissute in prima persona dallo scrittore: il racconto inizia quando il narratore conclude gli studi elementari obbligatori, fra i dodici e i tredici anni. Il direttore della scuola consiglia alla madre di iscriverlo al liceo, ma le ristrettezze economiche non glielo consentono: la giovane donna è vedova e svolge il lavoro poco remunerativo di lavandaia. Panaït è costretto quindi ad abbandonare gli studi, peraltro senza grandi rimpianti:
J’avoue que je ne voyais là aucun «dommage» : par contre, je me trouvais heureux d’en avoir fini avec cette corvée de ma belle enfance. Je n’ai point aimé l’école, pour laquelle mes aptitudes ont toujours été médiocres, sauf en une seule matière, la lecture, qui m’a régulièrement valu la note la plus élevée. (ISTRATI, 2006b: 15-16)
L’esperienza scolastica gli ricorda soprattutto le percosse ricevute, a partire dai sette anni, da un paio di insegnanti violenti ed incapaci, che inducevano gli alunni a marinare regolarmente la scuola. A causa di questa esperienza traumatica, egli definisce l’istruzione pubblica «cette mégère qui ne comprend rien à l’âme de l’enfant». (ISTRATI, 2006b: 16)
Il narratore deve quindi crescere in fretta. Affascinato dal paese di suo padre e dai quartieri cosmopoliti della sua città natale, il ragazzino decide di lavorare presso la taverna del greco Kir Léonida, situata in rue de Rive, nel Karakioï, il quartiere greco di Braïla, sul porto fluviale lungo il Danubio. È stato lo zio materno del narratore, oncle Anghel, anch’egli proprietario di una taverna, a consigliare all’amatissimo nipote di cercare impiego presso un datore di lavoro greco, poiché «les Grecs […] sont, habituellement, plus généreux que les Roumains» (ISTRATI, 2006b: 16). Il narratore precisa anche il motivo che ha trattenuto lo zio dal chiamarlo a lavorare con sé, nella propria taverna:
- Deh, mon garçon, je voudrais bien te garder près de moi, car tu m’as l’air dégourdi, mais ce ne serait guère sage: l’enfant qui se sent chez un parent devient effronté et se gâte. Il n’y a que chez les étrangers que l’on apprenne à devenir homme. Mais il ne faut pas entrer au service de quelque mesquin. Cherche un maître opulent. (ISTRATI, 2006b: 17-18)
In realtà, questo primo impiego come garçon de cabaret è l’inizio di sedici mesi quasi infernali, in una condizione che rasenta la schiavitù. La voce narrante descrive l’orario di lavoro massacrante, che spesso ammonta a diciannove ore giornaliere, le sue dure mansioni e le angherie che continuamente subisce dal cassiere, un losco personaggio tirannico e corrotto. Ciò che però lo fa soffrire maggiormente è la perdita della libertà, l’obbligo di rimanere rinchiuso l’intera giornata nella taverna e l’impossibilità di percorrere la amate rive del Danubio.
In Panaït si rivelano sin d’ora lo spirito cosmopolita e l’amore per l’erranza. Egli ha scelto infatti di lavorare nel quartiere Karakioï, abitato principalmente da greci e turchi, non soltanto per apprendere la lingua paterna, ma anche per l’atmosfera cosmopolita e vivace delle sue vie. Passeggiando durante il tempo libero fra queste strade, il narratore sogna di trovarsi sulle rive del Bosforo, «ce fatidique éden que je désirais si ardemment connaître et dont je m’étais fait une image à moi d’après des photos et des estampes» (ISTRATI, 2006b: 20). Egli ama mescolarsi alla folla multietnica che colora questo quartiere: i greci sognatori e libertini, i turchi dai volti severi e le giovani donne dagli occhi malinconici. Nel corso del suo girovagare, nei rari momenti di frenetica libertà che gli sono concessi, Panaït osserva attentamente tutte queste persone, ne rimane quasi ammaliato. Egli dovrà condividere, nei suoi lunghi soggiorni all’estero, la nostalgia di questa gente per il proprio paese e tutte le sofferenze dell’esilio. Inoltre, l’ammirazione dello scrittore per il quartiere Karakioï e il fascino dei suoi abitanti rappresentano anche lo stimolo iniziale della sua attività letteraria :
[…] ces fragments de nations passionnantes venues à Braïla pour faire fortune, rongées par la nostalgie de leurs patries lointaines, et finissant toujours dans nos tristes cimetières, deux fois tristes pour ceux qui meurent en pays étranger.
