Publifarum n° 27 - CERTEM

Una o più lingue franche nell’Unione europea

Tito GALLAS



Abstract

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Il multilinguismo è da sempre la regola nelle Istituzioni comunitarie. E da sempre esso è oggetto di critiche – alcune giustificate, altre no – e si evoca la possibilità del ricorso ad una o più lingue franche. Per esaminare questa richiesta occorre tenere conto del quadro giuridico esistente e dei vincoli politici. Dal punto di vista giuridico bisogna distinguere tra gli atti giuridici e le altre forme di comunicazione tra le Istituzioni comunitarie ed i cittadini. Per quanto riguarda i primi, prescindere dal multilinguismo si rivela impossibile. Nelle altre forme di comunicazione invece la prassi è già il ricorso a poche lingue, con la tendenza a privilegiarne una sola. Tuttavia, anche in quest’ambito esistono limiti, soprattutto di natura politica.


Dietro il titolo della mia relazione potrei porre un punto interrogativo. Affrontiamo infatti un quesito controverso, dalle risposte tutt’altro che scontate. L’adozione di una o più lingue franche nella comunicazione comunitaria è auspicabile? È materialmente, politicamente e giuridicamente possibile?

Il tema del multilinguismo dapprima nelle Comunità europee, ora nell’Unione europea è da decenni oggetto di discussione. In particolare dopo ogni allargamento dell’Unione si solleva la questione se sia il caso di prevedere l’utilizzazione delle lingue di tutti gli Stati membri. Attualmente le lingue sono ventiquattro.

Si tratta di un argomento delicato. Esso riguarda infatti l’identità di ogni popolo partecipante alla costruzione europea. Ricordiamo a questo proposito le considerazioni molto esplicite della sentenza conosciuta come “Lissabon-Urteil” della Corte costituzionale tedesca. Si tratta di una sentenza di grande portata. Infatti, se non si è opposta alla ratifica del trattato di Lisbona da parte di Berlino, essa ha posto, ancor più fortemente di pronunce precedenti della stessa Corte, robusti paletti all’azione comunitaria. Essa fa rientrare le disposizioni sulla lingua “zu den wesentlichen Bereichen demokratischer Gestaltung” (negli ambiti essenziali dell’organizzazione democratica) della società. Esse toccano l’identità del cittadino comunitario, in particolare anche le sue “sprachliche Vorverständnisse” (precomprensioni linguistiche).1 Possiamo illustrare questa visione con un passo da un articolo di Volker Triebel (TRIEBEL 2000: 1). Esso mette in guardia contro l’abuso di istituti giuridici, concetti e termini del diritto anglosassone in ambiti disciplinati dal diritto contrattuale tedesco. E sottolinea in particolare che „Wer einen Vertrag in englischer Sprache abfasst, akzeptiert – bewusst oder unbewusst – die fremde Denkweise.“ (Chi redige un contratto in lingua inglese accetta – consapevolmente o meno – la mentalità estranea.) Si noti che Triebel è allo stessa tempo Rechtsanwalt e barrister; non può essere sospettato di avere problemi con le lingue straniere.

Problemi del multilinguismo

Vari motivi possono essere addotti per limitare il multilinguismo nell’Unione o per abbandonarlo totalmente a favore di una o più lingue franche.

1. I costi

L’argomento più popolare per una tale soluzione riguarda i costi dell’attuale regime linguistico integrale, che cioè riconosce pari ruolo a tutte le lingue ufficiali degli Stati membri.

