Varianti d’autore: Il «Dialogue Sur Le Coloris» di Roger De Piles dal 1673 al 1699
Riassunto
Abstract
Italiano | IngleseDue edizioni del [i : i] Dialogo sur le coloris [/ i : i] sono stati pubblicati durante la vita di Roger de Piles ( 1635-1709 ), il primo nel 1673 e il successivo nel 1699, lo stesso anno in cui De Piles è diventato consigliere onorario della Accademia Reale francese. Un certo numero di variazioni testuali minori ma significative tra le due edizioni sono finora passate inosservate. Questo artivolo si concentra su di esse elencandole per la prima volta e illustrandone il contenuto, dimostrando che sono state scritte da de Piles stesso, riflettendo cambiamenti nei suoi rapporti con l'Accademia e al suo direttore precedente, Charles Le Brun (d. 1690).
La recente, preziosa edizione critica del De arte graphica1 di Charles Alphonse du Fresnoy (1668) condotta da un team australiano ha evidenziato come sia il testo originario latino che la traduzione francese con commento curata in quello stesso anno da Roger de Piles (1635-1709) presentino nelle successive riedizioni varianti testuali, talora significative.2 È, la traduzione commentata di du Fresnoy, il vero debutto del giovane de Piles nella letteratura artistica francese,3 seguita, nel 1673, da un pamphlet autonomo in veste dialogica, il Dialogue sur le coloris, di cui esistono due edizioni pubblicate vivente l’autore (la seconda è del 1699), seguite da numerose ristampe e traduzioni postume, settecentesche.4 Curando assieme a Sandra Costa una traduzione italiana criticamente commentata e storicamente inquadrata di quest’ultima opera (DE PILES, 2016), ci siamo rese conto che la traduzione approntata parecchi anni fa, su mia richiesta, da Monique Gabellini basandosi sul testo del 1699 presenta cinque vistose differenze rispetto al testo dell’editio princeps del 1673 e che queste differenze (due espunzioni, due aggiunte e una modifica) costituiscono indisputabilmente cinque varianti d’autore: pur in assenza del manoscritto originale di de Piles, si può infatti affermare con buona sicurezza (soprattutto sulla base del loro contenuto) che non si tratta di varianti di tipo meramente stilistico, frutto di un qualche anonimo aggiustamento redazionale, ma costituiscono veri e propri ripensamenti critici dell’autore, sia pur di importanza ed impatto assai vari. Soprattutto, tali differenze smentiscono almeno in parte l’affermazione, all’apparenza autorevole nella sua gnomicità, fatta dal massimo specialista di de Piles, secondo cui entrambe le edizioni hanno “même texte, même editeur” (TEYSSÈDRE 1965: 642), al che avevo inizialmente creduto, anche perché la seconda parte è certa e vera.5
Come noto, il Dialogue presenta tre personaggi (l’io narrante, assai parco di interventi e di parole; il vecchio e colto Panfilo, gran sostenitore dell’importanza del colore – come l’accademico Gabriel Blanchard - e il giovane ed inesperto Damone, reduce da un soggiorno romano che gli ha fatto apprezzare l’importanza del disegno): i tre discettano sulla questione del colore e la sua funzione e valore in relazione al disegno, attestandosi infine su posizioni alquanto diverse da quelle all’epoca sostenute ufficialmente dall’Accademia parigina di pittura e scultura, soggetta all’imperio di Le Brun, campione della fazione poussinista e autore di un celebre “verdetto” sulla querelle, emesso appena pochi mesi prima della pubblicazione del Dialogue (TEYSSEDRE 1965: 153-197, specie 177; LICHTENSTEIN 1993: 153-168, 178-187, 205-225 e passim). Ora, tra la fine di p. 12 dell’edizione del 1699 e l’inizio di p. 13 compare una frase del tutto assente nell’edizione originale del 1673:
Ainsi le coloris comprend deux choses, la couleur locale & le clair-obscur. La couleur locale est celle qui est naturelle à chaque objet, & que le peintre doit faire valoir par la comparaison, & cette industrie comprend encore la connoissance de la nature des couleurs: c’est à dire de leur union & de leur antipatie. Et le clair-obscur est l’art de distribuer avantageusement les lumieres et les ombres, non seulement sur les objets particuliers, mais encore sur le general du tableau. Cet artifice, qui n’a été connu que d’un petit nombre de peintres, est le plus puissant moyen de faire valoir les couleurs locales, & toute la composition d’un tableau.6
Si tratta di una precisazione certamente utile a chiarire e articolare meglio il pensiero innovativo di de Piles in materia, anticipato già nelle sue Remarques a Du Fresnoy (DE PILES 1668a: 119-124; TEYSSÈDRE 1965: 106), ma tutto sommato è anche un po’ pedantesca e didascalica e poco aggiunge comunicativamente (anzi, forse qualcosa toglie) alla forza dirompente della dichiarazione di Panfilo – indubbiamente sorprendente in un’ottica albertiana, ma assai meno in quella post-leonardesca adottata da de Piles – che il chiaroscuro sia parte del colore, piuttosto che del disegno: non a caso, Damone e Panfilo continuano a discutere per un po’ della questione, concordando infine che il problema risiede soprattutto nell’inadeguatezza terminologica, nell’imprecisione e limitatezza del corrente lessico della critica d’arte, che rende difficile una piena e corretta articolazione e comunicazione del pensiero – ed è noto quanto spazio (non solo tipografico, ma concettuale) de Piles attribuisca alla definizione del lessico tecnico dell’arte, seguendo una tradizione essenzialmente aristotelica. È significativo, anzi, che la prima edizione del Dialogo si chiuda con una precisazione (peraltro soppressa nell’edizione definitiva del 1699) sul significato della parola “Gruppo” (inteso come raggruppamento degli elementi nella composizione di un quadro, e quindi elemento fondamentale nello sviluppo dell’inventio come dispositio): esso costituisce sì un concetto fondamentale della teoria artistica cinque-, sei- e settecentesca europea, cui de Piles ha dato un rilievo inedito e molto apprezzato in area britannica, ma l’inserzione a guisa di postilla, dopo la conclusione del dialogo, risulta del tutto incongrua, anche perché affatto avulsa dal discorso nella sua collocazione ectopica (p.n.n., ma [81]):
