Sulla difficile costituzione di un corpus di «littérature de banlieue»: l’esempio dei criteri linguistici
Indice
Il criterio della lingua: stato dell’arte della critica
Abstract
Italiano | Inglese | FranceseLa critica riunisce un corpus di romanzi recenti sotto la denominazione di “littérature de banlieue” o di “littérature urbaine”. I criteri utilizzati per delimitare tale corpus sono solitamente di tre ordini: biografico, tematico e più recentemente linguistico o stilistico. Dopo aver esposto rapidamente i problemi che pongono i primi due ordini di criteri, il nostro studio si interessa più da vicino al terzo tipo. L’ipotesi che formuliamo è che gli approcci linguistici e stilistici a questi romanzi detti “urbani” si fondino quasi esclusivamente su lavori centrati sull’argot e che pertanto non prendano in esame le caratteristiche sintattiche essenziali di questi romanzi. L’analisi di alcuni testi rappresentativi di questo corpus “urbano” permette di mettere in evidenza i limiti di un approccio basato sull’argot e di stabilire che le caratteristiche principali di questi testi (minimalismo sintattico, lavoro sul lessico e oralizzazione della lingua letteraria) non permettono di delimitare un corpus unitario sulla base di criteri stilistici, ma, al contrario, li collocano all’interno di una tendenza importante della prosa narrativa attuale.
L’obiettivo di questo articolo è interrogare la pertinenza dei criteri linguistici e stilistici per la composizione e l’unificazione problematica di un corpus particolare, costituito da romanzi pubblicati per la maggior parte dal 2005. Questi testi,1 che sono oggetto di un’intensa ricezione critica, sia accademica sia giornalistica, sono raggruppati sotto diverse etichette tutte più o meno problematiche, spesso messe a distanza con delle virgolette, addirittura contestate dagli autori stessi: letteratura « de banlieue » (ACHOUR 2005) o « des banlieues » (CELLO 2015), « des cités » (HORVATH 2007), « périphérique » (VITALI 2011), « urbaine » (VITALI 2009), o « post-immigration ». Si evince che nessuna di queste etichette è veramente soddisfacente e che solo quest’insoddisfazione sembra trovare un consenso unanime. Tuttavia, la ricezione critica di questi romanzi tende a rendere omogeneo il corpus a partire da due criteri, gli stessi di quelli usati un tempo per definire la « littérature beure »2 (HARGREAVES 1991 et LARONDE 1993): criteri biografici da una parte e tematici dall’altra. Spiegherò in quale misura considero questi due criteri perlomeno insufficienti, ma anche non funzionali, e ancor peggio dubbi e discriminanti. Poi, esaminerò un terzo criterio adottato dalla critica accademica, basato sulla presa in conto dei tratti stilistici e linguistici dei testi.
Prima di entrare nel merito della trattazione, è necessario tornare sulle diverse etichette citate sopra. Per Christiane Achour (2005 : 138), esse pongono tre serie di problemi : identificano le opere con il territorio del quale si suppone siano originari gli autori, che è considerato sia come spazio geografico sia come spazio sociale; generalizzano e uniformano il detto corpus; marginalizzano le opere situandole alla periferia della produzione letteraria legittima. Si può aggiungere che le diverse denominazioni, quando sono utilizzate come sinonimi e senza essere oggetto di precedenti definizioni, ignorano le differenze tra le realtà e/o gli immaginari ai quali si riferiscono (banlieue, cités, périphérie, zone, sub- o périurbain). In definitiva, il problema con queste etichette è quello di ogni studio che, da un lato, ha come oggetto la costruzione discorsiva e immaginaria designata dall’iperonimo banlieue3 e/o, d’altro lato, s’interroga sulle relazioni tra un oggetto linguistico e uno spazio urbano. Philippe Hambye a mostrato come alcuni studi sociolinguistici sul « parler jeune » riprendano la rappresentazione veicolata dal senso comune « tend à superposer les frontières territoriales, sociales et linguistiques » (2008 : 32), mentre « même une observation superficielle des pratiques linguistiques de n’importe quelle banlieue permet de constater que cette idée d’un recouvrement clair entre frontières spatiales et linguistiques ne correspond pas à la réalité. » (34). La designazione di un corpus, linguistico o letterario, con una metafora spaziale naturalizza e fa passare « pour évidentes des catégories comme “le quartier”, “la banlieue”, etc. qui sont autant de constructions sociales. » (39) Si potrebbe formulare l’ipotesi secondo cui queste metafore territoriali portano con sé il rischio d’omologare e marginalizzare gli autori che etichettano, alla stessa maniera di come hanno rappresentato il «ghetto linguistique»4 di cui Hambye mostra gli effetti nefasti (41-42).