Si sottolineano gli oneri finanziari per traduttori ed interpreti, per segretarie e documenti. Per Stéphane Lopez (LOPEZ 2010: 15) questo è “le pire des arguments” (il peggiore degli argomenti) contro l’uguaglianza delle lingue. A ragione. Secondo gli ultimi dati di cui dispongo il costo annuale totale per il regime linguistico attuale ammonta a 800 milioni di euro. Una somma ragguardevole. La quale però, rapportata ad una popolazione di 499 milioni di abitanti, corrisponde ad una o due tazze di caffè per cittadino all’anno, qualcosa tra due e tre euro pro capite. A questo contrappongo una citazione del filosofo del diritto Johann Braun (BRAUN 2007: 350):

Selbstverständlich ist die Sprache bei all dem nicht zuletzt ein ‚Machtfaktor‘: Wer in seiner Muttersprache diskutieren kann, ist dem Fremdsprachler normalerweise überlegen. In der Öffentlichkeit ist man sich all dessen bisher nur unzureichend bewusst“.
(Ovviamente la lingua in fin di conti è un fattore di potere. Chi può discutere nella sua madrelingua normalmente è in una posizione di forza. L’opinione pubblica se ne rende insufficientemente conto.)


La mia lunga carriera in un’Istituzione comunitaria, il Consiglio, mi permette di confermare questa asserzione. Il vantaggio che il delegato del mio paese possa far valere al meglio i miei interessi vale senz’altro due tazze di caffè.

2. Efficienza del funzionamento delle Istituzioni

Ben più reale del problema dei costi è quello dell’incidenza del multilinguismo sull’efficacia del metodo di lavoro della Istituzioni comunitarie. Il regime linguistico integrale comporta scogli organizzativi, tra i quali pesa particolarmente un rallentamento nei lavori e nella presa di decisioni. Tradurre richiede tempo e può ritardare le decisioni delle Istituzioni. Per ovviare a questo inconveniente, esse hanno preso varie misure organizzative interne.

3. Errori di traduzione

Un ulteriore problema reale sta nella possibilità di errori di traduzione. Anche se è da sottolineare che non ogni differenza tra terminologia comunitaria e terminologia nazionale e non ogni divergenza tra le varie versioni linguistiche costituisce necessariamente un errore di traduzione, non si può sottacere che errori del genere si sono costatati e continueranno a prodursi, con possibili conseguenze sostanziali. Dall’altro canto questo svantaggio viene controbilanciato, almeno in una certa misura, dal fatto che il multilinguismo costringe ad una maggiore disciplina, ad una maggiore chiarezza nella redazione del testo di partenza (BURR, GALLAS 2004: 240).

4. Impossibilità pratica di un regime linguistico integrale

Come ultimo argomento contro un regime linguistico integrale si può addurre che sotto più di un aspetto la totale equiparazione nel trattamento delle lingue si rivela impossibile nella pratica. Ciò è particolarmente evidente nell’interpretazione nelle riunioni dei gruppi di lavoro e delle istanze comunitarie. In applicazione della formula “combinazioni linguistiche = n x n-1” (dove n è il numero delle lingue interessate), allo stato attuale con ventiquattro lingue ufficiali risultano 552 (24x23) combinazioni possibili tra queste. Anche se nell’interpretazione tra due lingue si passa per una terza (lingua “relais” o “pivot”), non è possibile disporre di un numero sufficiente di interpreti né di cabine per consentire a tutti i partecipanti a tutte le riunioni di esprimersi nella propria lingua. Più in generale si costata che per certe lingue, in particolare di piccoli paesi, non si trovano esperti in numero sufficiente per garantire la traduzione di tutti i documenti.

La necessaria semplificazione del regime linguistico – Lingua franca?

Il breve riassunto delle critiche mosse al regime linguistico integrale porta a costatare che esiste un’esigenza reale di semplificarlo. Ne consegue che occorre adottare una lingua franca? È questo il nostro quesito.

Ma che cosa è una lingua franca? Molto è stato scritto su questo tema.

Ai nostri fini non è necessario approfondire la moltitudine delle impostazioni teoriche né le ricostruzioni storiche. Di sicuro possiamo escludere la definizione della lingua franca come lingua utilizzata per comunicare in una cerchia di persone senza essere la madrelingua di nessuna di queste, come ipotizzato, per esempio, da Giorgio Graffi e Sergio Scalise (GRAFFI, SCALISE 2002: 224). Nell’Unione europea sarebbe comunque una delle lingue parlate negli Stati membri. Si potrebbe pensare di risuscitare una lingua morta ed ipotizzare un ricorso al latino. E si potrebbe avanzare che un caso del genere si è effettivamente verificato con l’adozione della lingua ebraica in Israele. Ma il contesto era del tutto diverso, la motivazione forte; impossibile da paragonare all’attuale situazione europea. Per lo stesso motivo anche la proposta di utilizzare una lingua artificiale come l’esperanto non è che un esercizio intellettuale. Quante persone in Europa sarebbero disposte a fare lo sforzo di impararlo, anche se fosse imposto per legge?