C’est là que je puisai, dès mon enfance, toutes ces impressions voluptueuses qui devaient me servir plus tard à composer le cadre et l’atmosphère de Kyra Kyralina. (ISTRATI, 2006b: 20)
Nella taverna di Kir Léonida, il giovane narratore approfitta dei fugaci momenti di evasione dalla sua condizione di «enfant emmuré» (ISTRATI, 2006b: 24) per apprendere la lingua greca e ha la fortuna di conoscere l’anziano e carismatico capitano11 Mavromati. Si tratta di un incontro determinante per il personaggio principale del racconto: il vecchio marinaio gli dona un dizionario universale, la «sainte bible» (ISTRATI, 2006b: 43) della sua adolescenza, la sua unica fonte di felicità spirituale, il prezioso tesoro di un’esistenza travagliata ed infelice, il solo strumento in grado di aprirgli nuovi orizzonti e di offrirgli un mondo pieno di conoscenze.
Il narratore può così assecondare, ancorché di nascosto, la sua passione per la lettura, riducendo però le già scarse ore dedicate al sonno: «Rognant sur mes heures de sommeil, pendant que mes camarades ronflaient dans leurs lits, je me bourrais de voluptueuses connaissances» (ISTRATI, 2006b: 44).
Alla morte del capitano Mavromati, con il quale aveva instaurato un rapporto di stima reciproca ed amicizia, il ragazzo decide di abbandonare il lavoro alla taverna.
Nella seconda parte del récit, intitolata Pour atteindre la France, la voce narrante racconta il suo primo viaggio all’estero, intrapreso nel 1907 nel vano tentativo di raggiungere la Francia, dopo la separazione definitiva dall’amico Mikhaïl. Il narratore si imbarca clandestinamente sulla nave Saghalien, in partenza per Marsiglia. Durante il tragitto, si ripromette di adattarsi a qualsiasi lavoro, pur di poter vivere in Francia e di apprenderne la lingua:«Ah! Je ferai tout, tout – débardeur, plongeur, mendiant – uniquement pour y arriver. Je me vois déjà lisant, moi aussi, des livres français, en original» (ISTRATI, 2006b: 64), ma nel corso di una tempesta, nei pressi di Messina, viene scoperto e poco dopo sbarcato a Napoli. Fallisce quindi il suo primo tentativo di raggiungere la sua meta tanto agognata.
Per qualche tempo vive in completa miseria nella città partenopea, soffre atrocemente la fame e la solitudine, «homme seul au monde, homme plus en détresse qu’un chien vagabond, homme qui n’a plus qu’à s’étendre au milieu de la rue pleine de passants et à y mourir!» (ISTRATI, 2006b: 75). Non riesce a trovare un lavoro e si aggira smanioso nel porto, nel tentativo di imbarcarsi su di una nave. Alla fine, dopo altre traversie e un ultimo pasto napoletano, un «délicieux ragoût de chat» (ISTRATI, 2006b: 83), egli riesce ad imbarcarsi sulla nave a vapore Hohenzollern, in partenza per Alessandria d’Egitto.