Ce terme à esté obmis dans son ordre. GROUPPE. Est un amas de plusieurs corps assemblez en un peloton: & l’on dit “grouppe de figures”, “grouppe d’animaux”, “grouppe de fruits” &c. Il y en peut aussi avoir de corps de diverse nature, & l’on dit telle & telle choses font grouppe avec telle & telle autres. Les Italiens disent groppo, qu’ils ont pris du mot Latin globus.7
Tralasciando di discutere qui la falsa etimologia inventata da de Piles per l’italiano “gruppo” (piuttosto che “groppo”), perchè ovviamente in realtà essa coincide invece con quella (celtico-germanica) della parola francese, va osservato che la spiegazione - ripresa e meglio sviluppata, infine, nel Cours (DE PILES 1708: 97-99 e 110-112) - condensa però un problema variamente trattato e affiorante nel commento alla traduzione del De arte graphica di du Fresnoy (DE PILES 1668a:97-99, 123, 125 e passim), specie con riferimento (oltre che alla disposizione) alla definizione chiaroscurale delle forme complesse. Soprattutto, essa corrisponde perfettamente, pressochè verbatim, alla definizione fornita da de Piles in quel breve e disordinato glossarietto dei termini dell’arte che viene inserito già nella prima edizione in francese del libro, in quattro pagine non numerate poste subito dopo la Prefazione e prima del testo vero e proprio e che viene ristampato tal quale (mancanza di ordine alfabetico compresa) nella seconda edizione, per scomparire solo nella terza edizione del 1684, dove viene sostituito da (o meglio, sussunto in) un indice analitico finale che non è commentato, ma che rinvia puntualmente alle pagine di testo che sviluppano i singoli concetti (cfr. DE PILES 1668a; DE PILES 1673b; DE PILES 1684). Si potrebbe pensare quindi che la presenza di questa aggiunta-postilla incongrua nel Dialogue sia il frutto di un’interferenza con la contemporanea seconda edizione dell’Art de peinture di du Fresnoy (l’editore è lo stesso), tanto più che esistono esemplari del 1673 in cui il Dialogue è stampato in appendice all’Art de peinture (come notato già da TEYSSÈDRE 1964: 375), sicchè de Piles, omettendo nell’edizione del 1699 l’aggiunta fuori luogo comparsa nella prima edizione del Dialogue, potrebbe aver voluto semplicemente rimediare a un incidente tipografico: è presumibile infatti che lo stampatore o editore abbia, per pura sbadataggine, sbagliato l’opera in cui inserire l’aggiunta (la riedizione dell’Art de peinture, appunto). Resta però il problema che nelle poche copie consultate dell’Art de peinture del 1673 la definizione di “grouppe” compare regolarmente nel glossario suddetto, anche se divisa a metà tra la fine di una pagina e l’inizio della successiva: si può allora postulare (e andrà verificato) che queste copie appartengano a una seconda emissione della seconda edizione, pubblicata per rimediare (ristampando solo le pagine del glossario) a un’omissione presente nella prima emissione e alla quale si era dapprima rimediato inserendo alla fine delle copie del Dialogue destinate a comparire in calce a l’Art la paginetta suddetta; risolto il problema di composizione/impaginazione con la seconda emissione, è probabile si sia tuttavia continuato a spacciare, anche individualmente, le copie del Dialogue dotate di aggiunta e stampate in eccesso.
Almeno parzialmente analogo ai due casi precedenti (in quanto costituisce esempio di glossa esplicativa apparentemente pleonastica) è il caso di un’altra brevissima aggiunta che occorre a p. 18 del testo del 1699, dove si specifica (rispetto a DE PILES 1673a: 19) che lo scultore cieco attivo a Roma di cui parla Panfilo (e che Damone sostiene aver conosciuto di persona nel suo soggiorno romano) è il cosiddetto Cieco “di Cambassi [recte: Gambassi], in Toscana”, al secolo Giovanni Gonnelli: può darsi che la decisione di rivelare il soprannome dello scultore cieco (col quale del resto l’artista era universalmente noto) sia stata determinata dalla notizia della morte frattanto accertata dello stesso, che consentiva perciò di consegnarlo alla storia (dove peraltro già l’aveva fatto entrare la biografia baldinucciana del 1688), liberandolo dall’anonimato prudente della cronaca contemporanea, donde peraltro l’aveva già tolto il ritratto famoso di Livio Mehus.8 Resta il fatto che nel Cours l’episodio dello scultore cieco viene riproposto (mantenendo in parte lo stesso testo del Dialogue del 1699) e addirittura sviluppato nella ripresa del concetto che il chiaroscuro dipenda dal colore e non dal disegno, ricorrendo peraltro a funambolismi argomentativi di filosofica sottigliezza, non banali e un po’ capziosi, giungendo a forzare, se non distorcere di fatto il concetto stesso di disegno, che così non viene più a coincidere con una nozione meramente grafica (DE PILES 1708: 328-333).