Per i nostri scopi può valere la definizione seguente: Lingua franca è una lingua che consente ad un gruppo di persone di comunicare pur avendo lingue madri diverse, non reciprocamente comprensibili. Gruppi del genere sono costituiti in particolare da diplomatici, studiosi, scienziati, membri del clero, commercianti o banchieri; cioè da un’élite. Lingua franca è anche quella in cui il padrone comunica con i sottoposti, come nel caso delle colonie. Anche qui il fenomeno riguarda un’élite. Non si è invece presentato finora il caso che interi popoli comunichino in una lingua franca, per il semplice fatto che la vita dell’uomo comune si svolge all’interno del suo territorio linguistico, cosicché egli non conosce la necessità di una lingua di contatto.

Esiste una ricca letteratura sulla lingua franca in un’ottica comunitaria. Per noi, qui ed oggi, essa è in larga parte priva di rilievo, perché prescinde dai vincoli che la situazione di fatto impone.

Il quadro giuridico vigente

Tra questi vincoli spicca in primo luogo il quadro giuridico vigente.

La prima norme che occorre prendere in considerazione è iscritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Vi leggiamo nella Parte settima – Disposizioni generali e finali:

Articolo 342 Il regime linguistico delle istituzioni dell'Unione è fissato, senza pregiudizio delle disposizioni previste dallo statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea, dal Consiglio, che delibera all'unanimità mediante regolamenti.”

Nell’enunciato di questo articolo occorre anzitutto notare che la decisione del Consiglio in esso previsto non include la disciplina delle lingue presso la Corte di giustizia. La Corte stessa ha deciso che tutte le lingue ufficiali sono anche lingue processuali. Le sentenze sono pubblicate in tutte le lingue ufficiali. La lingua di lavoro è il francese.

Per quanto riguarda le altre Istituzioni, il regime linguistico è fissato dal Consiglio. Va sottolineato che l’articolo 342 prevede che in questa materia il Consiglio decida all’unanimità. La stessa esigenza si applica evidentemente ad ogni modifica dell’atto adottato in applicazione dell’articolo citato. D’altronde, lo stesso articolo, come ogni altra parte del trattato, non potrebbe essere modificato che con l’assenso di tutti gli Stati membri. Ogni limitazione della vigente uguaglianza di tutte le lingue richiede quindi il consenso unanime di tutti gli Stati membri. Allo stato delle cose non è concepibile che uno di essi possa accettare una limitazione sostanziale del principio.

La decisione che il Consiglio doveva prendere in applicazione dell’articolo 342 è il regolamento nr. 1/58. Il numero stesso ci avverte che si tratta del primissimo atto adottato del Consiglio, già nella sua prima riunione dopo l’entrata in vigore del trattato che istituisce le Comunità economica europea. Già questa circostanza evidenzia l’importanza che è attribuita al trattamento delle lingue. Il regolamento nr. 1/58 è stato modificato sostanzialmente soltanto con l’inserzione di nuove lingue via via che nuovi Stati hanno aderito all’Unione.

Nel regolamento citato ci interessano in particolare quattro articoli. Il primo di questi si legge:

Articolo 1 - Le lingue ufficiali e le lingue di lavoro delle istituzioni della Comunità sono ...”.

Segue l’elenco delle lingue, attualmente ventiquattro. Non viene fornita una definizione di che cosa sono, rispettivamente, una lingua ufficiale ed una lingua di lavoro. Non esiste una distinzione univoca tra i due termini eppure – come vedremo – essa ha una notevole importanza.

