Publifarum n° 27 - CERTEM

Così lontani così vicini. Il rapporto a distanza tra traduttori UE e lingua italiana

Domenico COSMAI


Abstract

Italiano  | Inglese 

L'articolo prende le mosse dal rapporto a distanza tra i traduttori italiani nelle istituzioni europee e il loro principale strumento di lavoro, la lingua italiana, per poi soffermarsi sulla tendenza comune a tutti i servizi linguistici comunitari a darsi delle norme interne in campo lessicale e grammaticale, tramite il lavoro dei revisori e dei traduttori principali o attraverso note terminologiche o bollettini. Si mostra come tale tendenza alla prescrittività non sia solo improntata al controllo della correttezza linguistica in un'ottica di purismo deontologico, ma sia anche in grado di produrre soluzioni terminologiche innovative, di pari passo con i nuovi istituti giuridici creati dal diritto europeo.


Occuparsi di lingua italiana a Bruxelles o Lussemburgo è un po' come fare dell'astrofisica. Si scruta un corpo celeste con cannocchiali che permettono di visualizzare ogni più lieve asperità del terreno, ma l'osservazione, per quanto precisa, è pur sempre condotta da lontano. L'italiano che si maneggia nelle istituzioni europee è sì materia viva, ma anche in qualche modo ancorata a punti di fissità sedimentati nel ricordo. La gamma degli idioletti a cui gli italiani sono direttamente esposti nelle sedi europee è per forza di cose limitata. Si va dal linguaggio un po' curiale del mondo amministrativo o istituzionale a quello più informale dei rapporti interpersonali con persone spesso affini per mentalità e percorsi di vita, quindi neanche lontanamente rappresentativi dell'assortimento di tipi umani e sociali con cui si avrebbe a che fare se si vivesse nel proprio paese d'origine.


Per questo, a coloro che vivono un rapporto a distanza con la lingua materna può capitare di tornare a casa e sentirsi come superati dagli avvenimenti, spiazzati di fronte a un conoscente di cui ricordiamo bene il volto, ma che rivisto dopo anni mostra un che di impercettibilmente diverso. E aggiungerei che la consapevolezza dei mutamenti linguistici è forse più acuta proprio per chi guarda da lontano e fa in parte affidamento sulla propria memoria. Un po' come coloro che vedono i nostri figli dopo pochi mesi e si stupiscono di quanto siano cambiati, mentre a noi sembrano sempre uguali.


Non mi riferisco tanto al pescosissimo mare del linguaggio gergale, anche se la prima volta che qualcuno ha usato con me il verbo “sciallare” devo aver fatto tanto d'occhi, quanto a certi slittamenti semantici. Al coetaneo che ti dice: “Stasera si potrebbe cenare a un giapponese piuttosto che a un vietnamita”, e tu non capisci se quel “piuttosto che” indichi un'alternativa o se la scelta sia già stata fatta. O può capitare, come a me l'estate scorsa, di restare perplesso dinanzi alla frequenza di espressioni che quando vivevo in Italia non si usavano, come “ci sta”: “Quella macchina l'ho pagata parecchio, ma ci sta”, oppure “Errore mio, ma ci sta!”. Ecco, dinanzi al dilagare di queste e altre forme di linguaggio neo-standard, ci si rende conto che, vivendo all'estero, ogni tanto si perde qualche episodio della grande saga delle trasformazioni linguistiche.


Il che forse non sarebbe poi così grave o meritevole di attenzione se non fosse che la pratica della traduzione nelle istituzioni europee è sempre passiva. In altri termini i traduttori lavorano dalla lingua straniera verso quella materna o riconosciuta come tale. Ne consegue per esempio che i bandi di concorso per traduttori italiani richiedono la conoscenza ottimale di una o più specifiche lingue straniere, ma la conoscenza perfetta dell'italiano. Si tratta di una competenza per così dire immanente nel senso che, anche dopo venti o trent'anni trascorsi a Bruxelles o Lussemburgo, non si prevede una formazione continua imperniata sulla lingua materna. Si dà cioè per scontato che la padronanza linguistica possa mantenersi tetragona a ogni rischio di contaminazione derivante dal fatto di vivere per molti anni all'estero e di lavorare in un contesto multilingue, anche se l'esperienza personale ci dice che è una convinzione largamente illusoria.