D’altro canto è appena il caso di notare che la figura storica di uno scultore che, diventato cieco, può tuttavia continuare a svolgere la propria attività (almeno come plasticatore e ritrattista) perché il tatto riesce a supplire perfettamente alla vista nella percezione del modello da riprodurre e nella sua riproduzione in creta o in cera (e quindi poi in bronzo) costituisce la riprova di quanto già osservato e financo teorizzato da vari scultori di professione, da Teofilo alias Ruggero di Helmarshausen (THEOPHILUS 1986: 37) a Lorenzo Ghiberti (GHIBERTI 1998: 108) et ultra (fino al Michelangelo cieco inventato da Sandrart: MAFFEI 2016), e cioè che solo il tatto riesce a “sentire” perfettamente nella scultura certe qualità (ad esempio la politezza della superficie scultorea) che l’occhio non sempre riesce a cogliere, indipendentemente dalle caratteristiche della luce (preferibilmente uniforme e temperata) in cui la statua è posta.9 Peraltro ciò mette in discussione tanto la questione della gerarchia dei sensi (in quanto applicata alla gerarchia delle arti figurative rispetto a quelle della parola), nel suo svolgersi da Leonardo (LEONARDO 1993: 103-133, specie 108-109 e 117-118) a Diderot (DIDEROT 1749: 10-12, 15, 20-21, 48-57, 101-108 e passim), quanto la distinzione (non tecnica, ma concettuale) che da Alberti (ALBERTI 1999: 4-5) a Michelangelo (in BAROCCHI 1960-1962, I: 82) viene tracciata tra “scultura per forza di levare” (cioè in pietra, marmo o legno) e “scultura per via di porre” (in creta, in cera, di fusione), onde quest’ultima veniva paradossalmente assimilata alla pittura. Tuttavia l’indebita (ma non certo inedita) estensione della nozione di disegno dall’ambito grafico a quello plastico qualcosa forse deve alle elucubrazioni teoriche quanto meno di Alberti.10
A parte ciò, si può osservare incidentalmente, vista l’occasione particolare del presente contributo, che i due esempi forniti dal testo francese (ed affatto estranei a Baldinucci) relativi alla dimostrazione dell’abilità di questo scultore e della sua effettiva cecità (dapprima il ritratto del Duca di Bracciano, al secolo Paolo Giordano Orsini, realizzato al buio e in seguito quello di una damigella d’onore di sua moglie, eseguito nelle stesse circostanze e infine la copia esattissima di una celeberrima statua antica, la Minerva della Galleria Giustiniani, ora nei Musei Vaticani) sono incentrati su due aristocratici romani notoriamente interessati alle arti e fortemente legati a Genova, il primo (gran committente di scultori, tra cui Bernini) per matrimonio (DBI, LXXIX: 694-697), il secondo invece perché esponente di una famiglia di origine genovese (dalla colonia greca di Chio) la quale, teste il Baldinucci, in seguito avrebbe contribuito, con altri suoi esponenti minori, all’affermazione romana del Gonnelli, mentre grazie a Vincenzo e alla sua collezione (di sculture antiche, certamente, ma anche di dipinti) aveva già assunto risonanza europea (DANESI SQUARZINA, 2003 e GALLOTTINI, 1998), anche in virtù della riproduzione a stampa dei pezzi eccellenti di scultura antica della sua collezione (tra cui appunto la celeberrima Minerva),11 non solo nei due volumi della Galleria Giustiniana (1631-1635), ma anche in altre opere di diffusione europea, dai Segmenta nobilium signorum et statuarum di François Perrier (1638, opera ripubblicata più volte, a Parigi e a Roma, fino alla seconda metà dell’Ottocento) alla Teutsche Academie del Sandrart (1675).
Ma, tornando al Dialogue e alle ultime due varianti testuali restanti, più corpose non solo fisicamente, esse riguardano brani che, presenti nella prima edizione del 1673, vengono viceversa espunti o almeno profondamente modificati nell’edizione definitiva del 1699: il primo compare a p. 48 (corrispondente a DE PILES 1699a: 43-44), dove Panfilo e Damone riflettono sulle differenze tra la condizione dell’arte e degli artisti nel Rinascimento italiano e al presente, in Francia. Mentre Panfilo si cala nella parte di laudator temporis acti biasimando l’eccessiva venalità degli artisti coevi, indifferenti all’arte che praticano ma interessati solo ad arricchirsi, Damone lo stuzzica, chiedendogli se le sue riflessioni si applichino proprio a tutti i contemporanei. La risposta di Panfilo è, prevedibilmente, negativa e ammette che anche tra i contemporanei esistono artisti bravissimi e che trovano adeguato riconoscimento da parte dei committenti:
Quand il n’y auroit que Monsieur L.B. – ajoûtay je -, il en vaut bien luy seule une infinité d’autres.
Monsieur L.B. – reprit Pamphile, d’un ton fort serieux – est un homme d’un si rare merite, qu’on ne peut sans luy faire tort, le méler parmi les autre peintres: et comme je n’ay point de termes pour le loüer assez dignement, Vous me dispenserez, s’il Vous plaist, de Vous en parler. Souvenez-Vous seulement que nous avons dit cent fois en nous entretenant de son merite, que jamais peintre n’a plus fait d’honneur à la peinture que celuy-là.
