La narrazione delle « banlieues »: tra percezione del margine e impegno letterario
Indice
Dall’urbanizzazione delle “banlieues” ai “quartieri sensibili”
Verso un’immagine distopica della città
Abstract
Italiano | IngleseNegli ultimi decenni, all'interno delle periferie, non solo in Europa ma anche nel resto del mondo, sembra prodursi un arresto della funzione socializzante. Ci troviamo dinanzi alla presenza di una nuova “questione urbana”: la periferia stenta a raggiungere un'autentica integrazione sia al suo interno sia con la città, differenziandosi come margine avulso. Tuttavia, da queste banlieue apparentemente marginalizzate e “senza voce” emergono testimonianze letterarie. L’articolo si propone di analizzare le specificità francesi attraverso l’analisi di alcuni romanzi pubblicati un anno dopo le violente sommosse urbane del 2005 e definiti dalla critica francese “letteratura delle banlieue”, delle “cités” o “urbana”. Ci si prefigge di ripensare la questione dell’impegno letterario oggi, attraverso la nozione di “finzioni critiche”.
Nell’introduzione del suo ultimo saggio, Periferie da problema a risorsa (FERRAROTTI e MACIOTI 2009), Khaled Fouad Allam ci esortava a considerare l’evidente situazione in cui vertono le periferie oggigiorno come una conseguenza del brusco arresto della funzione socializzatrice. Secondo il sociologo, la crisi delle periferie troverebbe le sue radici non solo nella secessione urbana e nell’incremento di forme violente di comportamento, ma anche nella perdita d’identità da parte degli abitanti. Quest’ultima sarebbe il riflesso di una crescente solitudine in un ambiente, nel quale, con il passare degli anni, i legami umani si sono impoveriti e spezzati. Egli insiste, pertanto, sulla presenza di una nuova “questione urbana” nella quale la periferia europea, così come quella mondiale, è diventata un margine desolidarizzato nel quale l’integrazione stenta a compiersi fino a creare delle gated communities.
In tale scenario europeo troviamo le banlieue francesi. Negli ultimi trent’anni tale termine ha designato sempre più l’iscrizione territoriale di un’ampia questione sociale come nota, a sua volta, la storica francese Annie Fourcaut (2006).
La nostra riflessione prenderà in esame la rappresentazione romanzesca di questi luoghi al margine e marginalizzati di oggi. Come presupposto iniziale, poniamo che la situazione di disagio giovanile culminata nelle celebri rivolte scaturite nella periferia parigina nel 2005, costituisce il terreno che ha favorito la produzione di una letteratura emergente definita dalla critica francese come “letteratura delle banlieue” delle “cités” o “urbana” (CHAULET ACHOUR 2005; CELLO 2015; HORVATH 2007; VITALI 2011; REECK 2011).
Al fine di fornire un quadro esplicativo all’analisi che seguirà, porremo l’attenzione dapprima sul percorso di urbanizzazione di questi territori, dalla loro costituzione nel dopoguerra fino alla definizione odierna di “quartieri sensibili”. In un secondo momento analizzeremo alcuni romanzi pubblicati un anno dopo i drammatici episodi citati, tra cui Cités à comparaître (K. AMELLAL 2006), Dembo story (D. GOUMANE 2006), Du rêve pour les oufs (F. GUÈNE 2006), Dit violent (M. RAZANE 2006), Banlieue noire (T. RYAM 2006) e Banlieue Voltaire (D. MANDIN 2006).
La scelta di questo corpus è dettata dalla peculiare presa in esame delle problematiche legate al territorio e ai suoi abitanti. Ci interessa esaminare, infatti, la percezione del margine da parte di giovani protagonisti, per affrontare, in seguito, la critica della marginalità denunciata dai giovani scrittori iscritta come parte di un generale ritorno all’impegno letterario che si legge nella narrativa francese contemporanea.