Come a molti colleghi, anche a me capita con una certa frequenza di sentirmi chiedere dei consigli da studenti di facoltà linguistiche o di traduzione che aspirano a una carriera nell'UE. Con me restano per lo più spiazzati quando insisto sull'unica cosa che a loro sembra irrilevante, cioè la necessità di coltivare e maturare prioritariamente il rapporto con l'italiano attraverso buone letture – va da sé, anche se non è così scontato per tutti –, ma anche adottando un atteggiamento criticamente vigile nei confronti della lingua. Quello che forse non si immagina abbastanza è che i principali crucci di ogni traduttore che si rispetti sono legati non tanto alla comprensione della lingua di partenza, ma soprattutto all'efficacia della resa nella lingua di arrivo. E anche nell'attività dei traduttori per le istituzioni europee emergono in continuazione e per forza di cose – visto che la lingua è il loro principale strumento di lavoro – dubbi lessicali, grammaticali e stilistici spesso filtrati da una sensibilità soggettiva, e a cui spesso non è facile trovare risposte univoche neanche nelle grammatiche.


Ad accentuare questa ansia da prestazione concorre la funzione normativa di testi che, pur essendo scritti a Bruxelles e soprattutto pur essendo il risultato di una attività di transfer linguistico, finiscono per diventare parte integrante di 28 ordinamenti giuridici nazionali. Proprio la rilevanza giuridica o anche solo il carattere di ufficialità del testo europeo è all'origine del forte senso di responsabilità che investe l'attività dei traduttori dell'Unione e del loro “bisogno di certezze”, linguisticamente parlando.


Per venire incontro a questa esigenza, nel corso degli anni i servizi linguistici di tutte le istituzioni hanno sviluppato, chi più chi meno, una tendenza a legiferare in campo lessicale e grammaticale, il che può avvenire implicitamente tramite il lavoro dei revisori e dei traduttori principali, ed esplicitamente sotto forma di note terminologiche o indicazioni nei bollettini delle unità linguistiche. Questa attività allo stesso tempo si colloca in un contesto generale in cui i nostri servizi di traduzione spesso vedono se stessi come veri e propri baluardi da dove si combatte una strenua battaglia in difesa della lingua, o meglio di un modello ideale di lingua.


La tendenza alla prescrittività, in base alla quale si prediligono certe forme linguistiche e se ne bandiscono altre, è legata alla veste ufficiale che assume la lingua nei testi da tradurre. È lecito supporre che in origine sia nata per esigenze protocollari, ad esempio rispettare le denominazioni esatte dei vari paesi o delle cariche ufficiali. Alcune di queste scelte negli anni si sono cristallizzate in vere e proprie leggi non scritte, per cui – per limitarci a qualche esempio – nei documenti ufficiali in italiano leggeremo di preferenza “Stati membri” e non “paesi membri”, e viceversa “paesi terzi” per indicare i paesi extracomunitari, e non “Stati terzi”. Non troveremo la parola “rapporto”, alla quale si preferisce “relazione”, ma incapperemo nella distinzione tra popolo “finlandese” e lingua “finnica”. Nella letteratura scientifica pubblicata in Italia, penso ad esempio agli stessi manuali di diritto dell'Unione ma anche a vocabolari generici, queste e altre differenziazioni sono spesso sconosciute. E allora ogni tanto è lecito chiedersi che senso abbia, o meglio fino a che punto abbia senso, imbullonare la lingua con questo tipo di vincoli.


Qualche volta si riesce a ipotizzare una spiegazione. Dalla fine degli anni '50, quando sono nati i servizi di traduzione nella maggior parte delle istituzioni europee, fino ad almeno la fine degli anni '90 del secolo scorso la lingua veicolare per eccellenza nell'amministrazione europea era il francese, e si può immaginare quale non troppo sottile influenza esercitasse su una lingua sorella come appunto l'italiano. Ed ecco che, per una forma di ipercorrettismo, in certi casi ci si buttava deliberatamente sulle varianti italiane più lontane dalla voce francese per prevenire chissà quali accuse di contaminazione. Un po' come succede ancora oggi tra lingue molto affini come ceco e slovacco. Un caso tipico riguarda una parola francese usatissima nei nostri testi politici. Questa parola è il verbo renforcer, che nei documenti italiani viene per lo più tradotto non con “rinforzare” bensì con “rafforzare”. Pensate che nella banca dati della mia istituzione il verbo “rafforzare” è attestato in ben 9.317 casi, mentre “rinforzare“ ha solo 75 occorrenze, di cui la metà proviene da originali italiani. Un esempio analogo è il francese liste, che nella terminologia amministrativa nostrana è reso di solito con “elenco”, come se la parola “lista” potesse suonare troppo francese, quando invece risulta attestata in italiano dal 1313 ed è semmai di etimo germanico.


Penso anche al ricorso frequente a espressioni perifrastiche e autodefinitorie per rendere concetti che la nostra lingua è capace di esprimere in modo molto più economico. Un caso tipico è quello dei termini amministrativi creati agli inizi degli anni '60 dalla prima generazione di traduttori e diventati dei veri e propri interna corporis che per definizione sono ormai immutabili. Mi limito a due esempi: “indennità giornaliera di missione”, che è ciò che in Italia si chiamerebbe “diaria”, e “elenco di idoneità”, in relazione ai concorsi comunitari, che corrisponde alla nostra “graduatoria”.