Il n’est pas necessaire – luy dis-je – que vous m’en parliez davantage, vous m’avez fait assez connoistre dans plusieurs rencontres, l’estime particulier que Vous en faisiez. Mais reprenons nostre discours.12
Non è difficile capire che il pittore vivente (iniziali L.B.) i cui meriti eccezionali supererebbero l’eloquenza di Panfilo è [Charles] Le Brun, il pittore del Re e il “dittatore” del gusto accademico parigino, nonché – di conseguenza - il vero bersaglio delle critiche esplicite ed implicite di de Piles nella sua polemica contro i poussinisti e i fautori della supremazia del disegno sul colore, così come è evidente, di là dallo scambio di affettate e generiche lodi in suo favore, che né Panfilo, ne l’io narrante provano per Le Brun alcun vero entusiasmo, e anzi, la fredda e manierata valutazione espressa dai due - solo apparentemente positiva, ma a ben vedere velatamente ostile -, può non esser colta solo dalla giovanile inesperienza e irruente superficialità di Damone, non certo dal navigato lettore coevo che, prima ancora di essere artista o dilettante, è verosimilmente un esperto cortigiano.13 È ovvio, quindi, che questa imbarazzata ed imbarazzante quanto inefficace captatio benevolentiae venga convenientemente soppressa nell’edizione definitiva del 1699, quando, morto Le Brun già da qualche tempo e sostanzialmente vinta la battaglia accademica a favore del colore, de Piles, il 25 aprile di quello stesso anno, viene nominato Consigliere Onorario dall’architetto Mansart (divenuto da qualche mese protettore dell’Accademia Reale), marcando così in modo formale il definitivo trionfo delle sue idee in Accademia, già realizzato in pratica con il rinnovamento generazionale del corpo accademico, in cui tutti i principali pittori (molti dei quali studenti dell’Accademia di Francia a Roma all’epoca del primo viaggio italiano di de Piles) sono ormai convinti seguaci delle sue idee (in parte grazie anche agli incontri bolognesi e romani con Malvasia). Logico, dunque, che nel momento della sua consacrazione ufficiale, de Piles decida di sopprimere un brano che non appare solo innaturale (forse perché suggeritogli, all’epoca, da qualche amico benintenzionato, per prudenza diplomatica) e per di più ormai del tutto inutile (una vacua digressione rispetto alla linearità del discorso critico proposto), ma che addirittura conserva in sé traccia e perciò memoria di una guerra ormai vinta, che non conviene certo eternare.
Infine, l’ultima variante di qualche rilievo tra le due edizioni è costituita da un brano che, rispetto alla prima edizione (DE PILES 1973a: 71), viene profondamente alterato in quella definitiva (in parte soppresso, in parte molto mitigato): in questo caso, però, il mutamento ha forse un po’ meno a che vedere con questioni di opportunità politico-diplomatica (che pure sussistono in misura minore) e un po’ più con il labor limae dell’autore, attento all’efficacia comunicativa e al perseguimento del miglior risultato ai fini della persuasione, ma anche consapevole che, vinta la partita e pressochè scomparsi gli oppositori in Accademia, può essere conveniente parcere subiectis, senza contare che la vis polemica non appare più giustificata. Una riformulazione della critica in termini più blandi può riuscire maggiormente funzionale, oltre che elegante.
Nella prima edizione, a Damone che rivendica la qualità estetica dei quadri visibili nelle collezioni parigine Panfilo risponde confermando il giovane amico nella sua opinione, ma anche sollecitandone il senso critico, ad esempio facendogli osservare che tanta bellezza non trova spesso un gusto capace di comprenderla, neppure tra i pittori:
mais il semble que la veuë des ces beautez ne serve qu’à jetter la pluspart des peintres dans une profonde letargie, au lieu de les éveiller et leur ouvrir l’esprit. C’est une insensibilité pour ces choses-là que je ne conçois pas. Vous direz qu’ils sont comme ces oiseaux de nuit ausquelles la lumiere du soleil est inutile, & qui ne sçauroient mesme la supporter. En effet, ils regardent avec admiration les ouvrages d’un Pietre Teste, qui sont un chaos d’extravagances, et ils ne connoissent pas seulement le nom d’Otho Vaenius, dont les ouvrages meritent asseurement beaucoup de loüanges (DE PILES 1673a: 71-72).14
Nella seconda edizione il brano viene fortemente abbreviato e riformulato con maggior incisività, ma anche mitezza espressiva (DE PILES 1699a: 63):
“mais quoique tout le monde les regarde, tout le monde ne les voit pas: & ce que chacun y voit n’est que par rapport à sa connoissance. Je vois par example que la foule des nos peintres admire les ouvrages de Pietre Teste, qui sont un chaos de bizareries, pendant qui ne connoissent pas seulement le nom d’Otho Vaenius, dont les ouvrages meritent asseurement beaucoup de loüanges”.15
Il paragone dei pittori contemporanei (accidiosi e letargici di fronte a quella bellezza che dovrebbe risvegliare in loro lo spirito virtuoso dell’emulazione) con uccelli notturni, incapaci di reggere con lo sguardo la luce del sole viene espunto per intuibili ragioni: è una parafrasi troppo trasparente della litote “non sono aquile” ed anche dell’affermazione “brancolano nel buio”. Come noto, nessun mediocre è in grado di accettare una critica fondata e anzi si offende della verità (mentre non esiterebbe, ovviamente, ad accettare la menzogna di un elogio, benchè immeritato): è facile immaginare quindi, nel fervere della querelle tra poussinisti e rubenisti, l’irritazione e l’ostilità scatenate tra gli accademici dalla formulazione originaria, e, in seguito, quanto controproducente ed oltre tutto erronea ed ingiusta – a distanza di una generazione anche accademica – dovesse suonare quella stessa frase, quando i nuovi accademici condividevano ormai nell’insieme la posizione di de Piles: ovvio che andasse riformulata, e la brevitas gnomica della riformulazione, estendendosi a “tout le monde” e quindi colpendo genericamente tutti, non colpisce in realtà nessuno – soprattutto non colpisce esplicitamente i pittori. A parte, si potrà osservare che nell’emblematistica accademica europea non mancano imprese con aquile che fissano lo sguardo nel sole: in ambito artistico, ad esempio, è proprio questa l’impresa di Ludovico Carracci (PACE 2004: 122-123, figg.12 e 13; 133), pittore abbastanza caro a de Piles. Non è probabile però (e tuttavia non è impossibile) che de Piles ne fosse consapevole.