Dall’urbanizzazione delle “banlieues” ai “quartieri sensibili”
Bisogna innanzitutto considerare che nell’opinione francese corrente il termine banlieue si presta a notevoli interpretazioni tra le quali: quartiere sensibile, cité, ghetto e altre, componendo così una vera nebulosa. In voga nei dibattiti mediatici e politici, in particolar modo dopo i primi moti degli anni Novanta fino ad arrivare ai giorni nostri, passando dai violenti tumulti del 2005, tale termine racchiude intorno a sé e alla gioventù che vi abita, le connotazioni più controverse e peggiorative.
Infatti, la retorica e le rappresentazioni legate alle cité (intese come un insieme d’immobili dalle caratteristiche omogenee da un punto di vista non solo architettonico, ma anche socio-economico all’interno di un tessuto urbano degradato, i cosiddetti Grands-Ensembles), sono diventate l’espressione di un malessere definito da sociologi e urbanisti come “epicentro del problema sociale contemporaneo” (H. VIEILLARD BARON 2011).
Tale questione è diventata oramai comune nel dibattito politico e mediatico francese legandosi a crescenti preoccupazioni per i suoi sviluppi negli ambiti più diversi: dalla delinquenza alla cultura di strada, dalla segregazione alle pratiche di estremismo religioso. Come affermano i sociologi Michel Kokoreff e Didier Lapeyronnie, questo termine non può più essere separato dai cliché che trasmette. «Non esiste la banlieue senza le sue immagini stereotipate: immagini e stereotipi che pesano fortemente sulla vita degli abitanti e sulle interpretazioni che quest’ultimi fanno sulle proprie condizioni di vita»1 (M. KOKOREFF, D. LAPEYRONNIE 2013: 16). E ancora: «È diventato impossibile utilizzare termini neutri per designare i quartieri più poveri situati alla periferia delle grandi città, poiché immediatamente, acquisiscono un sovra-significato»2 (M. KOKOREFF, 2007: 86-95).
Negli ultimi trent’anni i media si sono interessati in modo importante agli avvenimenti che hanno coinvolto i quartieri sensibili, tuttavia, la loro storia si traccia dal dopoguerra e coincide con un nuovo modo di vivere, il cui segno è opposto alla percezione odierna. Le cité erano i prodotti del boom economico e rappresentavano, di fatto, la fiducia nell’avvenire e nel progresso. Nel corso degli anni Settanta si è cominciato a mettere in causa non solo la monotonia architettonica dei Grands-Ensembles e il loro isolamento rispetto alle città, ma anche l’anonimato e la depersonalizzazione di tali luoghi. “Il capitalismo non dà casa ai lavoratori, li stocca”, recitava uno slogan del 1968. Per la prima volta ci s’interrogava sul tipo di società che si è sviluppata nelle periferie e su come poter dare un nuovo volto a tali luoghi. La lotta contro la segregazione e a favore della mescolanza sociale diventava un nuovo obiettivo della classe dirigente del Paese.
Negli anni seguenti la storia delle periferie francesi è dominata dalla crisi economica e dal fallimento progressivo del modello d’integrazione. Una serie di squilibri intacca la coesione sociale: se in un primo momento l’alloggio sociale in periferia era considerato come un periodo transitorio per una famiglia, al fine di accedere in seguito a una proprietà più confortevole, in seguito, tale percorso si arresta e la progressione sociale non è più garantita. La situazione di stallo non evolverà più in futuro causando la disgregazione cui assistiamo oggi.
Allo stesso tempo, la legge sul ricongiungimento familiare accelera il processo d’accoglienza nelle case popolari delle famiglie operaie provenienti dal Maghreb e dall’Africa sub-sahariana, accelerando così l’allontanamento delle classi medie da alcuni quartieri periferici.
Proprio in questi anni nascono i termini: “zona sensibile”, “ghetto”, e si sviluppa il dibattito sulla sicurezza dei cittadini nei quartieri “sensibili”.