Criteri problematici
Riprendo i criteri definitori sopracitati. I primi sono di ordine biografico, sulla scia dei lavori di Hargreaves sulla letteratura detta « beure », per cui sono riunite in un corpus le opere scritte da autori della seconda o terza generazione di origine maghrebina o dell’Africa sub-sahariana, che sono cresciuti e vivono in una « zone urbaine sensible » (ZUS). Il criterio biografico e territoriale è però poco utile: solitamente è considerato come non pertinente in Francia (salvo l’esplicita rivendicazione di alcuni autori, regionali ad esempio,5) perché marginalizza6 all’interno del campo della letteratura francese gli autori che appartengono a pieno titolo al territorio nazionale.7 Il secondo ordine di argomenti preferisce considerare la formazione di un corpus di tali opere a partire dalle loro tematiche principali quali la vita nelle ZUS, e la questione dell’identità e dell’integrazione dei loro abitanti. Nei testi in oggetto si ritrova una certa comunità di esperienze: il fossato intergenerazionale, l’assenza del padre, la disoccupazione, la delinquenza, lo spaccio, la violenza, la tossicomania, l’esperienza in carcere, la frontiera simbolica tra il centro urbano e la periferia, l’importanza dell’ambientazione urbana, la sensazione di prigionia, la separazione tra uomini e donne. Tuttavia, il criterio tematico non è comunque soddisfacente, perché non arriva a eliminare completamente il pregiudizio biografico. Infatti, se alcuni testi di autori come Bon, Daeninckx, Jonquet, Vasset, Rolin o ancora Benchetrit non sono presi in considerazione nella classificazione e non rientrano nel corpus, è proprio perché s’identificano le opere con l’origine geografica ed etica, reale o supposta, degli autori.8 Inoltre, i criteri tematici sono, anch’essi, extra letterari: spingono a leggere opere di finzione come delle testimonianze, dei racconti documentari.9
Un terzo criterio è considerato dalla critica, sia accademica sia giornalistica: quello che verte sullo stile, sulla scrittura o sulla lingua10 dei testi. Questa terza tipologia di criteri merita la nostra attenzione nella misura in cui è spesso invocato dagli autori stessi,11 e anche dalla loro voce narrante, il loro « inscripteur » (MAINGUENEAU 2004 : 107). In effetti, le « productions épilinguistiques »12 occupano uno spazio importante in questi romanzi e disegnano un immaginario della lingua e una poetica. Si tratta così di trovare una lingua particolare per dire la banlieue, nella quale s’iscrivono il corpo e la violenza delle esperienze individuali. Il narratore di Dit Violent, che pratica la boxe,13 traccia un’analogia tra questo sport e la scrittura, tra il corpo all’opera nella boxe e nella lingua:
Les mots, il faut que je les balance comme je balance mes poings et mes jambes sur le ring. […] Des mots qui suintent les nerfs, ceux qui sont gravés sous forme de deux rides entre mes sourcils, ceux qui me rongent le corps au point d’en péter les plombs. (RAZANE 2006 : 11-12)
Si trova la stessa analogia in Djaïdani, con un carattere asintotico : « Le langage a ses limites, il ne sera jamais aussi percutant qu’une pichenette » (DJAÏDANI 2007 : 16). Per alcuni autori il metadiscorso ha una dimensione sociolinguistica. Così in Abreuvons nos sillons, Cissé, il narratore, si ritrova in un’istituzione psichiatrica e rifiuta di parlare, « parce que exprimer la révolte avec leurs mots, c’est pas possible. » (KALI 2008: 104) Si delinea così un’opposizione radicale tra i dominanti, generalmente i Bianchi, che detengono il monopolio del linguaggio legittimo, e il suo stato psichico, che è impossibile rendere con il linguaggio dei dominanti. Da un lato ci sono le loro parole e dall’altro le sue:
En fait, ce qu’ils voulaient à la clinique Jeanne d’Arc, c’était que j’écrive mon histoire afin d’instaurer une cohérence dans les événements de ma foutue vie. En fait, c’est exactement le genre de truc des gens qui croient aux mots, qui aiment les mots. Normal, c’est eux qui les font. Les Blancs font les livres et les dictionnaires et les encyclopédies et les manuels, l’Histoire et les lois. C’est leurs mots. Pas les miens. (KALI 2008 : 112)
Si tratta quindi di modulare la lingua francese, considerata come la lingua dei dominanti, per inserirvi una rivolta, per farne l’equivalente dei colpi di un boxeur. Il rapporto con la lingua non è comunque di netto rifiuto delle parole di coloro che detengono il potere, al contrario, alcuni personaggi come il narratore di Cités à comparaître di Karim Amellal affermano il loro amore per la lingua francese:
J’aimais bien le français pourtant. J’étais gavé de français en vrai mais personne ne le savait. C’est bien pour ça, le rap, ça apprend des mots pour se fritter avec. Pour dépasser les maux aussi. Je suis plus thuné que la moyenne en vocabulaire. (AMELLAL 2006 : 16)
Anche in questo caso, il linguaggio rende possibile l’espressione di un malessere, attraverso l’omofonia abbastanza comune dei mots per superare i maux, ed è percepito come una misura di difesa. In parecchi romanzi si trova questa doppia dimensione di una dichiarazione d’amore per la lingua da una parte e dall’altra di una volontà di sollecitare i codici per esprimere delle esperienze inedite. Ma questa postura, che ricorda quella degli scrittori della Francofonia, si sviluppa qui dall’interno: la lingua francese non è il « butin de guerre » di Kateb Yacine, ma l’oggetto, da parte di scrittori francesi, di processi di singolarizzazione, che è un altro nome per definire lo stile.14
Il criterio della lingua: stato dell’arte della critica
L’attenzione per lo stile, tanto da parte della critica quanto degli autori stessi, differenzierebbe la ‘littérature de banlieue’ dalla ‘littérature beure’: per quest’ultima, il criterio biografico garante dell’autenticità del racconto sostituirebbe quello stilistico (BRINDEAU 2012), mentre la prima si distinguerebbe « par le traitement stylistique des textes et l’exploitation du langage. Les auteurs contemporains ont exaspéré l’usage des emprunts, des xénismes, le goût du verlan, de l’argot, voire de la cyberl@ngue. » (VITALI 2011b: 10). Oltre ad appartenere – tra le altre – alla sfera del letterario, stile è un lemma portatore di un forte valore culturale simbolico,15 poiché l’espressione « avere stile » « proc[ède] d’un jugement esthétique valorisant » (HERSCHBERG-PIERROT 2010). Di fatto, nella critica giornalistica, la nozione di stile e i suoi parasinonimi sono sovente utilizzati con un contenuto semantico vago e danno più spesso luogo a un giudizio di valore16 che a una descrizione stilistica.17 L’uso del concetto di stile, sempre preso in un’accezione ampia,18 si colloca altresì, per una parte militante della critica universitaria, in una strategia di valorizzazione e di legittimazione di una letteratura non canonica. Questo dà luogo a una successione di qualificativi metaforici dal potenziale descrittivo o analitico molto debole in seno a una critica impressionistica e valutativa.19 Ancor peggio, i critici riprendono alcuni stereotipi veicolati dai media: ne è testimone l’uso metaforico del termine métissage,20 anche con connotazione positiva, per qualificare lo stile di questi romanzi,21 preferito a mélange, con connotazione neutra o a hybridation, il cui uso è frequente nelle scienze del linguaggio.