In seguito:

Articolo 4 - I regolamenti e gli altri testi di portata generale sono redatti nelle lingue ufficiali.”

Articolo 5 - La Gazzetta Ufficiale delle Comunità è pubblicata nelle lingue ufficiali.”

Articolo 6 - Le Istituzioni possono determinare le modalità di applicazione del presente regime linguistico nei propri regolamenti interni.”

Un’attenzione particolare va riservata agli articoli 1 e 6 ed ai rapporti, per non dire le tensioni, tra i due. L’articolo 1 consacra la parità di trattamento di tutte le lingue enumerate. L’articolo 6 concede che in pratica questo principio si possa applicare con una certa flessibilità. Spetta ad ogni singola Istituzione disciplinare i particolari del regime linguistico.

Una lingua franca in questo quadro giuridico?

La questione che allora si pone è di vedere fino a che punto i regolamenti interni delle Istituzioni possono derogare alla regola dell’uguaglianza delle lingue comunitarie. In quali circostanze ed in quale misura? Fino a che punto è ammesso il ricorso ad una lingua franca? Esiste, e in quale misura, un diritto del cittadino all’uso della madrelingua, da parte sua come da parte delle Istituzioni?

Esistono non poche prese di posizione, non poche pubblicazioni, anche da parte della Commissione europea,2 che caldeggiano di utilizzare in via generale, in ogni circostanza, una od alcune lingue franche e di rinunciare all’uso delle altre lingue. Diciamo francamente che nel nostro discorso possiamo non tener conto di questa opinione. L’articolo 1 citato esiste e, per le ragioni che diremo, non è pensabile che venga semplicemente cancellato.

Multilinguismo – diritto fondamentale?

Per rispondere correttamente alla questione dell’ammissibilità della scelta di una lingua franca dobbiamo considerarla nei suoi risvolti giuridici, politici e pratici.

Nella prospettiva del diritto ci si può chiedere anzitutto se l’interesse del singolo al multilinguismo è coperto dai diritti fondamentali. Si tratta di una questione che si sente spesso aleggiare, senza che venga affrontata expressis verbis. Non così da Amadeu Lopes Sabino. Egli afferma che il diritto a norme giuridiche nella propria lingua fa parte della citoyenneté, dell’essere cittadino dell’Unione, in ultima analisi della democrazia (LOPES SABINO 2010: 81).

Va nello stesso senso Claude Truchot. Egli costata che in un regime monarchico la comunicazione parte dal sovrano; essa ha per codice la lingua dello stesso. Non occorre che il popolo la comprenda; basta che obbedisca. Sono gli ordres intermédiaires, aristocrazia e clero, a mediare linguisticamente tra monarca e popolo. Per contro, in un regime la cui legittimità si fonda sulla società, tanto i governanti quanto la società stessa devono partecipare alla comunicazione. Anche qui, in definitiva, si afferma che il principio di democrazia richiede l’uso di una lingua comprensibile ai cittadini (TRUCHOT 2008: 84)

La Corte costituzionale tedesca vede anch’essa nei diritti fondamentali e nell’organizzazione democratica della vita pubblica un limite all’azione delle Istituzioni comunitarie. Nella già citata sentenza “Lissabon” leggiamo infatti:

„ Die europäische Vereinigung auf der Grundlage einer Vertragsunion souveräner Staaten darf allerdings nicht so verwirklicht werden, dass in den Mitgliedstaaten kein ausreichender Raum zur politischen Gestaltung der wirtschaftlichen, kulturellen und sozialen Lebensverhältnisse mehr bleibt. Dies gilt insbesondere für Sachbereiche, die die Lebensumstände der Bürger, vor allem ihren von den Grundrechten geschützten privaten Raum . . . prägen, . . . Zu wesentlichen Bereichen demokratischer Gestaltung gehören unter anderem . . . auch kulturelle Fragen wie die Verfügung über die Sprache.“3
(L’unificazione europea sulla base di un’unione fondata su trattati tra Stati sovrani non può realizzarsi in maniera tale che negli Stati membri non rimanga uno spazio sufficiente per l’organizzazione politica delle condizioni di vita economiche, culturali e sociali. Ciò è particolarmente vero per i settori che . . . coniano . . . le condizioni di vita dei cittadini, soprattutto nella sfera tutelata dai diritti fondamentali. . . . Dei settori essenziali dell’organizzazione democratica fanno parte, tra gli altri, anche questioni culturali come il disporre della lingua.)