Tutto ciò è perfettamente naturale. La tendenza all'esplicitazione è uno degli universali riconosciuti della traduzione tout court, e non solo di quella che si fa nelle istituzioni europee, per cui quando si ha la tentazione di censurare la scarsa naturalezza dell'euroletto bisognerebbe tenere presente un elemento di fondo che spesso invece viene trascurato in questo tipo di analisi. Il fatto che non stiamo parlando di un codice espressivo che gli scriventi utilizzano in maniera spontanea, ma del risultato di un'operazione traspositiva subordinata a tutta una serie di vincoli specifici, primo fra tutti la fedeltà al testo originale. Se la lingua di partenza esprime una sfumatura o una distinzione che l'italiano in quanto portatore di una certa visione del mondo fino a quel momento non si è preoccupato di esprimere – qui parlo proprio in termini di antropologia culturale –, il traduttore è obbligato a forzare in qualche modo i meccanismi espressivi della lingua per rendere quell'idea.


Esistono diversi studi accademici sull'italiano dei documenti dell'UE, anche se paradossalmente i più importanti sono stati condotti fuori dall'Italia: penso alle ricerche del professor Tosi e al progetto avviato ormai una ventina di anni fa dal dipartimento di italianistica dell'Università di Stoccolma sotto la direzione della prof.ssa Jane Nystedt. Questi studi esprimono giudizi di intensità variabile sulla qualità dell'italiano che si scrive a Bruxelles in termini non tanto di correttezza, quanto di leggibilità. Ma tutti nel complesso riconoscono l'impegno attivo dei linguisti italiani – soprattutto quando si mettono a confronto corpora di testi giuridici comunitari e italiani – nel contribuire col loro lavoro a quell'avvicinamento mai troppo auspicato tra le istituzioni europee e i cittadini.


D'altro canto in queste analisi è stato anche rilevato come a volte i traduttori cerchino di nobilitare i loro testi usando termini più ricercati, che possono conferire al linguaggio un tono troppo forbito.


Umberto Eco, che una trentina di anni fa affermava con qualche sicurezza: “nessuno scrive più altresì se non nello stile cancelleresco”, si stupirebbe di quanti “altresì”, “nonché” o “segnatamente” si trovano ancora nei nostri documenti. Ciò è sintomatico di un orientamento per lo più conservativo nei confronti della lingua, una propensione – questa – che affonda le radici nelle esigenze protocollari di cui parlavo prima e quindi nella sollecitazione ai traduttori a compiere scelte traspositive accreditate dalla prassi o quanto meno avvalorate da fonti documentarie. Ma la pedanteria può anche riservare sorprese interessanti, di cui una è l'atteggiamento dei traduttori europei nei confronti dei forestierismi, cioè la tendenza a ricercare soluzioni autoctone anche per quei termini stranieri che in Italia trovano ricetto da anni.


A questo punto non vorrei ripetere cose arcinote. Mi limito a notare come l'abitudine all'addomesticamento anche dei forestierismi più integrati faccia a pugni con una prassi italiana che in genere è molto più esterofila e "avvolgente" nei riguardi del termine straniero, il che a volte può produrre involontari effetti comici. Una tipica situazione conflittuale tra l'assimilazione tutta italiana del termine straniero e lo sforzo dei nostri linguisti di italianizzarlo in qualche modo è rappresentata dalle interrogazioni parlamentari dei nostri eurodeputati, che vengono di norma esposte in italiano e pubblicate senza modifiche sulla Gazzetta ufficiale dell'UE assieme alle risposte dei commissari europei, che invece sono per lo più tradotte. Così è capitato ad esempio che l'interrogazione di un deputato italiano facesse riferimento a un working party sulla tutela della privacy, mentre la risposta – che era stata tradotta – parlava più banalmente di un gruppo di lavoro sulla tutela della vita privata.