Ma l’interesse per lo stile da parte della critica si accompagna anche, in diversi studi, a una descrizione linguistica o stilistica di testi considerati come appartenenti alla “littérature de banlieue”. Questo approccio linguistico e stilistico è spesso ricco di insegnamenti, ma soffre, come vedremo, di un limite: la maggior parte di questi lavori esaminano la lingua o lo stile22 di questi romanzi rapportandola alla nozione di «français contemporain des cités» (FCC), elaborata dallo specialista dell’argot Jean-Pierre Goudaillier in un libro (Comment tu tchatches! Dictionnaire du français contemporain des cités) che ha riscosso un notevole successo.
Tra i fenomeni maggiormente sottolineati dalla critica, troviamo i prestiti a diverse lingue straniere e a dialetti, come anche strategie di code-switching o alternanza di codici23 (VITALI 2009). All’interno della stessa frase, la voce narrante o quella dei personaggi di questi romanzi possono così alternare diverse lingue. Gli anglicismi costituiscono una parte importante dei prestiti nell’opera degli autori studiati, come anche l’arabo dialettale, soprattutto algerino e marocchino, il romanì e, in misura minore, il wolof o il berbero. Tali fenomeni di prestito o di code-switching sono generalmente analizzati come degli indicatori generazionali per l’inglese o di un’identità multiculturale per le altre lingue, segni di un «parler vernaculaire interethnique où l’on perçoit bien l’osmose de langues et de cultures, fruit de la post-migration» (VITALI 2011: 167). Un secondo tratto caratteristico di questa prosa è costituito sulla presenza importante dell’argot, dal vecchio argot ‘tradizionale’ a quello contemporaneo considerato specifico delle periferie. Un terzo insieme di caratteristiche linguistiche attira particolarmente l’attenzione della critica: si tratta di fenomeni relativi alla morfologia lessicale, e in particolare al verlan, accanto a forme di troncamento (apocopi e aferesi). Questi tre insiemi di fenomeni (prestiti, argot, deformazioni morfologiche), sui quali si focalizza la critica, riguardano tutti il lessico. Si trovano inoltre particolarità relative alla morfologia lessicale più marginali, quali la formazione di sigle, la conversione – come l’uso avverbiale di grave (VITALI 2011: 172) – e costruzioni derivazionali a partire da prestiti dalle lingue straniere (BRICCO 2015). Sul piano tanto lessicale quanto delle figure retoriche, la critica rileva una tendenza frequente all’analogia (metafora e similitudine), come alla metonimia, ma anche – in particolare in Djaïdani e Guène – al calembour, al gioco di parole o al paradosso (ALLAOUI 2010: 150). Gli elementi sintattici descritti come salienti appartengono generalmente alla lingua parlata, quali la negazione semplice con morfema unico e l’elisione del pronome ‘il’ nelle costruzioni impersonali (FRICAN & MERENDET 2010). Infine, ci si richiama spesso alla nozione di ritmo per sottolineare il carattere sincopato di questa prosa, vicina tanto allo slam (ALLAOUI 2010: 155) e al rap quanto al «parler des jeunes de banlieues» (BRICCO 2015: 41). In linea generale, il concetto di ritmo24 è utilizzato nello stesso modo vago e impressionistico come quello di stile in una parte della critica: esso designa un valore, una prossimità tra prosa e poesia, ma è supportato solo raramente da una descrizione prosodica o sintattica.25
I limiti del FCC
Le analisi citate in precedenza si basano soprattutto sui lavori di argotologia: I. Vitali (2015) analizza i testi di fiction del collettivo Qui fait la France? a partire delle tre funzioni (criptica, ludica, identitaria) identificate da Goudaillier (1997) all’interno del FCC e ne attribuisce una quarta, quella iniziatica, all’uso letterario. S. Cello (2011: 202) afferma che «la littérature de banlieue pourrait être considérée comme une première tentative – et peut-être la seule possible – de formalisation de ce langage». Goudaillier (1997) dà conto precisamente dei procedimenti formali esposti in precedenza: prestiti a lingue straniere o al vecchio argot, metafore metonimie, deformazioni dovute al verlan e troncamenti, suffissazioni argotiche e costruzioni con raddoppio per i vezzeggiativi. Aggiunge che questi procedimenti non sono propri al FCC, ma che sono la loro accumulazione e la loro concentrazione a costituire la particolarità di quella che considera un’interlingua o un «parler véhiculaire interethnique». Ora, il volume di Goudaillier è innanzitutto un dizionario, che fornisce peraltro un’analisi formale, soprattutto morfologica, delle unità lessicali censite, ma che rimane pur sempre un repertorio di lemmi che dedica poca attenzione ai fenomeni sintattici. Inoltre, mostrandosi particolarmente sensibile a tutto ciò che si allontana del francese standard e normato, si inserisce in una «propension à spectaculariser le ‘déviant’» (TRIMAILLE 2004: 121) e a descrivere uno stato di lingua a partire da dettagli, fatti quantitaivamente minoritari.26 Infatti, le descrizioni sociolinguistiche che emergono da studi sul campo mostrano che i discorsi mediatici «se complaisent souvent à épingler de prétendues trouvailles ou nouveautés, que ce soit pour les admirer ou pour les déplorer, participant ainsi du stéréotype selon lequel il s’agirait d’une langue ‘autre’, en rupture» (GADET 2017: 27). Infine, la denominazione stessa di «français contemporain des cités» tende a rendere omogenea una realtà complessa e variegata. Analizzare una prosa letteraria attraverso il prisma dell’argotologia di Goudaillier comporta quindi alcuni rischi. Metto subito da parte quello di considerare i romanzi detti «di banlieue» come un calco del FCC, che è un errore generalmente evitato dalla critica. Al contrario, quello della focalizzazione su fenomeni lessicali percepiti come salienti, perché appartengono a un uso non standard della lingua, a scapito di fenomeni linguistici più vicini allo standard ma altrettanto frequenti (se non di più), non sembra essere stato evitato allo stesso modo. Per questo conviene chiedersi quale sia l’importanza reale dei tratti descritti dalla critica e se essi costituiscano effettivamente un criterio capace di dare unità a un corpus.