La cecità dei suoi connazionali e coetanei dell’Accademia, tanto più colpevole perché mentale ed estetica (e quindi ben diversa da quella fisica del Cieco di Gambassi) trova conferma e riscontro nelle loro scelte di gusto, quali la preferenza accordata ad un pittore minore e stravagante come il lucchese Pietro Testa, che de Piles evidentemente non apprezza (già nelle Remarques a Du Fresnoy l’aveva tirato in ballo come esempio di pittore la cui immaginazione produce mostri inverosimili: DE PILES 1668a: 76, commento v. 66).16 Eppure Testa pittore, di là dalle sue proclamate propensioni classiciste emergenti da una parte della sua produzione, specie grafica, e dai suoi scritti (CROPPER, 1984), è famoso anche per il suo gusto (invero assai particolare) per il colore, che in effetti lo distingue da altri classicisti più esangui (tipo Domenichino, suo primo maestro), ma in un senso idiosincratico e (anti)naturalistico che proprio per questo, probabilmente, doveva spiacere a de Piles, il quale, nell’Abrégé, non esita a parlare di “ses mauvaises couleurs” e della “dureté de son pinceau”.17 Inoltre, seguendo (in mancanza di quella del Passeri, rimasta manoscritta fino al Settecento) la breve biografia di Sandrart, ne sottolinea la conoscenza dei classici della scultura antica, testimoniata dagli studi sull’antico nella solita Galleria Giustiniani, apertagli giustappunto da Sandrart (SANDRART 1675: 202 e 210; SANDRART 1683: 190 e 197),18 ma ne enfatizza contestualmente l’irregolarità di vita, in modi, più che da bambocciante, da vero e proprio pitocco bohémien: “il vivoit dans la dernière misere”, “dans un pitoyable état”, “demi brute”, “il etoit si sauvage & si misantrope”. Naturalmente tale irregolarità di vita, congiunta a “tant de fogue & de libertinage de Génie”, non poteva che essere un impaccio nell’arte, dove perfino nella grafica (che, a giudizio non solo di de Piles, è la sua parte migliore, dimostrandovi “beaucoup d’imagination, de gentillesse & de pratique”) rivela “peu d’intelligence dans le clair-obscur, peu de raison et peu de justesse” (DE PILES 1699b: 245-246). Tanta ostilità nei confronti di un pittore italiano minore (e probabilmente a lui noto, all’epoca, esclusivamente grazie alle stampe, o quasi) si giustifica solo considerando che, parlando del lucchese, de Piles in realtà volesse colpire indirettamente qualcuno, francese, a lui più vicino: non tanto Poussin (al quale pure Testa è stato spesso avvicinato), o Félibien (che di Testa tratta nel III volume degli Entretiens, pubblicato solo qualche anno dopo, nel 1679: FÉLIBIEN 1725, III: 509-511),19 quanto qualcuno influente che già negli anni Sessanta, in ambito accademico, gli dimostrasse qualche stima e ammirazione. Se a François Collignon si poteva imputare la diffusione delle stampe di Testa con esattissime copie a ricalco (FUSCONI e CANEVARI 2014: 123-124),il che contribuiva alle fortune francesi del lucchese, è forse piuttosto ad accademici come Errard, o Mignard (frequentatori, come du Fresnoy e Perrier, di Testa a Roma) che si deve pensare come ai veri bersagli di de Piles (FUSCONI e CANEVARI 2014: 30).
Quanto a Otto Venius (cioè van Veen), cui de Piles dedicherà un medaglione fortemente elogiativo nell’Abrégé (DE PILES 1699b: 390-392), è appena il caso di ricordare che, pur non essendo particolarmente famoso in Italia a dispetto di un soggiorno relativamente lungo, ha però il merito storico di essere stato il maestro di Rubens, che a sua volta era l’artista prediletto del Duca di Richelieu e soprattutto – o di conseguenza - il preferito di de Piles, il suo vessillo di guerra nella battaglia contro il partito poussinista dell’Accademia, che purtroppo schiera, accanto all’ambizioso e politico Le Brun, il rigoroso Philippe de Champaigne. Va anche detto che il nome di van Veen nel Dialogue appare legato soprattutto alla sua attività di incisore (DE PILES 1673a: 72; TEYSSEDRE 1965: 196). Né va sottovalutato che, nel passo su riportato, si tratta di un nederlandese (più esattamente un olandese di nascita che ha trascorso buona parte della sua vita ad Anversa) opposto a un italiano, anzi, a un toscano come Testa: ora, anche grazie al toscano Vasari (e poi al romano Bellori, legatissimo al côté Errard-Le Brun) è la tradizionale linea accademica tosco-romana fautrice della preminenza del disegno che viene sposata dall’Accademia francese di Le Brun (davvero, Sir Joshua Reynolds non sbaglia molto, nel suo IV discorso alla Royal Academy, a definire la scuola francese nient’altro che “una colonia della scuola pittorica romana”: REYNOLDS 1959: 62-63), mentre a lungo vi viene ignorato quel côté lombardo/veneto che con i nederlandesi condivideva non certo lo stile, ma l’interesse per il naturalismo e il colore - e naturalmente non si deve dimenticare che la Lombardia del Sei-Settecento è coestensiva all’attuale “Padania” e che quindi comprendeva Bologna e quella scuola bolognese, dai Carracci in poi, che la deviante lettura romana di ieri e di oggi considera campionessa del classicismo, mentre la lettura di Malvasia – sposata da de Piles prima, e da Sir Joshua Reynolds poi, in quanto questi conosceva gli scritti di entrambi – le considerava esponenti di un naturalismo temperato che (a parte alcune devianze: l’Annibale Carracci romano e taluni suoi allievi come Domenichino e in parte Albani) trovava in Ludovico Carracci il proprio primo e massimo esponente – a prescindere dalle sperimentazioni tarde, più spiritualistiche e intellettualistiche.20
Per de Piles, il cui gusto si era formato, a Parigi, con artisti in qualche misura eccentrici (dal frate Luca recolletto a un du Fresnoy reduce da Roma, ma non troppo romanizzato) e grazie a contatti con collezionisti di rango come il duca di Richelieu, i lombardi e i veneti erano, in ambito italiano, i naturali referenti, in quanto corrispettivo di quella pittura nederlandese (fiamminga, prima ancora che olandese) che aveva per prima ammirato e che meglio conosceva. I suoi rapporti italiani (con Malvasia, ad esempio: PERINI FOLESANI, 2012 e PERINI FOLESANI, 2013) rientrano in questo schema (in parte anche con l’aiuto del caso: si pensi al lungo soggiorno a Venezia come segretario di ambasciata), talmente ovvio che quando, nel 1756, viene tradotto in olandese il Cours de peinture par principes (DE PILES, 1756), il testo di de Piles vi viene significativamente abbinato alla traduzione del Dialogo della pittura detto l’Aretino di Ludovico Dolce (1557) che, riprendendo le idee di Paolo Pino (1548), coniugava la querelle disegno vs colore all’emergente antivasarismo settentrionale (ROSKILL 2000: 316; SOHM, 1995).