Gli anni ottanta costituiscono quindi un’epoca di transizione e segnano l’inizio di una doppia presa di coscienza: del fallimento sociale del progetto urbanistico dei Grands ensembles e della complessità sociale di una pluri etnicità crescente, che è in verità una conseguenza logica conseguenza della storia post-coloniale francese difficile da gestire.
Come affermano numerosi sociologi (M. DIKEÇ 2007; M. KOKOREFF e D. LAPEYRONNIE 2013) le condizioni di vita nelle periferie sono peggiorate in modo considerevole con il passare degli anni.
Negli anni Novanta si costituisce una generazione di giovani più eterogenea da un punto di vista delle origini nazionali, che cresce in un ambiente sociale caratterizzato da un insieme di fratture economiche, urbane, politiche che si sono aggravate nel tempo.
Il cambiamento di clima è evidente: siamo ormai lontani dall’ottimismo che caratterizzava le generazioni del dopoguerra, dalla fiducia nella possibilità di un miglioramento e della riuscita economica e sociale. La questione della banlieue s’impone come vero “problema sociale” e nonostante l’adozione di progetti specifici volti alla gestione della “politica della città” e gli ingenti finanziamenti statali che si sono susseguiti, non si è riusciti né a riqualificare le periferie, né a ripristinarvi un minimo equilibrio economico e sociale. Nonostante qualche tentativo di miglioramento attraverso l’abbattimento di numerosi edifici vetusti e l’attuazione di azioni per la riqualificazione urbana, lo Stato non è riuscito a frenare un’evoluzione sociale sfavorevole che si è definitivamente cristallizzata. Tuttavia, non possiamo affermare che tali azioni siano state vane, perché, senza l’enorme sforzo per migliorare la condizione urbana e abitativa delle cité, la situazione sarebbe ancora peggiore.
Il XXI secolo segna l’inizio del trattamento mediatico e sensazionalista delle banlieues. Il dibattito, in questi ultimi anni, sembra focalizzarsi sulla presunta esistenza, sul suolo francese, di veri e propri ghetti. Se da una parte troviamo i favorevoli a questa corrente di pensiero, i quali scorgono dei veri e propri parallelismi con i territori americani (D. LAPEYRONNIE 2008; L. BRONNER 2010), altri si oppongono rimarcando che lo Stato non è scomparso ma che tuttavia non ha potuto frenare l’incatenarsi di un processo di segregazione e di dinamiche che accentuano la paura e che stigmatizzano tali luoghi in zone di Non-droit (L. WACQUANT 2006, R. CASTEL 2007, H.-V. BARON 2011).
Un tale spostamento delle rappresentazioni è indicativo delle difficoltà insite al governo di tali realtà sociali che tuttavia, sono al centro dell’azione pubblica e del dibattito politico da più di tre decenni. Da qui il paradosso: più si parla di quartieri sensibili meno si sa di ciò che in realtà sono.
Siamo convinti che sia in tali luoghi va, al contrario, ricercata una percezione il più possibile, autentica e che questo sia possibile proprio attraverso l’analisi della letteratura delle banlieue. Tale movimento si è manifestato già al termine degli anni Novanta con la produzione del precursore Rachid Djaïdani grazie al suo romanzo Boumkoeur (1999). Con il passare degli anni si stabilizzano due elementi strutturanti questo campo della creazione narrativa: l’origine banlieusarde degli scrittori che è, allo stesso tempo, l’ambiente nel quale si svolge l’azione romanzesca.
È proprio l’immersione nella vita della cité che interessa i lettori, permettendo a questi romanzi di ottenere un notevole successo dal 2006, anno in cui si sviluppa considerevolmente l’edizione di opere di scrittori banlieusards. Tale crescita è ascrivibile alla necessità di proporre nuove immagini della società che vive nelle periferie oltre a quelle veicolate dai media nel 2005. I romanzi narrano storie che mettono in luce le situazioni d’ineguaglianza che vivono i personaggi, e si soffermano sulle difficoltà delle relazioni sociali, la mancanza di prospettive per la gioventù, l’esclusione sociale.