Breve studio di corpus: elementi lessicali
Sul piano lessicale, si nota la presenza di forme argotiche spesso prese in prestito da un fondo di argot tradizionale e generalmente piuttosto concentrate, come nell’esempio seguente: «Place à la caillasse, à la maille, au pèse, au flouze, aux thunes, au fric, à l’argent, aux pascals, à la monnaie, au blé, aux biftons, à la némo, aux kilos baby!» (RAZANE 2006: 109). La lista di lemmi in argot contribuisce qui alla creazione di un’estetica della profusione lessicale, della copia, più ludica che criptica, per riprendere le categorie di Goudaillier. Ma l’argot può anche esercitare una funzione distintiva, come in Les Gens du Balto di F. Guène, in cui le diverse voci narranti adottano forme linguistiche che corrispondono alla loro età e al loro ambiente sociale. Come Yéna, madre di Taniel, nel cui parlato le espressioni popolari sostituiscono il «parler jeune»:
J’étais aux W.-C. Je démoulais un bronze. Je déposais le bilan, s’il préfère. Voilà ! ça lui va ? Parce que lui, c’est une princesse peut-être ? À croire qu’il va jamais aux chiottes. (GUÈNE 2008: 29-30)
L’argot può mescolarsi ad altri tratti lessicali caratterizzanti, ‘giovani’ o popolari (troncamento lessicale e prestiti), raggruppati nella citazione seguente di Djaïdani:
Aziz, lui, c’est tout le contraire, il part vivre chez des meufs. Il faut dire, c’est un beau gosse, ça aide pour la baise, surtout si en plus ça lui rapporte des pépettes. Le biz, c’est son nerf de guerre. Gigolo, mon brother? Peut-être. Il fut un temps où il était dealeur, mais il s’est rangé, dealer c’est du bénéf sur terre, mais ça se paye toujours en enfer. (DJAÏDANI 1999 : 12)
Ma il procedimento più emblematico tanto per la critica quanto per il senso comune rimane la deformazione morfolessicale legata al verlan. Tuttavia, sembra che il ricorso al verlan in questi romanzi rimanga un fenomeno circoscritto27 e soprattutto ambivalente. Il lemma in verlan è spesso oggetto di una glossa esplicativa, di una traduzione in francese standard tra parentesi, tra trattini o in nota (AMELLAL 2006). Alcuni autori praticano spesso la ripetizione,28 o l’enumerazione di sinonimi,29 che svolgono anch’essi la funzione di equivalenti traduttivi tra argot, verlan e francese standard. In questo modo il verlan si libera della funzione criptica che gli viene generalmente attribuita. Lo stesso fenomeno tocca i prestiti alle lingue straniere: si trovano anglicismi come nell’esempio precedente, prestiti alle lingue ereditate30 (arabo dialettale) o al romanì,31 ma in misura piuttosto limitata, e circoscritti generalmente a un corpus di termini diffusi nell’uso comune.32 Bisogna infine aggiungere i fenomeni di conversione lessicale, in particolare i casi di uso avverbiale degli aggettivi:
Mes mots, j’ai toujours eu envie de les lâcher sur une feuille pour écrire des chansons. Dans la cité poète ça se dit rappeur. Et sortir des paroles avec des rimes et de la déprime ça fait grave kiffer les meufs. Mais j’avais pas toujours la mélodie du style. (AMELLAL 2006 : 16)
L’aggettivo grave usato frequentemente come avverbio si allontana dal suo senso standard e diventa indicatore di alto grado di intensità. Il cambiamento di categoria grammaticale può essere accompagnato dalla deformazione legata al verlan e quindi aggiungere nuovi significati alla parola. L’esempio seguente concentra più tratti stilistici (apocopi, derivazione lessicale e uso metaforico, argot, verlan, conversione) descritti fino ad ora.33
Après, on s’est fait un ciné, on a vu le Dracula de Coppola. Je l’ai tâtée vénère ! Elle était trop bonne ! Je l’ai languée, pépère. J’ai mis ma main dans son soutif. Mon pote, elle a de gros einsses. (SANÉ 2006: 16)
Questi fenomeni di reinvestimento attraverso la conversione, la conversione e l’uso di certi termini - argotici o no - in un senso diverso dal loro uso standard sono fenomeni caratteristici del VUC, fecondi a livello semantico, ma che un approccio basato sulle analisi di Goudaillier tende a trascurare. È anche il caso di indicatori discorsivi di routine molto frequenti nel francese parlato (qui genere e stile), che funzionano talvolta quasi come introduttori di discorso indiretto e che contribuiscono quindi a creare un effetto di oralità in questi romanzi:
Aussi, il a besoin d’avoir un endroit particulier pour les choses importantes, genre, il a un tiroir qui déborde de piles dans sa commode. […]
Elle nous sort des discours féministes, style, elle fait ce qu’elle veut, c’est une femme libre. (GUÈNE 2008: 20-21 et 15)
Allo stesso modo, se Goudaillier include la metafora e la metonimia tra i suoi procedimenti FCC, lo studioso non si interessa affatto a un fenomeno diffuso del VUC, presente nella prosa di più romanzi detti «de banlieue»: il ricorso a usi metaforici lessicalizzati (saouler, cramer, serrer, gérer o calculer quelqu’un) o a neologismi semantici (languer in Sané). In ultima analisi, il FCC, da un lato non permette di descrivere forme comunque rappresentative della lingua di questi romanzi, dall’altro mette in evidenza dei procedimenti morfologici di debole intensità e la cui salienza tiene probabilmente al fatto che rispondono a un orizzonte di attesa critico. Il verlan, i prestiti alle lingue straniere e il troncamento non sono propri di un VUC né in diacronia (non sono nuovi), né in sincronia (già nel 1997 Méla considerava il verlan come un fenomeno caratteristico delle banlieues del nord e nord-est parigini che aveva studiato), ma corrispondono all’idea che il senso comune si fa di una lingua ‘meticciata’ o ‘maltrattata’ (secondo che la si consideri con favore o con diffidenza). In altre parole, queste forme esistono ma se sono analizzate aldilà del loro significato e della loro importanza a livello quantitativo, è perché coincidono con un immaginario e «un objet linguistique médiatiquement identifié» (BOYER 1997).