Del resto, non c’è dubbio né che de Piles conoscesse il libro di Dolce (e forse anche di Pino), né che il suo Dialogue ne costituisca, in qualche modo, una deliberata ripresa e un aggiornamento/adattamento al contemporaneo dibattito francese, forse perché proprio da esso ispirato: lo dimostra fuor d’ogni dubbio, nel suo testo, lo scambio tra Panfilo e Damone sulla valutazione comparativa di Tiziano e Raffaello (DE PILES 1673a: 36-38 e DE PILES 1699a: 33-35), in cui, con un deliberato coup de théâtre, non solo de Piles fa proclamare, a sorpresa, proprio a Panfilo (il gran difensore del colore e il committente di una copia accurata dei Baccanali di Tiziano) la superiorità di Raffaello, ma sottolinea quest’inaspettato ribaltamento della posizione espressa da Dolce (che viceversa aveva fatto sancire la superiorità di Tiziano dall’Aretino: BAROCCHI 1960-1962, I: 141-206, specie 187 e 200-206) con lo stupore di Damone, che costringe Panfilo a motivare la propria scelta. Naturalmente questo non può non sfuggire a critici francesi attenti al contesto accademico nazionale coevo a de Piles e che semmai sono colpiti dalla sostituzione qui effettuata dell’italiano Raffaello all’autoctono Poussin, proposto come modello accademico da Philippe de Champaigne. Va detto peraltro che in Accademia si possono trovare, già prima dell’intervento di de Piles, diversi estimatori dell’eccellenza assoluta di Raffaello, da Le Brun a Félibien.(TEYSSEDRE 1965: 76-77, 80, 90-91, 100). Ci si può chiedere però se, nella decisa e deliberata contrapposizione di de Piles a de Champaigne nelle questioni accademiche non giochi anche, sotto traccia, una ben più forte e viva contrapposizione confessionale, perché de Piles è di famiglia convintamente cattolica, mentre de Champaigne, come noto, risulta legatissimo ai giansenisti.
A questo punto comincia ad essere evidente l’importanza che il Dialogue ha avuto non solo nell’ambito della nascita di un’autonoma letteratura artistica francese o nello sviluppo del pensiero di Roger de Piles (ambiti già ampiamente indagati e chiariti da Teyssèdre, cui è raro poter aggiungere qualche minima postilla), ma più in generale nel rapporto biunivoco, di dare e avere, che unisce indissolubilmente questa e altre opere di de Piles alla letteratura artistica europea, italiana da un lato, britannica e germanica dall’altro. (Che invece non esistano riscontri noti in Spagna non stupisce: senza contare ragioni politiche più ampie, di sempiterna e latente rivalità politico-militare tra Francia e Spagna, già da un punto di vista meramente estetico è nota l’indifferenza di de Piles per la pittura spagnola, testimoniata anche dall’assenza di un capitolo sull’arte iberica nell’enciclopedico Abrégé, forse perché essa veniva sentita come oscillante tra un Murillo che doveva sembrargli un Le Nain zuccheroso e uno Zurbaran che poteva parergli un Pietro Testa più legnoso, mentre Ribera, peraltro inserito tra gli italiani, poteva essere interpretato come l’ennesimo seguace di Caravaggio: il solo Vélazquez, forse, avrebbe potuto creargli il problema di un’arte dal pennello felice, ma dall’invenzione specie mitologica un po’ troppo disinvoltamente e indecorosamente plebea, peggio di Rubens).