Per quanto riguarda la struttura narrativa, in Mes départs il procedimento utilizzato è accostabile a quello dell’autofiction, una modalità narrativa studiata approfonditamente da Vincent Colonna, che gli ha dedicato anche la propria tesi di dottorato12, oltre ad alcuni studi più recenti13. In realtà, il neologismo autofiction è stato introdotto nel 1977 da Serge Doubrovsky nel romanzo Fils14, ma applicando questo concetto esclusivamente alla modernità. Nel saggio Autofiction et autres mythomanies littéraires, apparso nel 2004, Colonna individua invece una tipologia di autofiction che egli considera essere una pratica, un modo di raccontare di sé appartenente alla tradizione letteraria. Si tratta dell’autofiction biographique, una forma di fabulazione di sé che ha in sostanza sostituito, secondo Colonna, il romanzo autobiografico, conservandone però le peculiari caratteristiche di genere letterario: innanzitutto, il narratore è omodiegetico ed autodiegetico, protagonista delle vicende è quindi l’autore stesso, talvolta celato dietro un’identità fittizia, ma sempre riconducibile con certezza, agli occhi di un lettore attento, alla persona dello scrittore. Nell’autofiction biographique dunque la narrazione scaturisce da presupposti autobiografici. Ed è proprio questo aspetto la caratteristica principale di Mes départs, in cui la narrazione ripercorre alcune tappe fondamentali della vita di Panaït Istrati e ne descrive soprattutto le condizioni esistenziali miserabili e disperate con ricchezza di particolari realistici. In questo racconto autobiografico, la necessità impellente di auto-raccontarsi si realizza mettendo in scena direttamente se stessi, mentre in altri racconti dello stesso ciclo narrativo (Codine, Mikhaïl, Le Pêcheur d’éponges, ecc.) vi è la presenza di una identità fittizia, di un alter ego la cui personalità e le cui vicende rispecchiano fedelmente quelle dello stesso Istrati. Inoltre, la profusione di dettagli realistici è essenziale, secondo Philippe Gasparini, per rendere credibile al lettore l’intreccio, poiché essi permettono di moltiplicare «les notations concrètes qui étayent la cohérence de déterminations sociales peu familières au lecteur» (GASPARINI, 2004:32).
Nei racconti di Istrati abbondano gli indizi che segnalano al lettore il carattere essenzialmente autobiografico della sua opera: ad esempio, l’utilizzo costante dell’autocitazione, la presenza di motivi ricorrenti e la confusione continua fra protagonista, autore e narratore, creata mediante riferimenti intertestuali ai precedenti récits dello stesso ciclo narrativo, come sottolinea Gasparini: «Même s’il paraît fortuit, le rappel de textes antérieurs tend à brouiller les distinctions entre protagoniste, auteur et narrateur» (GASPARINI, 2004:117).
All’interno del ciclo di Adrien Zograffi, questa strategia narrativa è evidente soprattutto nella sezione La Jeunesse d’Adrien Zograffi. Nel primo récit, Codine, il racconto in prima persona è affidato ad Adrien, l’alter ego dell’autore da bambino; nel racconto successivo, Mikhaïl, vi è un narratore anonimo che descrive l’incontro e l’inizio dell’amicizia fra Adrien e Mikhaïl, con frequenti riferimenti a situazioni e personaggi rievocati in Codine. Infine, in Mes départs il narratore si chiama proprio Panaït, come lo scrittore, ed afferma di aver redatto i due racconti precedenti sulla base di ricordi personali, di esperienze vissute nella prima parte della sua vita.
Questa fusione-confusione fra autore, narratore e personaggio principale, assieme ai continui riferimenti intertestuali ad altri récits dello stesso ciclo, sono necessari per assicurare la coesione interna di questa sezione del ciclo, La Jeunesse d’Adrien Zograffi, e in particolare del racconto Mes départs, come sottolinea Gasparini: «Adrien n’apparaissant pas dans Mes départs, la cohésion de la série ne peut être sauvegardée que par le jeu de l’intertextualité interne qui autorise à le confondre avec Panaït» (GASPARINI, 2004:117-118). Del resto, gli elementi autobiografici sono una costante nell’opera di Istrati e per il lettore è inevitabile cercare dei nessi fra i vari racconti, individuarne le costanti e le variazioni. Più difficile è invece distinguere il narratore dall’autore e dal protagonista, poiché essi hanno vissuto le medesime vicende esistenziali, hanno percorso le stesse rotte marittime e le stesse strade polverose, hanno in maniera identica sperimentato l’esilio e la nostalgia del proprio paese.
