La lingua del giudice
Abstract
Francese | IngleseIl carattere magico della lingua del diritto, la sua capacità, cioè, di modificare la realtà, è particolarmente evidente nei provvedimenti del giudice. Nel contributo si delineano alcuni tratti tipici di questo tipo di testi, in particolare la natura composita della testualità della sentenza, per poi prendere in esame alcuni casi in cui il giudice riflette sulla lingua. La ricerca nella giurisprudenza delle conseguenze dell’oscurità del testo normativo rivela come tale oscurità si celi spesso in elementi linguistici all’apparenza inoffensivi, quali avverbi, preposizioni o congiunzioni, con conseguenze giuridiche rilevanti.
Scrivere una sentenza è difficile.1 La stesura di tale tipo di testo impone infatti all’estensore una competenza articolata in almeno quattro tipi testuali: narrativo ed espositivo (soprattutto nello svolgimento), argomentativo (nella motivazione), prescrittivo (nel dispositivo). Nelle pagine che seguiranno cercherò di enucleare alcuni tratti salienti di questa tipologia testuale composita, per poi soffermarmi su un tema nuovo: che cosa succede quando è il giudice a riflettere sulla lingua?
L’ampiezza dei temi trattati negli studi sulla lingua dei giudici, anche limitandoci alle Corti italiane, mi pare incanalarsi in due filoni principali: (i) la descrizione di tratti tipici della lingua delle sentenze; (ii) la proposta pratica di suggerimenti per una scrittura più chiara e fruibile.2
Non riproporrò qui un elenco di stereotipi già ampiamente trattati negli studi citati, quali l’anteposizione dell’aggettivo al nome (“l’avversaria pretesa”) o del verbo al soggetto (“ritiene la Corte”), le sovraestensioni dell’infinito in frasi completive (il difensore “chiede applicarsi” all’imputato la diminuzione della pena), o l’uso dell’imperfetto narrativo nel dispositivo, tipico delle sentenze della Corte di Cassazione. Basti rimandare alle considerazioni di Fausto Nisticò su questo linguaggio “immaginario, tale da sempre, custodito e tramandato gelosamente dalle curie, fatto per lo più di retorica e infiorettature, l’una e le altre destinate a realizzare quella funzione ad escludendum che fortifica il mestiere di avvocato e lo protegge da intrusioni e soddisfa ancora oggi la vanità di quanti giudici preferiscono scrivere che quel vecchietto che aveva chiesto un provvidenza economica deambulava con appoggio, invece che scrivere che camminava con il bastone o con il trespolo; od a quanti altri scrivono che il veicolo ha invaso la mezzeria non di sua competenza in quanto il manto bituminoso era stato reso sdrucciolevole dalle precipitazioni atmosferiche, invece che scrivere che l’auto(vettura) ha sbandato perché la strada era bagnata”.3 Tra questi Nisticò colloca i “latinetti”, per cui raccomanda le concordanze, “che non sempre sono corrette, specie quando ci si cimenta negli a quo, a quibus, ad quem, de quo, de qua, senza tener conto se il termine di riferimento sia singolare o plurale, maschile o femminile”, oppure le “espressioni dell’archeologia giudiziaria” come all’uopo, di guisa che, di tal che, l’istante (colui che ha presentato istanza) dispone farsi luogo, la responsabilità aquiliana, l’interventore adesivo, il soccombente insorgeva (??!) avverso la sentenza, la sentenza gravata, in dannata ipotesi, in odio (??!) al debitore, ecc.
Oltre al carattere composito già rilevato, due caratteristiche, a mio vedere, soggiacciono alla lingua delle sentenze: la necessità di disporre di termini della massima astrattezza, propria di un discorso incentrato su categorie e definizioni, e il dialogismo, la pluralità di voci che echeggia in questo tipo di testo. Alla prima proprietà si riconducono molti fenomeni tipici della varietà giuridica, come l’alta frequenza dell’articolo zero a favorire l’interpretazione astratta del nome (“è imprenditore artigiano colui che…”) o la produttività dei processi derivativi con il suffisso –ità, come nei neologismi irreclamabilità o infrazionabilità.4 A proposito della seconda, come nota Riccardo Gualdo:
Prima di saper scrivere, il giudice deve saper leggere e saper riassumere. Leggere da un insieme di scritture quanto mai eterogeneo per origine, tipologia, generi, ecc. Il primo effetto di questa pluralità di scritture è il continuo rischio di interferenze tra lingua comune, lingua giuridica e altri linguaggi specialistici. Il secondo effetto riguarda la testualità: la sentenza si presenta come un testo monologico; ma in effetti la gestione della parola d’altri vi introduce spunti di dialogicità, soprattutto, ma non solo, nella sezione narrativa. Insomma, il giudice è un po’ un Arlecchino, un istrione costretto a inserire nel suo copione voci diverse, a riversare e condensare in un testo scritto frammenti di discorsi orali e scritti, registrazioni confuse e mescidate di dialoghi tra una folla di attori e che si sono svolti in circostanze, situazioni e condizioni diverse.5
Uno dei fenomeni che mi paiono più interessanti è al contempo uno dei temi più elusivi nella storia del pensiero linguistico: la negazione6. Se l’uso degli astratti è “proprio di un discorso che verte sui principi, su categorie piuttosto che sul particolare” e “non è di per sé fonte di oscurità o di difficoltà interpretative”,7 lo diventa, nota Mortara Garavelli, se si innesta in complicazioni strutturali. Consideriamo un esempio tratto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, pur lodata per la “coerenza del ragionamento e la coesione dei suoi componenti formali”.8 Si noti nei due passi qui riportati, tratti dalla celebre sentenza (n. 364 del 24 marzo 1988) sulla ignoranza della legge penale, i “grappoli di astratti concatenati in complementi del nome” e le diverse negazioni combinate, “nel cui gioco è difficile per il non giurista orientarsi”:9
[…] le norme impugnate escludono ogni rilievo della carenza di coscienza dell’antigiuridicità della condotta.