Dunque riproporre in traduzione italiana il Dialogue significa ripensare il rapporto di de Piles con l’Italia quasi ab origine, approfondendone i riferimenti alla nostra tradizione addirittura anteriormente al suo primo soggiorno italiano, quando la conoscenza della nostra arte era ancora mediata da quanto disponibile nelle collezioni parigine (anche sotto forma di copie di quadri famosi, disegni e stampe) e dai testi a stampa ivi reperibili, magari segnalatigli dagli amici – da du Fresnoy prima, Mignard e Tortebat poi - e fors’anche reperibili in Accademia. In tale contesto, ai fini della traduzione italiana (che ambisce anche a supplire alle difficoltà di un’edizione critica in lingua originale poste da concezioni e tradizioni ecdotiche troppo diverse tra Italia e Francia, financo incompatibili) diventa imperativo stabilire il testo dell’opera, stante la presenza ormai accertata e significativa di varianti. Di norma, il testo da seguire dovrebbe logicamente essere quello considerato definitivo dall’autore, e visto che, come si è detto, tutte le varianti si dimostrano autoriali, l’edizione del 1699 dovrebbe testimoniare la sua ultima e definitiva volontà, senza contare che è questo il testo che viene diffuso da tutte le ristampe, riedizioni e traduzioni posteriori, peraltro tutte postume – ed è quindi quello oggi più facilmente reperibile. Certo, le varianti testuali vanno comunque segnalate in nota, ma la ragione per cui si è deciso, infine, di prendere viceversa come base la prima edizione non è solo la sua relativa rarità, ma è che si è voluto dare maggior peso alla prima intenzione e idea originaria dell’autore e alla sua forza espressiva “partigiana”, piuttosto che ai posteriori ripensamenti e appianamenti, di origine in varia misura “politica” o “diplomatica”: si è voluto mantenere, cioè, il testo nella sua versione originaria, sottolineando, proprio attraverso la marginalizzazione del riferimento in nota per le successive aggiunte ed espunzioni, la marginalità da glossatore di parte degli interventi autoriali successivi e d’altro canto, si è voluto dare così miglior rilievo a ciò che intenzionalmente si è voluto cancellare dalla memoria e dalla storia. Soprattutto, per quel che mi riguarda, si è voluto far conoscere il testo che ha impostato la guerra e determinato la vittoria finale, non quello pacificatore, modificato dopo la vittoria.
Note
↑ 1 Nella trascrizione dei passi variati, non essendo una francesista, mi sono qui attenuta in parte ai principi standard dell’ecdotica italiana (in rapporto alla normalizzazione, ovvero ammodernamento dell’uso delle maiuscole e della punteggiatura) e, in parte, per l’ortografia, sono stata assolutamente conservatrice e ho seguito pedissequamente il testo secentesco francese, senza alcun ammodernamento o scioglimento, mantenendo perfino le note tironiane che mai conserverei in italiano. Nel libro, in corso di stampa, alla traduzione italiana viene posposta la ristampa anastatica del l’editio princeps.
↑ 2 DU FRESNOY 2005: 176-177 e, per le varianti testuali delle varie edizioni del testo latino, le note alle p. 178-210. Sulla traduzione francese di de Piles, le sue integrazioni, le sue varianti, la sua fortuna, vedi DU FRESNOY 2005: 31-36, 47, 117-119, 403-409, 425-427, 439-441, 463-482, 514-515 e passim.
↑ 3 Per la biografia di de Piles è ancora utile lo studio di MIROT 1924, ma vanno consultati, naturalmente, anche TEYSSÈDRE 1964 e 1965. Tra le voci biografiche di tipo enciclopedico, vedi SKLIAR-PIGUET 1996, p. 805-806 (con parecchie inesattezze) e, on line, a parte la voce in Wikipedia, quelle scientificamente più accurate di Th. Puttfarken (in htpps://dictionaryofarthistorians/piles.htm) e di S.E. in arthistoricum.net. Pochi mesi prima del Dialogue, De Piles aveva pubblicato un breve testo relativo all’anatomia per artisti, ad accompagnare le tavole incise da Tortebat: DE PILES 1668b. Anche questo volume risulta strettamente legato all’attività dell’Accademia reale di pittura e scultura di Parigi, con cui de Piles mantenne per tutta la vita un rapporto fortemente dialettico, fino alla sua trionfale, ma tardiva nomina a Consigliere onorario nel 1699.
↑ 4 Per uno schema di tutte le edizioni e ristampe e traduzioni sei, sette e anche ottocentesche degli scritti di de Piles, vedi Appendice I, in DE PILES 2016.
↑ 5 In realtà il fatto che, pur avendo lo stesso editore e lo stesso formato tascabile in 12°, la prima edizione avesse 82 p. e la seconda solo 70 avrebbe potuto far nascere il sospetto che vi fossero delle differenze testuali……
↑ 6 “Così il colorito comprende due cose: il colore locale e il chiaroscuro. Il colore locale è quello naturale ad ogni oggetto e il pittore lo deve far valere attraverso la comparazione: questa abilità comprende anche la conoscenza della natura dei colori, cioè della loro unione e della loro antipatia. E il chiaroscuro è l’arte di distribuire felicemente le luci e le ombre, non solamente sugli oggetti particolari, ma sulla totalità del quadro. Questo artificio conosciuto solo da un piccolo numero di pittori è il mezzo più potente di far valere i colori locali e tutta la composizione di un quadro”.
↑ 7 “Questo termine è stato omesso a suo luogo. GRUPPO. E’ un ammasso di più corpi, riuniti in un grappolo: e si dice gruppo di figure, gruppo di animali, gruppo di frutti etc. Ce ne possono essere anche di corpi di diversa natura, e si dice “le tali cose fan gruppo con le talaltre”. Gli italiani lo dicono groppo [sic, per gruppo], che han preso dal latino globus”.
↑ 8 Per la biografia cfr. BALDINUCCI 1846, IV, 620-629 e DBI, LVII: 679-680, dove è ricordato anche il ritratto realizzato da Mehus. Quanto al senso del Tatto dipinto in gioventù da Ribera (ante 1616) ed esemplificato da un cieco che, abbandonata su un tavolo una teletta con un ritratto dipinto, volgendole le spalle si mette a tastare con le dita il profilo di una testa di marmo (evidente commento figurativo al paragone tra pittura e scultura), l’identità talora suggerita di questi col Cieco di Gambassi non appare avvalorata né dalle date (che anzi recisamente la smentiscono), nè da un confronto fisionomico col ritratto di Mehus: tuttavia colpisce la somiglianza tra questa immagine (nuova interpretazione in chiave naturalistica del soggetto allegorico di uno dei Cinque sensi) e l’argomentazione di de Piles (soprattutto nello svolgimento posteriore del Cours) e vien fatto di chiedersi (stante che o in copia o in originale la serie di Ribera era probabilmente a Roma e che de Piles non vi era ancora andato, ma sicuramente aveva sentito più volte narrare da du Fresnoy le proprie esperienze romane, tra cui probabilmente la conoscenza col Cieco di Gambassi e forse anche il quadro dello spagnolo) se lo spunto non gli venga proprio, sia pur indirettamente, dal confronto tra la vicenda di Gonnelli e il quadro, casualmente apparentabile, di Ribera (per cui vedi ad es. SPINOSA 2003: 258).