Il principio democratico, ma anche quelli della parità di trattamento e dello Stato di diritto sono dunque in gioco nella questione del multilinguismo e della lingua franca. Tenuto conto di questi vincoli, per rispondere alla nostra questione dobbiamo distinguere tra atti giuridici, in particolare normativi, ed altre forme di relazione tra le Istituzioni ed i cittadini dell’Unione.

Parità di trattamento delle lingue negli atti giuridici

Nella nostra ricerca di una risposta alla questione posta soccorre un esame delle giurisprudenza, che in definitiva ci fornisce una risposta chiara ed esauriente.

Per quanto riguarda gli atti normativi di portata generale, questa giurisprudenza è bene riassunta dall’avvocato generale, signora Kokott, nelle sue conclusione nella causa C-161/06 “Skoma-Lux”:

“38. Tuttavia, con riferimento a normative generali che impongono obblighi al singolo – quindi, sostanzialmente, con riferimento ai regolamenti –, la Corte ha rigettato la tesi di una limitazione dell’equivalenza delle lingue. Così ha statuito che il singolo ha il dovere di conoscere il contenuto della Gazzetta ufficiale solo quando il corrispondente numero si è reso effettivamente disponibile nella sua lingua.”

Nella sua sentenza in questa causa la Corte conferma la sua precedente giurisprudenza evocata dall’avvocato generale. Nel farlo, essa si basa sui principi della certezza del diritto. Leggiamo al punto 38 della sentenza:

“38. La Corte ha dichiarato che il principio fondamentale della certezza del diritto impone che una normativa comunitaria consenta agli interessati di conoscere esattamente la portata degli obblighi che essa prescrive loro, ciò che può essere garantito esclusivamente dalla regolare pubblicazione della suddetta normativa nella lingua ufficiale del destinatario (v. altresì, in tal senso, sentenze 26 novembre 1998, causa C370/96, Covita, Racc. pag. I7711, punto 27; 8 novembre 2001, causa C228/99, Silos, Racc. pag. I8401, punto 15, e Consorzio del Prosciutto di Parma e Salumificio S. Rita, cit., punto 95).”

Al successivo punto 39 della stessa sentenza la Corte richiama inoltre il principio di parità di trattamento, per cui i singoli cui una normativa comunitaria impone obblighi devono poter prendere conoscenza di tali obblighi nella lingua del proprio Stato.

A questo punto possiamo concludere che nel caso degli atti giuridici di portata generale non è possibile mettere in discussione la parità di trattamento di tutte le lingue. Risulta che bisogna escludere l’adozione di una lingua franca per questi atti. Visto poi che quest’impossibilità non è il risultato di una norma di diritto positivo (quale potrebbe essere il regolamento n. 1/58), norma che il legislatore comunitario potrebbe anche modificare, ma discende da principi dei diritti fondamentali, non si vede come questa conclusione potrebbe cambiare.

Restano da esaminare, tra gli atti giuridici, le decisioni che le Istituzioni prendono nei confronti di singole persone, fisiche o giuridiche. Si possono redigere in una lingua franca? A questo proposito il regolamento nr. 1/58 è, a giusto titolo, categorico:

“Articolo 3 - I testi, diretti dalle istituzioni ... ad una persona appartenente alla giurisdizione di uno Stato membro, sono redatti nella lingua di tale Stato.”

Dunque nella lingua della persona interessata. Questa, dal canto suo, può dirigere – a norma dell’articolo 2 dello stesso regolamento – un testo alle Istituzioni redatto, “a scelta del mittente, in una delle lingue ufficiali. La risposta è redatta nella medesima lingua.”