L’art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, è costituzionalmente illegittimo […].
Se in molti casi il cumulo di negazioni è più un vezzo che una necessità, è anche vero che esso risponde a precise esigenze funzionali, e in particolare all’esigenza di rendere quella pluralità di voci che intesse la trama della sentenza. Una delle caratteristiche su cui converge la vasta letteratura sulla negazione in diverse lingue riguarda proprio la natura “polifonica”, o con altro termine, “dialogica”, della negazione frasale. L’enunciato negativo è, cioè, visto tipicamente come reazione al corrispettivo affermativo, o positivo, esplicito o implicito. Se enuncio, ad esempio: “Non è sua moglie” è perché qualcosa, nel contesto contiene l’asserzione o suggerisce l’idea che quella sia sua moglie. Scegliendo, tra le citazioni più note, Guglielmo Cinque:
L’uso della polarità negativa al posto della positiva comporta una presupposizione riguardo al contesto in cui tali frasi possono essere usate […] Chi nega una certa proposizione presuppone che nel contesto vi fosse contenuta esplicitamente o implicitamente la corrispettiva asserzione.10
Ecco delinearsi il perché di questi cumuli di negazione, ad esempio in sentenze, come quella della Corte costituzionale n. 230 (2012), in cui il giudizio di legittimità verte su entità già negative, come la “non considerazione” di una fattispecie, la “non previsione” – dell’ipotesi di revoca della sentenza di condanna […] in caso di mutamento giurisprudenziale intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (articolo 673 del codice di procedura penale) (vide infra).
Il secondo filone di ricerche si concentra sulla scrittura delle sentenze, proponendo, come Patrizia Bellucci,11 alcune “norme di base” per la redazione. Molte di esse interessano il livello morfosintattico, ad esempio: “Abituarsi a spezzare i periodi sovraestesi. Infatti, il periodo – per essere facilmente leggibile da tutti – non dovrebbe oltrepassare le 20-25 parole; questa soglia è ovviamente del tutto valicabile, ma, più lungo è il periodo, più alta deve essere l’abilità di redazione e più complesse e faticose saranno lettura, decodifica, valutazione”, oppure: “Limitare il ricorso a incisi e parentetiche”; “Evitare l’eccesso di subordinate, soprattutto implicite. Usare di più proposizioni esplicite con verbi di modo finito e limitare l’uso di proposizioni implicite con modi non finiti (participi presenti e passati, gerundi, infiniti)”.
Si consideri l’esempio che segue, su un’istanza di concessione edilizia presentata dalla società ricorrente e respinta con provvedimento dell’Assessore del Comune perché la superficie realizzata superava quella massima consentita dalle NTA: in esso, la lunghezza del periodo porta l’estensore a confondere il soggetto giuridico, cioè il Comune, che non ha richiesto il parere e non ha specificato la norma violata, con il soggetto grammaticale del gerundio (vale a dire la società ricorrente!):
La società ricorrente, quindi, impugnava il predetto provvedimento, contestandone la legittimità e chiedendone l’annullamento, per violazione delle regole di partecipazione procedimentale, per incompetenza, nonché per carenza di motivazione, non avendo richiesto il previo motivato parere del responsabile del procedimento e non avendo specificato la norma delle NTA violata. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, 1996)
Un secondo insieme di raccomandazioni concerne invece il lessico: “Mantenere i tecnicismi opportuni (eventualmente chiarendo i termini con glossa di definizione esplicita ogni volta che sia opportuno), eliminare al massimo pseudotecnicismi, burocratismi, arcaismi, perifrasi ridondanti, latinismi superflui, selezioni lessicali non trasparenti o ambigue”;12 “Ridurre l’eccesso di nominalizzazioni e cumuli nominali, di sostantivi astratti o indeterminati”; “Abbandonare – a favore della chiarezza e della precisione – la regola scolastica della variatio: in tutte le lingue specialistiche termini tecnici e vocaboli o espressioni puntuali vengono normalmente ripetuti, in quanto i sinonimi non hanno esattamente lo stesso significato e non sono altrettanto precisi”.