↑ 9 Non a caso, di contro alla gerarchia platonica dei sensi che privilegia la vista come senso più nobile, il tatto è rivalutato in ambito aristotelico per la sua relativa certezza ed infallibilità, capace di sbugiardare gli “inganni dell’occhio”.
↑ 10 La questione è stata affrontata, tra l’altro, in termini più filosofici da LICHTENSTEIN 2008: 55-72 (anche con specifico riferimento a de Piles e alla sua influenza su Diderot) e anche 84-92.
↑ 11 DI COSMO e FATTICCIONI 2012: 450-452, scheda n. 54 e per le riproduzioni CD-ROM allegato: 226-229, n. 54. Sulle edizioni del Perrier, ibidem, 7-24.
↑ 12 “Quand’anche non ci fosse altri che il Signor L.B. – soggiunsi –, lui solo varrebbe un’infinità d’altri. Il Signor L.B. - riprese Panfilo in tono molto serio – è uomo di merito così raro che non lo si può accomunare agli altri pittori senza fargli torto: e siccome non ho parole sufficienti a lodarlo in maniera adeguata, vogliate dispensarmi, se così vi piace, dal parlarne. Ricordatevi soltanto quel che abbiam detto cento volte del suo merito ragionando tra noi e che mai pittore ha onorato la pittura più di lui. Non è necessario - gli dissi – che me ne parliate oltre, in vari incontri mi avete fatto conoscere bastantemente la stima particolare che ne fate. Ma riprendiamo il nostro discorso”
↑ 13 In realtà anche TEYSSÈDRE (1965: 196, nota 6) ritiene che il rispetto espresso per Le Brun sia “en partie sincère”: ma che così non sia lo dimostra proprio la rimozione (da lui non osservata) del brano nella seconda e definitiva edizione del 1699.
↑ 14 “sembra che la vista di questa bellezza non serva che a gettare la maggioranza dei pittori in un profondo letargo, anziché risvegliarli ed aprire loro la mente. C’è un’insensibilità che non capisco. Si direbbe che siano come uccelli notturni cui la luce del sole è inutile e che non saprebbero nemmeno sopportarla. In effetti ammirano le opere di un Pietro Testa, che sono un caos di stravaganze, e invece non conoscono nemmeno il nome di Otto Venius, le cui opere meritano sicuramente gran lode”.
↑ 15 “ma benchè tutti li guardino, nessuno li vede: e quel che ciascun vede è commisurato alla sua conoscenza. Vedo, per esempio, che la folla dei nostri pittori ammira le opere di Pietro Testa, che sono un caos di bizzarrie, e non conoscono nemmeno il nome di Otto van Veen, le cui opere meritano sicuramente gran lode”.
↑ 16 Giulia Fusconi (in FUSCONI e CARNEVARI 2014: 123-142, specie 130) discute il giudizio su Testa fornito da de Piles nell’Abrégé (1699) senza dar conto di queste anticipazioni, che chiaramente spostano i termini del problema a un periodo ben anteriore sia al primo viaggio in Italia di de Piles (1673-1674), sia a Félibien, (1679, consultato nella ristampa del 1685), da lei evocati a mo’ di spiegazione.
↑ 17 Se i “cattivi colori” (nel senso di innaturali) qualificano comprensibilmente la scarsa produzione pittorica di Testa, la “durezza del suo pennello” non può non evocare il giudizio non meno tagliente sulla pittura di Poussin fornito nelle Reflexions in calce alla sua lunga biografia inserita nell’Abrégé (DE PILES 1699b: 469-477 e, per le Reflexions, 477-481, specie 477): “le nud de ses figures tient beaucoup de la pierre peinte & porte avec luy plutôt la dureté des marbres” . Tangenze tra l’opera di Testa e quella di Poussin sono state ricordate anche in CROPPER 1988: xxix; ed EADEM in FUSCONI e CARNEVARI 2014: 3-15, specie 3 e incidentalmente in TEYSSÈDRE 1964: 113. Quanto alle riflessioni di Testa su disegno, colore e chiaroscuro e alla probabile conoscenza di Leonardo, vedi Albl in FUSCONI e CARNEVARI 2014: 65-79, specie 68-74.
↑ 18 Sulla cultura classica di Testa e i suoi studi sulla statuaria antica, anche nella collezione Giustiniani, vedi DEMPSEY 1988 (nella sua stampa forse più celebre, Il Liceo della Pittura, inserisce una copia della Minerva Giustiniani) e inoltre FUSCONI e CARNEVARI 2014: 148-163.
↑ 19 Per un confronto tra le interpretazioni di Testa date da de Piles e da Félibien, vedi CROPPER 1988: xxx-xxxi.
↑ 20 Un capitolo indebitamente trascurato e insondato, tra i tanti relativi a un Ludovico Carracci troppo spesso, ancor oggi, sottovalutato e frainteso dai più è il rapporto suo e di suo cugino con artisti genovesi come Sinibaldo Scorza e Bernardo Castello. PAROLE CHIAVE: 1) Roger de Piles 2) querelle entre poussinistes et rubenistes 3) varianti di edizione