Erranza ed esilio sono un tema centrale nell’opera di Istrati, come pure la necessità di rappresentare e di accordare la parola ai marginali e agli oppressi. La narrazione dell’esilio, proprio e altrui, è particolarmente significativa in Mes départs, nel quale l’esperienza degli esuli è vissuta in maniera negativa e traumatica. È l’esilio delle strade di Braïla, dei tanti stranieri che vivono e lavorano nei suoi quartieri cosmopoliti, spesso guardati con diffidenza dalla popolazione locale, ma è anche l’esilio miserabile di Panaït a Napoli, la solitudine e la sofferenza atroce patite. In questo racconto autobiografico, l’esilio implica sofferenza e rifiuto ed assume diverse forme: esilio linguistico, esilio culturale e soprattutto esilio sociale. Soltanto in un secondo tempo, dopo i ripetuti soggiorni in Francia e in Svizzera, lo scrittore rumeno conoscerà anche gli aspetti positivi dell’esilio, le opportunità di riscatto sociale e di arricchimento culturale che esso può offrire. In un certo senso, l’esilio rappresenta per lui una sorta di nuova nascita, una rinascita culturale e umana in un’altra lingua e in un altro paese, come sottolinea Rosanna Gorris Camos, ricordando come lo stesso pseudonimo prescelto da Gherasim Istrati sia proprio Panaït, «synonyme d’une nouvelle naissance»15. Inoltre, l’esperienza dell’esilio offre ad Istrati l’opportunità di approfondire il suo interesse per le relazioni umane e di assecondare la sua innata propensione alla deambulazione, al dinamismo e ai viaggi.
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Note
↑ 1 Cf. F. Mathieu, Istrati, le «frère des bannis et des étrangers», site Internet http://www.humanite.fr/2006-03-23_Cultures_Istrati-le-frere-des-bannis-et-des-etrangers.
↑ 2 Cf. A. Oprea, Panaït Istrati, un chevalier errant moderne, Bucarest, Eminescu, 1973.
↑ 3 Cf. É. Raydon, Panaït Istrati, vagabond de génie, Paris, Les Éditions Municipales, 1968.
↑ 4 Cf. M. Jutrin-Klener, Panaït Istrati, un chardon déraciné : écrivain français, conteur roumain, Paris, Maspero, 1970.
↑ 5 Cf. G. Vanhese, (a cura di), Deux migrants de l’écriture. Panaït Istrati et Felicia Mihali, Rende, Centro Editoriale e Librario Università della Calabria, 2008.
↑ 6 Cf. M. Ghiotto, « Le chantre des vagabonds » : Panaït Istrati romanziere, Tesi di laurea diretta da Rosanna Gorris Camos, Università degli Studi di Verona, Anno Accademico 2006-2007.
↑ 7 Cf. L. Braniste, «Istrati, l'écrivain vagabond des Balkans», site Internet http://www.lexpress.fr/ culture/livre/istrati-l-ecrivain-vagabond-des-balkans_810728.html.
↑ 8 Cf. S. Sacchi, «Uno scrittore nomade: Panaït Istrati», in Figure dell’erranza. Immaginario del percorso nel romanzo francese contemporaneo, a cura di G. Rubino, Roma, Bulzoni, 1991, pp.195-209.
↑ 9 «A CHARLIE CHAPLIN – l’humain "Charlot", que je ne connais que par ses films, je dédie ce film de ma vie. P.I.» (ISTRATI, 2006b: 58).
↑ 10 Questi aspetti sono evidenti in particolare in The Tramp, Charlot vagabondonella versione italiana(noto anche semplicemente come Il vagabondo), film diretto ed interpretato da Chaplin ed uscito per la prima volta nelle sale l’11 aprile del 1915.
↑ 11 Nel linguaggio comune del quartiere Karakioï di Braïla hanno diritto al titolo di capitano tutti i marinai greci che lavorano su di una nave, anche se non sono ufficiali.
↑ 12 V. COLONNA, L’Autofiction. Essai sur la fictionnalisation de soi en Littérature, thèse soutenue en 1989 pour le Doctorat de l’E.H.E.S.S., sous la direction de Gérard Genette, inédite. Disponible in extenso sur le site Internethttp://www.tel.ccsd.cnrs.fr/documents/archives.
↑ 13 V. COLONNA, Autofiction et autres mythomanies littéraires, Auch, Éd. Tristan, 2004. V. COLONNA, «Défense et illustration du roman autobiographique», site Internet http ://www.fabula.org, avril 2004.
↑ 14 S. DOUBROVSKY, Fils, Paris, Galilée, 1977.
↑ 15 R. GORRIS CAMOS, «“Venus d’ailleurs”: Agota Kristof et les autres», in Le goût du roman. La prose française: lire le présent, a cura di M. Majorano, Bari, Graphis, 2002, p. 202.