Si tratta di una letteratura che invita i lettori a interrogarsi. Infatti, l’intenzione degli autori, affermata più volte in interviste e discorsi di vario genere, è di fare crollare le logiche e i clichés su cui sono costruite le rappresentazioni mediatiche attraverso l’illustrazione di comportamenti autentici e non mediati “ideologicamente” poiché prossimi al vissuto degli autori stessi.
Leggendo questi romanzi, si può discernere una volontà di rivolta e di testimonianza: presentando la realtà dell’esistenza di coloro i quali si definiscono gli “invisibili” della società francese, gli autori mirano a risvegliare la coscienza dell’opinione pubblica e a renderla sensibile alle condizioni di vita di questi altri cittadini francesi.
Il fil rouge che collega l’insieme dei romanzi, lo abbiamo anticipato, è l’ambiente circostante, gli spazi urbani formati dai grandi immobili popolari nei quali si svolge la maggior parte delle azioni. L’accento è sempre posto sull’isolamento dei quartieri rispetto al centro città e le descrizioni che dipingono con colori grigi e le forme più disparate sono onnipresenti, così come le descrizioni che mettono in luce l’indecenza dei palazzi deteriorati e danneggiati.
Lo spazio diventa l’agente dell’esclusione sociale rendendo concreta la difficoltà di accedere al mondo esterno, aldilà dei muri periferici. Questa percezione della banlieue come spazio chiuso è oggetto di numerosi esempi nel panorama artistico contemporaneo, tra i quali si può citarne il celebre film L’odio di Mathieu Kassoviz (1995). I tre attori affermano, infatti, di sentirsi “rinchiusi fuori” denunciando così la condizione di un’intera generazione che benché possa apparire libera percepisce, al contrario, se stessa come imprigionata, rinchiusa nelle mura immaginarie della periferia. Questa particolare condizione psicologica si ritrova nei romanzi analizzati, nelle cui narrazioni si può individuare una relazione di tipo distopico e oppositiva dei personaggi con lo spazio esterno, secondo relazioni binarie e dicotomiche basate sull’appartenenza “noi/voi”, sullo spazio “dentro/fuori” e sulla luminosità “oscurità/luce”.
Verso un’immagine distopica della città
Dalle opposizioni presentate nei romanzi, si rileva che tra i luoghi scuri, interni e chiusi, si trovano le cantine, situate alla base o nei basamenti delle torri. Quest’ultime costituiscono uno degli scenari più funesti e tragici delle storie poiché si trovano al riparo dagli sguardi esterni e vi si possono perpetrare crimini senza pericolo di essere osservati da occhi indiscreti. È qui che i protagonisti si ritrovano per le ragioni più disparate e dove avvengono gli episodi più nefasti come le violenze sessuali del romanzo Dit violent o lo stoccaggio di merce contraffatta e l’assunzione di stupefacenti di Cités à comparaître.
Il quartiere è altresì paragonato talvolta a una prigione, Ludo il protagonista di Banlieue Voltaire adotta questa immagine di una gabbia chiusa dalla quale non si può uscire. Egli sostiene inoltre l’idea che le cité siano state progettate e create secondo un volere preciso dello Stato. Questa visione ci appare come appartenere a una percezione distopica da parte dei nostri personaggi costituita dalla presenza di una netta separazione tra una presunta città “alta”, ossia il centro città, caratterizzata dalla sua visibilità e luminosità, in opposizione a una città “bassa”, la periferia, lontana non solo da un punto di vista spaziale ma anche metaforico: “E’ la giungla” afferma Foued nel romanzo Du reve pour les oufs, “Quelli in alto, i borghesi, sono i leoni e noi qui siamo delle iene, ci restano solo gli scarti”3 (Du rêve pour les oufs, p.98).