Ma come capita quando si discetta di questioni europee senza cognizione di causa, questo sforzo attivo di difesa della lingua è in gran parte misconosciuto, quando non addirittura negato. Ancora qualche anno fa, durante una giornata organizzata a Bruxelles dalla Rete dell'italiano istituzionale, uno degli oratori parlava della “pigrizia” dei traduttori italiani. Il riferimento ancora una volta era al famigerato termine inglese governance, presente nel titolo di un Libro bianco del 2001, che i traduttori italiani sarebbero stati rei di non avere tradotto nella nostra lingua, ma lasciato in inglese. Sta di fatto che secondo me il caso di governance dimostra proprio il contrario, visto che all'epoca i colleghi della Commissione avevano fatto di tutto per avanzare e formalizzare una soluzione "autarchica". In quell'occasione era stata interpellata anche la Crusca che aveva proposto di rispolverare il termine medievale “governamento” o in alternativa di creare il neologismo “governanza” – e secondo me entrambi i termini sarebbero andati benissimo, così come all'epoca andarono benissimo i neologismi escogitati per tutte le altre lingue ufficiali. Sennonché a un certo punto si dovè capitolare dinanzi alle istruzioni dell'allora presidente della Commissione Prodi, che spinse per il mantenimento anche nella nostra lingua di un termine inglese, appunto governance, che già aveva un suo diritto di cittadinanza nella letteratura tecnica.


Spero quindi sia chiaro che parlare di conservazione linguistica non implica una propensione al passatismo, né tanto meno all'immobilismo. Al contrario, l'aspetto forse più ritemprante dell'italiano comunitario o, come dovremmo dire oggi, “unionale” – e questo è un punto su cui tornerò fra poco –, è forse proprio il suo carattere innovativo, che deriva dalla esigenza basilare di denominare in qualche modo i nuovi istituti e le nuove procedure dell'Unione. Questi istituti e queste procedure non posseggono quasi mai un corrispettivo nelle lingue e nelle prassi nazionali degli Stati membri, per cui nel corso del tempo è stato giocoforza creare una nuova terminologia capace di esprimere situazioni riconducibili non già ai singoli Stati, ma all'Unione nel suo complesso. È così che sono nati termini e espressioni che si sono affermati anche nel linguaggio comune come “quote latte”, “vincere un Erasmus”, “fondi strutturali”, “moneta unica”, “mercato interno”, “reti transeuropee”, “libera circolazione delle merci”, “unione bancaria”, “patto di stabilità” e innumerevoli altri. Ma anche voci più banali che esistono da secoli in tutte le lingue e culture giuridiche degli Stati membri come “leggi” o “decreti” assumono nel contesto dell’Unione una nuova veste lessicale, e infatti non li chiamiamo leggi ma “regolamenti” o “direttive”, e aggiungerei che lo si fa proprio per marcarne la disparità rispetto alle situazioni nazionali.


L’ultimo esempio in ordine di tempo di questa volontà di allargare le maglie del nostro lessico in corrispondenza degli sviluppi politici è proprio l'aggettivo “unionale” che ho utilizzato poco fa. Sappiamo che il Trattato di Lisbona ha messo fine all’assetto istituzionale chiamato “Comunità europea”, che è stato sostituito dall’Unione europea, e a fortiori anche all’aggettivo “comunitario”. Quest'ultimo, se pure continua a essere utilizzato nel linguaggio atecnico assieme al contraltare “extracomunitario”, non poteva più essere adoperato nei testi ufficiali per ovvi motivi di correttezza. Serviva da subito un’alternativa pratica, tanto più che in inglese, la lingua da cui più si traduce, il sostantivo Union assume facilmente una funzione aggettivale. Nel 2011 i traduttori della Commissione, ancora una volta sostenuti in questa loro perorazione dalla Crusca e dal CNR, lanciarono la proposta di adottare il neologismo “unionale”, iniziando, sia pure con la doverosa cautela che si impone in questi casi, a utilizzarlo là dove non fosse possibile ricorrere a perifrasi come “dell'Unione” o “dell'UE”.


A distanza di qualche anno dalla proposta dei traduttori italiani, “unionale” non sembra ancora essersi del tutto affermato nel linguaggio comune. Ma quello che mi premeva sottolineare è come i servizi linguistici delle istituzioni europee siano un grande laboratorio sul piano non solo dell'uso corretto della lingua, ma anche della neologia ai fini dell'integrazione politica e culturale, e come per certi versi il loro lavoro sia il risvolto pratico dell'attività di riflessione condotta su questi stessi temi in ambito accademico.


Per riecheggiare il titolo di questa giornata di studi, proprio il difficile equilibrio tra rispetto dell'identità e creazione di una nuova cultura paneuropea alla luce di questa straordinaria esperienza di contiguità di popoli, lingue e culture diverse che è l'Unione mi sembra la vera ragion d'essere dell'attività di traduzione delle istituzioni europee. Forse una singola identità europea non esiste e non esisterà mai, forse l'Europa è destinata per sua stessa natura a mantenere un carattere policentrico, a rimanere “unita nella diversità”. Ma ciò che conta è che le diverse componenti che compongono la cultura europea siano convertibili, trasferibili l'una nell'altra.


In altri termini ciò che conta non è che le frontiere scompaiano, ma che diventi facile attraversarle. E tradurre, in fondo, non vuol dire proprio guidare da un posto all'altro?




 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482