In realtà i più duri critici di questo tipo di fenomeni sono i giuristi stessi:
Lessico opaco, gergale, criptico, elusivo, e sintassi tortuosa. Persino i lettori esperti ogni tanto faticano a capire. Spira ipnosi dagli stereotipi: parole, sintagmi, frasi, interi discorsi, passano tali e quali in mille testi; l’asfissiante mimetismo esclude ogni parola viva. Quasi una scrittura automatica, alimentata dal ciclo sonnolento delle “massime”, dove astrazioni a maglie larghe sorvolano su qualità nient’affatto inutili alla diagnosi giuridica; alcune non corrispondono al clou deciso; e tali distonìe riproducono i vecchi arcana. Povero lo scandaglio nomenclatorio, deboli trame sintattiche: ai due difetti supplisce l’enfasi; quanto meno dicono, tanto più declamano. Correlativamente al deperimento espressivo-logico proliferano segnali allusivi, o così recepibili: condanne e proscioglimenti incidono su interessi individuali e collettivi; impossibile che atti simili nascano gratuiti; quando l’autore li formula in termini oscuri o ambigui, supponiamo che le ragioni effettive siano sommerse. Sensazione devastante. Risulta tossico anche l’eretismo dialettico: qualcuno esegue numeri da jongleur; ad esempio, ignaro del canone in claris non fit interpretatio, accumula pagine a dozzina ‘dimostrando’ come una formula legale dal senso ovvio significhi l’opposto dell’apparente, in guerra con lessico, ortografia, grammatica; o compone trattatelli imbellettandoli con una Begriffsjurisprudenz aliena dal quadro della decisione, e almeno fosse intenditore; spesso è uno stregone apprendista. Non sono difetti da poco ed essendo radicati nelle strutture (l’inquisizione secerne pensiero paranoide) o nei cromosomi culturali (quel latino bastardo, combinato ad astuzie avvocatesche, ha spento il gusto dei fatti), finché durino le matrici, costituiranno un dato naturale; in tali limiti suona velleitaria ogni proposta sui rimedi. Dipendesse da me, allestirei il tirocinio degli apprendisti su due regole: Prima: imparino a usare i testi legali; Incredibile quanta fumisterìa nasca dall’ignoranza degli articoli applicabili al caso. Seconda: dicano tutto quanto conta, scrivendo poco e chiaro.13
Eppure i giudici danno spesso prova di un sensibilità non comune al dato linguistico. Pensiamo alla qualità della redazione dei testi giuridici e amministrativi italiani, che è stata oggetto di studi e proposte importanti.14 Ebbene, a mio avviso, un contributo fondamentale viene da un punto di vista nuovo e complementare, che non guarda alla redazione dei testi, ma alle sentenze, al punto in cui, per così dire, i nodi vengono al pettine. In innumerevoli sentenze, infatti, la riflessione del giudice verte sull'uso di un avverbio, di una congiunzione, su una formulazione ambigua del testo normativo, con utili riflessioni per individuare i punti deboli nella scrittura di tale testo. Vediamo alcuni esempi:
Una serie di casi verte sull’interpretazione del connettivo ovvero, ambiguo, com’è noto, tra un valore disgiuntivo (inclusivo od esclusivo), come negli esempi ‘passo le vacanze al mare, a Capri ovvero ad Ischia’; ‘sei sordo, ovvero fai finta di non sentire’, ed un valore esplicativo, come ‘ossia, cioè’: ‘le isole maggiori del mar Tirreno, ovvero la Sicilia, la Sardegna e la Corsica’.15
Un primo caso, trattato dalla Corte di Cassazione penale, quinta sezione (n. 46340/2012), riguarda un sequestro di persona compiuto da cittadini statunitensi appartenenti alla CIA con la collaborazione di agenti del SISMI.
Dopo una serie di argomentazioni sulla giurisdizione, la sentenza si concentra sui motivi dell’impugnazione. Quello che ci interessa riguarda la denuncia di violazione della legge processuale da parte dell’imputato P., agente del SISMI, nella disposizione, da parte del tribunale, della sospensione della prescrizione ex art. 159 c.p., comma 1, n. 3 (par. 32.3 della sentenza).