Elementi sintattici
A livello sintattico, si ritrovano certamente i tratti già analizzati dalla critica, quali la negazione a morfema unico, talvolta raddoppiato da altri indicatori di oralità come la soppressione della congiunzione pura e la grafia y del pronome impersonale,34 e/o del VUC quale grave usato come avverbio intensificatore: «Paraît y a de la femme, grave mortel» (DJAÏDANI 1999: 29). Se la congiunzione que può sparire, può anche essere aggiunta a una citazione in un’incisa per creare un effetto di lingua popolare ‘tradizionale’: «’On salue Léa !’ qu’il lui fait l’autre. ‘Croise les doigts pour papa !’ qu’il rajoute Didier» (GUÈNE 2008: 40). Oppure: «Il est comme nous, Rivoire, que j’ai murmuré» (KALI 2008: 15). Questi indicatori di stile parlato e di stile popolare non sono quindi né nuovi né propri di questi romanzi. È anche il caso di un altro fenomeno sintattico abbastanza frequente, la tematizzazione, che si manifesta innanzitutto con la dislocazione a sinistra:
Alors un jour, le barbu, il a dû se rendre compte que ça servait à rien d’essayer avec ma mère et il s’est cassé. […]
Cette meuf, on dirait qu’elle a besoin d’être heureuse à la place des autres. […]
De toute façon, les profs, ils s’en foutent des devoirs. (GUÈNE 2004: 10, 17 et 26)
Nella maggior parte dei casi, l’elemento dislocato è il soggetto della frase; questo può essere ripreso da un pronome dal contenuto indistinto, in una struttura che può anche essere analizzata come una presentativa:
Rivoire, c’est le directeur de la prison Notre-Dame. […] Le jury, c’est nous. […] Et Rivoire, c’est l’accusé. […] Moktar, c’est un barbu. (KALI 2008: 8-9)
La dislocazione a sinistra, soprattutto in queste costruzioni abbastanza semplici, può funzionare come un indicatore di oralità, ma non necessariamente di uno stile popolare (può anche essere richiesta nell’ambito di una sintassi oratoria per esempio). In ultima analisi, gli stilemi di lingua parlata, gli indicatori di una sintassi dell’orale, a cui si riduce talvolta la prosa di questi romanzi, non sono così numerosi. Inoltre, questi co-occorrono con forme particolari allo scritto come la tendenza all’accumulazione di costituenti a sinistra e, in particolare, di participi anteposti in testa di frase, che appartengono quasi esclusivamente allo scritto (BLANCHE-BENVENISTE 1997: 60).
In un’intervista per il sito fluctuat.net, il direttore della collezione Exprim’ della casa editrice Sarbacane, Tibo Bérard, afferma riguardo i testi che pubblica: «c’est une littérature qui est davantage dans la truculence que dans la sobriété, par opposition à ce qu’on appelle les écritures blanches en France.»35
Tuttavia, senza entrare nella questione spinosa delle écritures blanches, non gli si può dare ragione.36 Infatti, la prosa di questi romanzi non è tanto caratterizzata da qualche indicatore di oralità, quanto piuttosto da una grande linearità o semplicità, persino banalità, sintattica,37 molto più vicino a una scrittura ‘plate’ (Ernaux) o ‘bianca’, che alla truculenza di Michon, per esempio. Osserviamo un estratto di un testo pubblicato da Sarbacane:
On a pris le bus à la Chapelle. C’était le tout nouvel engin de la RATP, sans tags et sans graffitis, propre et beau comme un sou neuf. Les ingénieurs de Renault avaient vraiment fait du bon boulot. L’Agora était spacieux et confortable, il avait de la gueule. Larges vitre, pot catalytique, direction assistée, boîte de vitesse automatique, moteur de deux cent quarante chevaux mais bridé à soixante-quinze kilomètres heure. (SANÉ 2006: 26)
Elles ont commencé à pouffer de rire. Des petits rires mauvais, étouffés. J’ai regardé Maman. Apparemment, elle n’avait rien entendu. Elle s’était concentrée sur une pochette de 45 tours de Michel Sardou. Sur la photo, il avait une grosse touffe quand même. (GUÈNE 2004: 113-114)
A livello sintattico, come succede spesso in questi testi, predominano la frase semplice, canonica, talvolta avverbiale, o le proposizioni giustapposte che si avvicinano alla paratassi. La preferenza accordata alla frase canonica è in realtà un fenomeno sintattico quantitativamente più importante degli indicatori un po’ aleatori di oralità. Un secondo fenomeno diffuso consiste nel ricorso quasi sistematico a verbi ‘incolore’ (essere, avere, dire) suscettibili di costituire dei poliptoti:
Je connaissais Prince depuis la sixième, nous étions tous les deux au collège Voltaire. Prince habitait aux Chardonnerets et moi aux Rosiers. Il était dans la bande de son quartier et moi dans celle de ma cité. Nous deux bandes étaient parfois rivales mais, comme mon grand frère et le chef de l’autre camp étaient de bons amis, nos querelles ne débordaient jamais excessivement. Pour Prince et moi, c’était une toute autre histoire. (SANÉ 2006: 45, sottolineatura nostra)