Lo spostamento verso una percezione dello spazio come sinonimo di frattura sociale e la conseguente divisione in gruppi di animali ci è suggerita dal giovane Silou, il quale paragona metaforicamente la sua vita a quella degli animali: “La fauna della periferia mi fa pensare a Jurassic Park, o anche a dei topi che vivono nelle fogne del sottosuolo”4 (Cités à comparaître p.61).
Sono presenti anche denunce che sembrano riprodurre l’opposizione uomo bianco versus uomo nero, come quando il protagonista Sébastien accusa i bianchi di mantenere una “posizione dominante”: “[…] sono loro, in maggioranza, che riescono, e noi, i più scuri che falliamo”5 (Banlieue noire, p.29). Il protagonista rinnova qui le accuse e la dialettica di un discorso/denuncia coloniale che non è stato ancora risolto in Francia, né socialmente né politicamente.
Le opposizioni dicotomiche che si susseguono nei testi, siano esse identitarie « noi/voi » o spaziali, che tracciano un’ipotetica linea orizzontale tra « interno ed esterno » e verticale « città alta e città bassa », tendono a presentare, a nostro avviso, l’immagine di città e periferie polarizzate.
Questa tendenza è stata ripresa più recentemente dall’urbanista italiano Bernardo Secchi nel suo ultimo saggio: La città dei ricchi e la città dei poveri (2013). Partendo dalla descrizione della città di Parigi nell’epoca ottocentesca, concepita come luogo di scambi e di costruzione del sapere, Secchi nota come oggigiorno le periferie sono divenute, al contrario, il terreno di forme di esclusione e di marginalizzazione sempre più avanzate. Secchi pone l’attenzione sulle responsabilità che ha avuto l’azione dell’urbanistica nell’aggravarsi delle ineguaglianze sociali nel tempo, a tal punto che anch’egli individua oggi una nuova “questione urbana” (B. SECCHI 2013: 5).
Nel suo saggio egli prende atto che le politiche legate alla città nella seconda metà del XX secolo hanno allontanato la componente povera della popolazione nei luoghi più distanti dal centro e periferici, che non beneficiano di una buona reputazione, ciò che chiama le bad lines. In particolare, nel caso francese, Secchi evidenzia come in certi territori, chiamati le “zone di Lucifero”, alcuni elementi dello spazio impediscono l’instaurarsi di relazioni socializzanti semplici e fluide tra le persone. Ed è proprio tale espressione che egli utilizza per qualificare i quartieri popolari intorno alla capitale francese. La sua teoria è semplice: coloro che vi abitano non possiedono gli stessi diritti di cittadinanza degli altri abitanti. Egli avanza inoltre un paragone esemplificativo tra coloro i quali abitano nei quartieri benestanti del sud-ovest parigino e invece coloro i quali vivono nel noto dipartimento di Seine-Saint-Denis nella periferia nord di Parigi, rimarcando così una topografia sociale sempre più ostacolata e polarizzata.
Notiamo quindi come queste ricerche svolte in ambito urbanistico e sociologico si colleghino alle percezioni espresse all’interno delle narrazioni. Prendiamo nuovamente l’esempio del giovane Mehdi, il quale pone l’accento sulla differenza qualitativa tra la periferia dove vive e il centro di Parigi: “Cercano di rilegare la miseria lontano da Parigi, nella lontana banlieue a dire il vero. Non la si vuole più vedere”6 (Dit violent, p.77).
I romanzi in questione si pongono quindi su un piano critico, di denuncia. Tuttavia è necessario precisare che la realtà di queste zone ha motivato e sviluppato la durezza con la quale, in passato, altri autori del panorama letterario francese si sono espressi in precedenza. Basti pensare che già negli anni ottanta Jean-Marie Gustave Le Clézio rende nota la solitudine che regna nei quartieri popolari definendoli “città deserte” nel racconto Ariane (1982); citiamo anche a François Bon con il celebre romanzo Décor ciment (1988) oppure a Jean Rolin in Zone (1995) portandoci nelle aree più marginali di Parigi passando per Boulogne-Billancourt, Clichy-sous-bois, Sarcelles, Nanterre e altre. L’autore ci invita a domandarci come la popolazione possa abitare in un tale disordine, soffermandosi a come i giovani possano immaginare la società in modo diverso da tale caos (J. ROLIN 1995: 171).