Con queste costatazioni dovremmo aver fugato ogni dubbio sulla possibilità di un ricorso ad una lingua franca nel campo degli atti giuridici delle Istituzioni comunitarie.

Le lingue nelle altre forme di comunicazione tra Istituzioni comunitarie e cittadini

Il quadro è più complesso se si esaminano le forme di comunicazione tra Istituzioni e cittadini diverse dal messaggio normativo. Tra questi annoveriamo segnatamente i bandi di concorso per l’assunzione di funzionari ed agenti comunitari, un punto sul quale torneremo qui di seguito. Oppure l’invito a presentare progetti ed altri contributi come misure preparatorie nell’elaborazione di programmi e proposte, soprattutto da parte della Commissione europea. In genere tra queste forme di comunicazione possiamo comprendere tutte le informazioni dei cittadini da parte delle Istituzioni comunitarie.

In questo ambito si costata l’evidente tendenza ad abbandonare il multilinguismo a favore di una o alcune lingue franche. Come si è detto, questa tendenza è in parte imputabile a difficoltà pratiche di impiego di tutte le lingue ufficiali, quali i limiti della capacità di traduzione. Ma questa giustificazione non regge sempre. Infatti, se accediamo ai website istituzionali l’offerta di più versioni linguistiche è decisamente misera. Chi non conosce una delle lingue più correnti è escluso dal sito. E anche tra queste lingue esiste un chiaro squilibrio a favore dell’inglese. Già nel 2004 si è costatato che nei siti della Commissione il 67% delle pagine era presentata in inglese, mentre la percentuale dell’insieme delle altre lingue si limitava al 33%.4 Dopo l’ondata di adesioni del 2004 questo squilibrio si è ancora fortemente accentuato. Il motivo di questa limitazione all’inglese non è sempre facilmente giustificabile. Spesso nei siti si trova un link verso un documento in inglese, anche partendo da un sito in un’altra lingua, come se quella fosse la sola versione disponibile del documento che interessa. Mentre magari questo documento è una proposta della Commissione al Parlamento europeo ed al Consiglio che per forza deve esistere in tutte le lingue. Se così non fosse, a norma dei regolamenti interni di queste Istituzioni, queste non potrebbero neppure prenderla in considerazione. Almeno in questi casi la scelta del solo inglese non si può giustificare ed il motivo sembra essere piuttosto l’indolenza dei funzionari addetti. A volte si avanza anche il sospetto che esista un preciso disegno politico nel riservare l’esclusiva ad una sola lingua. Language is power. È grave anche l’accusa mossa da Ludwig Krämer, già alto funzionario della Commissione, secondo il quale i documenti inviati ai servizi della Commissione rischiano di essere semplicemente ignorati se non sono redatti in inglese (KRÄMER 2010: 104).

La tendenza ora segnalata trova tuttavia resistenze sul piano politico. Ne è un esempio l’istruzione date da alcune capitali ai propri funzionari di non intervenire nelle riunioni del Consiglio in assenza dei documenti nella loro lingua. Più in generale, si fa valere che la preoccupante distanza tra l’Unione ed i suoi cittadini è da attribuire anche alla barriera linguistica. La resistenza all’imposizione della pratica del monolinguismo si manifesta anche nel dato che il Mediatore europeo (articolo 228 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea) riceve spesso denunce dei cittadini fondate sulla mancante disponibilità di un testo comunitario in una data lingua, come riferisce in un suo scritto Fergal Ò Regan, funzionario presso lo stesso Mediatore (Ò REGAN 2010: 109).

Anche la Corte di giustizia è stata adita con ricorsi per questo stesso motivo. In queste cause essa formula la sua sentenza in maniera più differenziata che nei casi di assenza di tutte le versioni linguistiche di atti normativi e fonda le sue riflessioni piuttosto su disposizione di diritto positivo, quali per esempio lo statuto dei funzionari, che su principi generali. Essa prende in conto le questioni pratiche quali il carico di lavoro dei servizi della Commissione e la capacità di traduzione. Tuttavia anche in questi casi la Corte non rinuncia a richiamare i principi generali.