Le terrain vague, c’est aussi le territoire de Doum, alias Mamadou, un gamin sapé par Adidas des pieds à la tête avec des fringues tombées du camion et refourguées par Pass à cinquante pour cent. C’est le spécialiste du passement de jambes, le docteur ès footballistique du quartier. À quinze ans, il est incollable question foot et pas la peine de le brancher sur un autre sujet, sa tête est un territoire occupé par le ballon. (RAZANE 2006: 120-121, sottolineatura nostra)
Alla frequenza elevata del verbo essere, bisogna aggiungere- come lo mostrano i due ultimi estratti- le numerose costruzioni presentative che creano talvolta un effetto di litania:
Un jour j’ai appelé ma mère. Je sais pas ce qui m’a pris. Mais bon c’est ma mère quand même. Même si c’est une pute et qu’à la base, c’est à cause d’elle que je suis là. Contrairement à ce qu’ils racontaient Bruce et Steven, je lui devais rien à ma mère. Mais un coup de fil c’était pas la mort après tout. (AMELLAL 2006: 103)
Un quarto fenomeno grammaticale ricorrente, proprio di una parte significativa della prosa narrativa di questi ultimi decenni, è la sostituzione del passato remoto con l’alternanza tra imperfetto e passato prossimo. Infine, occorre menzionare tutto ciò che riguarda le manifestazioni fraseologiche (collocazioni, cliché di stile e espressioni idiomatiche):
Tout en marchant, je songeais que cette ville m’avait marqué de son empreinte. Il me semblait ne rien connaître aussi bien que ses rues, ses trottoirs, ses murs, ses tags, ses graffitis, ses tours, ses quartiers, son marché aux puces et ses terrains de sport. Aucune de ses légendes, de ses petites histoires et aucun de ses faits divers n’avait de secrets pour moi. (SANÉ 2006: 47)
In questo estratto, le espressioni in corsivo oscillano tra la collocazione, intesa in senso ampio come «des mots qui tendent à apparaître ensemble» (TUTIN & GROSSMANN 2002: 8) e il cliché di stile, più coeso. La prosa di questi romanzi è quindi impreziosita da forme più o meno idiomatiche, che emanano da un déjà dit.
Conclusione
Si può trarre qualche insegnamento da questa panoramica per forza incompleta. Innanzitutto, focalizzandosi sul non normato, gli studi stilistici e linguistici tralasciano il fatto che la ‘dominante’ di questa prosa narrativa risieda più nell’ ‘iperstandard’ (sintassi semplice, ricorso alla fraseologia e ripetizione lessicale) che nell’invenzione lessicale e la torsione sintattica. In seguito, gli elementi morfolessicali analizzati dalla critica sono poco rappresentati; non sono abbastanza concentrati e ricorrenti per rappresentare una caratteristica stilistica dell’’urbain contemporain’, eccetto che nei discorsi di alcuni personaggi, cioè nell’imitazione di una parlata che si trova solo in minima parte nelle voci narrative. Questi indicatori per di più devono la loro salienza al fatto che coincidono con un orizzonte di attesa particolare. Inoltre, ed è il problema principale, questi criteri linguistici o stilistici non sono presenti in tutti i testi studiati38 come rappresentativi di una littérature de banlieue. Infine, esistono procedimenti o tendenze che caratterizzano uno o qualche autore e non permettono, quindi, di generalizzare all’insieme del corpus. Si veda ad esempio il caso di un fenomeno comunque considerato come saliente nella cultura di strada fin dai lavori pionieri di sociolinguistica (LABOV 1972) o di antropologia (LEPOUTRE 1997): «le recours à l’intensité», cioè «un mode d’expression marqué par l’intensité, l’exagération, l’exubérance et la mise en scène» (GADET 2017: 49). Lo si trova, principalmente attraverso l’uso dell’iperbole, in Amellal e, meno sistematicamente, in Djaïdani et Guène, ma rimane a livello di stilemi di singoli autori. Così come il gusto per la paronomasia, preponderante in Djaïdani, e condiviso da Razane e Amellal, ma che non si diffonde altrove.
In conclusione, si azzarderanno due constatazioni. In primo luogo, questi testi, a livello stilistico, devono essere considerati su un continuum biassiale: il primo asse va da un polo di forte caratterizzazione di VUC a un polo debolmente o non caratterizzato, mentre il secondo asse si scagliona dall’inventività lessicale, metaforica e, in minor misura, prosodica, a una scrittura ‘plate’, dalla sintassi semplice e dal forte grado di idiomaticità. In secondo luogo, i tratti stilistici più condivisi (riduzione sintattica, lavoro sul lessico, colorazione diffusa dello scritto con la lingua parlata), lungi da costituire una littérature de banlieue, sono caratteristici di una parte importante della prosa narrativa francese contemporanea,39 la più centrale parigina che ci sia (Angot, Darrieussecq, Despentes per esempio). In questo modo si potranno considerare altri raggruppamenti, non territoriali, per costruire un corpus stilistico.
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Note
↑ 1 Rimandiamo alla bibliografia. Si tratta di un «meta-corpus» in quanto è costituito a partire da studi critici: sono quindi considerate opere che sono state studiate come facenti parte della « littérature de banlieue ».