Tuttavia per questi autori si tratta piuttosto di rimarcare, con dispiacere, un passato che oramai scomparso, quello delle fabbriche, degli artigiani così come dei proletari che abitavano tali periferie, nelle quali si poteva notare ancora una solidarietà di un mondo operaio che ora non esiste più. Una solidarietà che sembra aver ceduto il passo all’individualismo e a fenomeni di disgregazione studiati a lungo da Bourdieu nel saggio La miseria del mondo (1993: 14), ponendo l’accento sul fatto che questa scomparsa ha lasciato un immenso vuoto non solo nel paesaggio ma soprattutto nella struttura sociale.
Tuttavia, su tale osservazione, rileviamo una differenza, poiché contrariamente ai suddetti autori, nei nostri romanzi si evince un aspetto antitetico all’esclusione. Infatti, sembrerebbe che i legami si sciolgono nella misura in cui si creano degli altri affetti basati su una marcata identificazione e un forte attaccamento al quartiere da parte dei giovani protagonisti. Il giovane Sébastien ironizza sulla sua percezione quando rientra nel suo quartiere; lì, si sente protetto, come “una pietra in Palestina, o, una bottiglia di vodka a Mosca”7 (Banlieue Noire, p.35). Esso è un luogo rassicurante, dove si creano dei rapporti di amicizia e dove si trascorre la maggior parte del tempo, racconta Dembo: “Tutti i giovani della mia età restano là. Noi eravamo appostati come alla dogana, […] al mattino eravamo una ventina, nel pomeriggio una cinquantina e alla sera un centinaio e anche più”8 (Dembo story, p.41).
Si evince che per i giovani protagonisti dei romanzi in questione, il quartiere è quindi percepito come un luogo vasto ma al contempo familiare, nel quale tutti si conoscono e all’interno del quale si sviluppano forme di socializzazione radicali. Da ciò che precede, notiamo come la concezione dello spazio sia quindi ambivalente. Malgrado esso sia considerato come luogo di relegazione sociale e territoriale, discreditato e descritto come pericoloso, senza alcuna prospettiva, diventa tuttavia intimo, ricco d’identità, legato all’onore e perciò problematico da abbandonare.
Per un’implicazione necessaria dell’autore
Quanto detto finora conferma che il rapporto con il reale esiste certamente, tuttavia questo ritorno non si conforma ai celebri romanzi di Stendhal o Zola, poiché lontano dalle finzioni realiste tradizionali, si manifestano diverse discordanze. Il narratore non è più onnisciente ma si presenta alla prima persona, diventando cosi autodiegetico. Per usare le parole del critico francese Dominique Viart si tratta quindi di “coscienze immerse di un reale vissuto e non visto”9 (D. VIART 2011) lasciando talvolta voce all’autore stesso che segna la sua presenza diretta nella narrazione.
La strategia narrativa cerca quindi di oltrepassare la semplice rappresentazione sociologica. La metalepsi ci propone delle interrogazioni, dei dubbi denunciando al contempo la situazione presente.
Questi romanzi conducono, infatti, il lettore verso una riflessione sulla messa in causa delle politiche pubbliche attraverso l’esistenza delle banlieues come causa di un malessere. In altri termini tali romanzi agirebbero come opere “rivelatrici” della nostra società, svelandoci delle condizioni mal o poco conosciute, se non attraverso i media, ed è in questi termini che possiamo trattare di un ritorno all’impegno letterario.