Questo indirizzo è bene illustrato da una sentenza abbastanza recente della Corte, nella causa C-566/10 “Repubblica italiana contro Commissione europea”. Con questa sentenza la Corte annulla una sentenza del Tribunale dell’Unione europea non solo a motivo della violazione dell’articolo 6 del regolamento nr. 1/58, ma invocando anche i principi della non discriminazione e della proporzionalità. La sentenza dice infatti:

“76 ... i problemi materiali relativi alle capacità di traduzione dovevano essere messi in bilanciamento con il diritto per tutti i cittadini dell’Unione di prendere conoscenza dei bandi di concorso alle medesime condizioni.

77 Ne consegue che la prassi di pubblicazione limitata non rispetta il principio di proporzionalità e configura pertanto una discriminazione fondata sulla lingua, vietata dall’articolo 1 quinquies dello Statuto dei funzionari.”

Vietata anche, potremmo aggiungere, dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che cita espressamente la discriminazione fondata sulla lingua. Ma la Corte, conformemente al suo indirizzo che abbiamo descritto, ha preferito richiamare una disposizione dello statuto dei funzionari.

Riassumendo, sulle comunicazioni diverse dagli atti giuridici si costata che le Istituzioni si avvalgono largamente della flessibilità ammessa dall’articolo 6 del regolamento nr. 1/58. Esse devono tuttavia badare a non travalicare i limiti come quello del principio della non discriminazione se non vogliono rischiare che anche queste comunicazioni siano annullate.

Conclusione

Concludendo possiamo costatare che esiste una tensione tra approccio pragmatico e multilinguismo. Capacità di traduzione e mole di lavoro militano a favore del ricorso ad una o poche lingue franche. Ci sono tuttavia limiti a questa tendenza, posti da principi di diritto, da considerazioni politiche – si pensi anche alle spinte affinché sia dato maggiore spazio alle lingue regionali – nonché da una certa pressione dell’opinione pubblica. Si è costatato che in più di un’occasione le Istituzioni hanno palesemente oltrepassato questi limiti e sono state sanzionate. È tuttavia da prevedere che i servizi della Commissione, ma anche delle altre Istituzioni, continueranno a voler estendere l’uso di una lingua franca. Si tratta di una burocrazia grande e pertanto tarda, che – a dispetto di tutta la retorica sulla trasparenza – mostra spesso poco rispetto per le esigenze dei cittadini comunitari. Abbiamo comunque messo in evidenza che le possibilità di un’estensione del ricorso ad una lingua franca non vanno sopravvalutate.

Sia infine concessa una considerazione più generale. Non molto tempo fa vi è stato un passo da parte di Londra affinché nei concorsi per funzionari non fosse più richiesta la conoscenza di una seconda lingua oltre a quelle materna. Esso era motivato dall’affermazione che l’esigenza della conoscenza di una lingua straniera priverebbe troppe persone professionalmente valide della possibilità di candidarsi ad un impiego nelle Istituzioni. La mossa era destinata a cadere nel vuoto, perché accoglierla avrebbe semplicemente violato le norme dello statuto dei funzionari. Essa è tuttavia interessante perché mette in evidenza la diffusa indigenza culturale che è tra le cause del pietoso stato dell’idea europea.

Bibliografia

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G. GRAFFI, S. SCALISE, Le lingue e il linguaggio, Bologna, Il Mulino, 2002.
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C. TRUCHOT, Europe : l’enjeu linguistique, Paris, La Documentation française, 2008.




Note

↑ 1 BVerG 123,267, Urteil vom 30.Juni 2009, Rdnr.249.

↑ 2 Lingua Franca Chimera or reality? http://ec.europa.eu/languages/news/lingua-franca_en.htm

↑ 3 Vedi nota a piè di pagina 1.

↑ 4 Rapport 2005 au Parlement sur l’emploi de la langue française. Délégation à la langue française et aux languesde France.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482