↑ 2 Per una critica documentata di questi due criteri, vedi Quarta (2011).
↑ 3 Cfr. per esempio S. Tissot (2005) che analizza la maniera in cui il modello descrittivo dell’«esclusione» promosso da A. Touraine s’impone a partire dalla fine degli anni 1980 nell’analisi che fanno i poteri pubblici di quel che chiamano i «quartieri sensibili» e ne esamina le conseguenze per le « politiche della città ».
↑ 4 Cfr. per esempio Bentollila (2007), ma anche Goudaillier (1997: 8).
↑ 5 Non è assolutamente il caso qui. L. Reeck (2011: 12-13) insiste sul fatto che M. Razane e R. Djaïdani rivendicano il carattere universale della loro azione e si sono spesso opposti a une relegazione in uno spazio periferico e non autorizzato.
↑ 6 E. Bricco (2015 : 35 e seg.) sottolinea questo malinteso nella ricezione critica dell’opera di Djaïdani, mentre L. Brindeau s’interroga : « Ne risque-t-on pas de reproduire une certaine hiérarchisation si l’on singularise encore de nos jours cette littérature sur la base des origines de ses auteurs et de ses thématiques ? » (2012 : 236).
↑ 7 Cfr. la reazione di Tassadit Imache quando il suo primo romanzo è posizionato nello scaffale Maghreb – Medio-Oriente delle librerie e che è « accueillie partout dans [s]on propre pays en qualité d’auteur de la francophonie intérieure » (IMACHE 2001 : 51).
↑ 8 Su questo punto, non condivido affatto l’ottimismo di E. Quarta quando ritiene che, con il passaggio dall’etichetta « beure » alle denominazioni « urbaines » o « de banlieue », « la référence aux origines des auteurs est oubliée et l’accent est mis sur le contenu des œuvres, qui se caractérisent par la présence permanente de la banlieue et du milieu urbain périphérique comme décor fondamental. » (2011 : 126)
↑ 9 L. Reeck, che talvolta è prossima a una lettura biografica e documentaria di questi testi, comunque lo ammette: « But it would be a mistake to read the novel simply as documentary of the banlieues. » (2011 : 151)
↑ 10 I tre termini non sono evidentemente sinonimi, ma in un’accezione ristretta particolare, e talvolta vaga, sono utilizzati come quasi-sinonimi dalla critica letteraria.
↑ 11 Così, in un’intervista con I. Vitali, K. Amellal e M. Razane, membri del collettivo Qui fait la France ?, insistono entrambi sull’importanza dello stile, prova di autenticità e di fedeltà al reale, ma anche vettore di creatività (cfr. VITALI 2010 : 126-128).
↑ 12 Tratto da Culioli, il concetto di « productions épilinguistiques » sviluppato da C. Canut comprende attività scientifiche e istintive, poiché ricopre « à la fois les discours métalinguistiques au sens strict […] et les discours évaluateurs spontanés des locuteurs » (CANUT 1998 : 70).
↑ 13 L. Reeck parla a questo proposito di « boxing aesthetics » (2011 : 153).
↑ 14 Si veda Jenny (1993).
↑ 15 Come mostra É. Bordas a proposito dei molteplici usi della parola stile: « Le style se mérite et se recherche, il est une valeur.» (BORDAS 2008: 15)
↑ 16 Eccezion fatta per P. Marcelle a proposito di Boumkœur in Libération (15 aprile 1999) e per F. Taillander a proposito di Kiffe kiffe demain ne L’Humanité (24 février 2005), questo giudizio è elogiativo.
↑ 17 « De manière générale, scrive C. Wionet, il s’agit de dessiner un large spectre des nouveautés de cette littérature, spectre axiologique qui va de la fraîcheur à la force de la création. » (WIONET 2010: 126)
↑ 18 Accezione ampia, o vaga e imprecisa, che è – come ha mostrato Bordas – intrinseca al lemma stesso (BORDAS 2008: 11).
↑ 19 Mi limiterò qui a citarne alcuni esempi. A proposito del volume collettivo Chroniques d’une société annoncée : « En ouvrant ce livre à n’importe quelle nouvelle, on constate que l’écriture narrative et descriptive est vive, savoureuse et énergique, tout en nuances et en subtilités. » (REDOUANE 2012: 22) Sulla prosa di Rachid Djaïdani : « Et c’est toujours dans un style aérien et plein de panache où l’humour côtoie le pathos que son héros ambitionne d’être. » (SELLAH 2012: 150) Su Dit Violent di Mohamed Razane : « Le langage est complexe, violent, innovant, les phrases stylisées, le lexique brutal, mais le style est aussi poétique faisant alterner violence et poésie au cœur du texte. » (LE BRETON 2012: 258) Nessuna descrizione viene a supportare qui ciò che l’autore intende con linguaggio «innovativo» o «frasi stilizzate»; allo stesso modo, l’uso del concetto di poesia, che si contrappone stranamente alla violenza, sembra aver maggiormente a che fare con una concezione assiologica, in cui la “poesia” è una questione di contenuti e di valori piuttosto che di forme e di generi discorsivi.
↑ 20 In un altro registro, M. Gasquet-Cyrus (2003) rimprovera alla sociolinguistica il suo uso talvolta improprio dei concetti di métissage e mixité.
↑ 21 N. Redouane afferma che la scrittura di M. Razane « est neuve en ce qu’elle porte en elle la trace d’un métissage stylistique et de genres » (2012: 46), mentre M. Le Breton parla di « métissage de styles et de genres » (2012: 253).