Tali romanzi si esprimono su dei temi sociali focalizzandosi sulle masse popolari che vivono nei territori in difficoltà della Francia. Sono coloro che Dominique Viart ha chiamato in un articolo “i senza voce” (D. VIART 2012). Secondo quest’ultimo, il compito dello scrittore è di supplire a un sapere mancante, dando indirettamente la parola e trattando dell’esistenza di coloro i quali restano, a più ragioni, degli esclusi della società come i personaggi delle banlieue. Nessuna ideologia è presente, l’impegno letterario in questione si fa in favore di questo non-sapere, scavare nella non conoscenza, attraversando i silenzi, facendosi così solidale e andando incontro a un sapere che manca o che è nascosto.
Sembra quindi che se parliamo d’impegno letterario attuale, esso assume una connotazione più allargata, poiché non dichiarata né tantomeno accettata esplicitamente dagli autori e che quindi resta discreta. È per questa ragione che di là del concetto d’impegno, proponiamo di trattare tali romanzi come delle “finzioni critiche”, “dei libri interessati allo stato del mondo, lucidi sulle dissimulazioni dei discorsi come su le impasse della letteratura e attenti a evitarli”10 (D. VIART 2006 : 192).
Ripetiamo quindi che si tratta di romanzi di finzione e che sanno essere tali sebbene l’apporto sociologico sia considerevole. Sarebbe opportuno considerarli quindi come delle “vie d’accesso” di rappresentazioni o meglio, di verità che sono stati raramente rappresentati finora.
Ciò che cambia è la posizione dello scrittore stesso. Esso sente il bisogno di trattare delle questioni che lo implicano direttamente nella società: la nozione di “finzione critica” sembra legarsi quindi a quella di “scrittore implicato” proposta da Bruno Blankeman (2012) quando afferma che “ […] implicarsi letterariamente, significa restituire l’avvenimento alla sua opacità, alla sua leggibilità problematica, affrontare ciò che ci sfugge”11 (BLANKEMAN 2012: 71-81).
Ecco apparire quindi un artista che non rivoluziona il mondo con la sua arte, e non pretende cambiare il mondo con la sua attività. Ciò che emerge è piuttosto la figura dello scrittore-cittadino: un uomo che, proveniente dall’ambiente dal quale racconta, si mette al servizio della collettività proprio attraverso e grazie alla sua arte.
Il suo compito resta piuttosto quello di illuminare delle zone d’ombra. Nel nostro caso si tratta di fornire al lettore, nuove immagini della banlieue, che non siano né angeliche né demoniache ma, al contrario, vicine alle variabili reali, contrariamente ai cliché trasmessi dai media su retoriche semplici, dei flash di attualità.
Attraverso la narrazione del quotidiano dei personaggi provenienti dalle periferie disagiate francesi, gli scrittori instaurano delle piccole fessure con lo scopo di destabilizzare, appoggiandosi su un’immagine alla quale non siamo abituati, incitandoci a cercare delle risposte a degli interrogativi. Inoltre gli autori in questione non hanno una postura d’intellettuale impegnato o di maître à penser sartriano. Al contrario, egli è un cittadino “della” e “nella” folla, un uomo qualsiasi per riprendere le parole di Giorgio Agamben (1990). Egli si trova di fronte a delle responsabilità morali, è al servizio della collettività nella quale si trova, ed è quest’ultima che lo legittima a parlare e che lo rende visibile. Si mostra così implicato, sensibile al suo ascolto e alle sue condizioni di vita.
L’impegno in questione ci appare quindi rinnovato, lontano dall’essere ideologico o, al contrario, disertore, come si credeva un tempo, esso verte oramai sul discorso che la letteratura può tenere sullo stato del mondo, sulle realtà sociali, sulle ingiustizie e soprattutto su ciò che “non è detto” o “mal detto” del nostro tempo, il cui esempio dei romanzi di banlieue ci sembrano essere fortemente rappresentativi.
Corpus romanzi
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