↑ 22 È forse opportuno distinguere qui due nozioni: gli studi linguistici si concentrano sulla descrizione della lingua, mentre gli studi stilistici vertono sullo stile – inteso come risultato di un lavoro intenzionale di stilizzazione, di singolarizzazione della lingua. Se il termine lingua è utilizzato più spesso dagli autori, mi sembra in realtà preferibile parlare di stile. I fenomeni che descriveremo, se possono presentare punti di convergenza con il «parler des jeunes urbains» (PJU), il «français contemporain des cités» (FCC) o il «vernaculaire urbain contenporain» (VUC) – tornerò più avanti su queste denominazioni – sono il risultato di un lavoro di rappresentazione e stilizzazione e costituiscono quindi degli effetti del «vernaculaire urbain».
↑ 23 In realtà si dovrebbe parlare piuttosto di code-mixing dato che l’alternanza tra due lingue si produce più spesso all’interno di una stessa frase, in una forma di sovrapposizione dei due codici.
↑ 24 Sulla difficoltà che pone questo «mot (banalisé)» di ritmo che, negli usi profani o scientifici, «tend à remplacer le concept (incertain)», si veda Bordas (2003).
↑ 25 Vitali (2011: 175) nota tuttavia in Djaïdani la presenza di versi nascosti o fusi nella prosa, in particolare ottosillabi, versi per eccellenza del rap, come anche una tendenza massiccia all’uso della paronomasia.
↑ 26 M. Azanneau (2007 et 2009) mostra, sulla base dei risultati di un’indagine sulle pratiche linguistiche dei giovani stagisti in formazione continua nell’Île-de-France, che la maggior parte delle interazioni avviene in francese standard e che la proporzione di forme linguistiche emblematiche dei gruppi di giovani pari è debole, generalmente confinata a interazioni tra stagisti nelle quali dominano o la complicità o il conflitto. Così l’idea di una «langue des cités» sarebbe più un mito che una realtà linguistica. Anche F. Gadet ritiene che «la notion de ‘parlers jeunes’ semble […] se dérober quand on en cherche les manifestations purement linguistiques» poiché «[i]l s’avère que beaucoup de traits supposés [la] singulariser se rencontrent aussi chez d’autres locuteurs.»(2017 : 43). Se persistono diverse denominazioni, quella di «vernaculaire urbain contemporain» (VUC) proposta da Gadet (2017) ci sembra preferibile: la studiosa afferma che si tratta di una lingua di base e dà conto del suo luogo di origine (la città) senza ricorrere a distinzioni territoriali, che ricoprono in realtà categorie sociali ed etniche.
↑ 27 Piuttosto raro, il verlan riguarda principalmente termini entrati nell’uso comune, quasi lessicalizzati nella lingua parlata (meuf, chelou, keuf, ouf, ecc.). La prosa di questi romanzi è in questo piuttosto conforme alle osservazioni emerse da uno studio sociolinguistico già datato che constata che il tasso di parole ‘verlanizzate’ supera raramente il dieci per cento, anche in un discorso molto denso (MÉLA 1997: 30). Studi più recenti non rilevano un uso maggiore del verlan, ma constatano la stabilità su più di due decenni di questo procedimento, che non è particolare al VUC (AZANNEAU 2009: 882).
↑ 28 «Du chinois. Du noich.» (GUÈNE 2004: 158)
↑ 29 «Mon Daron, mon reup, mon père, a vite fait de criser : cinq ans de chomedu au palmarès.» (DJAÏDANI 1999: 10)
↑ 30 F. Gadet (2017: 30, segg.) preferisce parlare di «langues d’héritage» piuttosto che di «langues d’origine» poiché i giovani parlanti studiati possono accettare questa eredità (e trovarsi in situazione di bilinguismo) o rifiutarla (e non parlare la lingua ereditata). Il bilinguismo è spesso più o meno completo, solitamente molto parziale.
↑ 31 Lo status del romanì è particolare poiché né gli autori, né i personaggi lo parlano. Questo fenomeno è osservato anche dagli autori di uno studio sul campo (E. GUERIN e S. WACHS in GADET 2017: 119).
↑ 32 Quali hchouma, toubab, haâlouf, chourave, beslama, walou, poucave, chourave, roumis, gadjo. Contrariamente a quanto afferma I. Vitali, non si tratta di xenismi, nella misura in cui essi non corrispondono all’importazione di un significato sconosciuto alla lingua francese.
↑ 33 Come succede spesso, la maggior parte degli indicatori linguistici del VUC sono concentrati nei discorsi in stile diretto dei personaggi. Ciò mostra bene che si tratta di un effetto, del risultato di un processo stilistico (si veda ad esempio DJAÏDANI 2004: 49).
↑ 34 «Y a que celles qui ont une gueule quasi parfaite qui peuvent se passer de crinière.» (TALMATS 2002: 13)
↑ 35 Citato da Vitali (2011: 10): l’intervista non è più disponibile online.
↑ 36 Se si omettono due casi particolari: l’invenzione lessicale, l’innovazione metaforica e la pratica intensa del calembour sono caratteristici della prosa di R. Djaïdani e, in misura minore, di quella di F. Guène.
↑ 37 Wionet (2010: 124) parla di una «prose atonale, sans reliefs, fabriquée notamment par des phrases du tout venant».
↑ 38 Ne è un esempio Le Nègre de Marianne de Madjid Talmats (2002), che presenta solo pochi tratti di una sintassi orale, qualche apocope e termine argotico, così come La Petite cité dans la prairie de R. Santaki; Le Poids d’une âme de Mabrouck Rachedi (2006), la cui narrazione è alla terza persona con variazioni di focalizzazione e la cui prosa si caratterizza soprattutto per la presenza di forme molto scritte, come l’accumulo di costituenti dislocati in testa di frase; Zone cinglée di Kaoutar Harchi (2009) in cui gli indicatori di oralità sono presenti solo nel discorso diretto dei personaggi.
↑ 39 Cfr. Piat (2011) che identifica un «retour au lexique» e un «moment énonciatif» tra le altre tendenze della prosa letteraria contemporanea.