Il citato articolo 159 del Codice Penale stabilisce che il corso della prescrizione rimane sospeso anche in caso di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di “impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore”.
Secondo il ricorrente, la sospensione sarebbe stata possibile soltanto in caso di esigenze personali dell'imputato o del suo difensore e non anche quando il difensore si fosse limitato a rappresentare al giudice una esigenza oggettiva che avrebbe imposto o consigliato il rinvio o la sospensione del processo; nel caso in questione si trattava dell’opportunità, riconosciuta dai giudici di merito, di attendere l’esito del giudizio della Corte Costituzionale sui conflitti di attribuzione.
Tale motivo di ricorso è dichiarato non fondato dalla Corte di Cassazione sulla base della presenza della congiunzione ovvero nel testo normativo a legare le due cause di sospensione - impedimento o richiesta delle parti – che le qualificherebbe come distinte.
“La congiunzione ovvero” – scrive il giudice estensore, “può avere una semplice valenza esplicativa - ad esempio, ‘verrò in ufficio fra tre giorni, ovvero mercoledì’ -, oppure un valore disgiuntivo – ‘siasi questa giustizia, ovver perdono’ (Tasso) - e, quindi, il significato di oppure”. Nel caso in questione, sostiene la Corte, “sembra evidente che il significato del termine ovvero sia disgiuntivo, nel senso che la sospensione è possibile quando vi sia impedimento della parte o del difensore, oppure quando vi sia richiesta delle parti”.
L'interpretazione proposta, conclude il giudice, è confermata dall’interpretazione logico-sistematica: il legislatore ha inteso giustamente evitare che si potesse pervenire alla scadenza dei termini di prescrizione attraverso una serie reiterata di rinvii ed ha, quindi, stabilito che quando venga disposto un rinvio a richiesta di parte si sospenda la decorrenza del termine di prescrizione.
In altri casi, la complessità è introdotta da modifiche successive al dettato normativo.
Secondo l’articolo 6 comma 3 della legge n. 40 del 6 marzo 1998 sulla “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno, è punito con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a lire ottocentomila”.
Come osserva la Corte di Cassazione penale sez. I (n. 37587/2014), la norma in questione indicava quattro tipi di documenti che lo straniero (senza alcuna distinzione tra legittimamente o irregolarmente presente sul territorio nazionale) era abilitato a esibire a richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza. L’esibizione di uno qualsiasi di tali documenti (‘il passaporto o altro documento di identificazione ovvero il permesso di soggiorno o la carta di soggiorno’) escludeva la sussistenza del reato. Il passaporto o un altro documento d’identificazione riguardavano soltanto la certa identificazione del soggetto, ma non avevano alcun rilievo ai fini della regolarità dell’ingresso e della giustificazione della presenza nel territorio dello Stato. Il permesso e la carta di soggiorno avevano, invece, la funzione di attestare la regolare presenza dello straniero in territorio nazionale e, al contempo, valevano alla sicura identificazione del soggetto. L’uso della congiunzione disgiuntiva ovvero attribuiva alle ultime due categorie di documenti (permesso, carta di soggiorno) valore di equipollenza ai primi due (passaporto, documento d’identificazione) ai fini dell’identificazione, con la conseguenza che l’esibizione di uno qualsiasi di tali quattro tipologie di documenti escludeva la sussistenza del reato. La ratio della norma veniva ravvisata nell’esigenza di procedere all’identificazione documentale dello straniero e non nella verifica della regolarità o meno della sua presenza sul territorio dello Stato.
La legge 15 luglio 2009, n. 94, art. 1 (comma 22, lett. H) sostituisce la congiunzione copulativa e alla congiunzione disgiuntiva ovvero del precedente testo normativo. La nuova disposizione, “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” apporta quindi la seguente modifica:
Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000.
L’effetto della modifica, che intendeva inasprire il precedente trattamento sanzionatorio, è quello di introdurre una contraddizione: come esigere la cumulativa esibizione dei suddetti documenti da parte dello straniero clandestino, il quale, per definizione, è privo del permesso di soggiorno (o di altro documento attestante la sua regolare presenza nel territorio dello Stato)?
A questo punto, la giurisprudenza aggira l’incongruenza introdotta dalla modifica! Decide infatti che l’omessa esibizione, da parte dello straniero illegalmente immigrato in Italia, del permesso o della carta di soggiorno non costituisce più reato, perché il possesso di uno di questi ultimi documenti è inconciliabile con la condizione stessa di straniero in posizione irregolare.16 Di conseguenza, come nota la prima sezione della Corte di Cassazione penale (n. 302/2012), la modifica ha in realtà circoscritto i soggetti attivi del reato di inottemperanza esclusivamente agli stranieri legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato, con conseguente abolitio criminis per gli stranieri extracomunitari irregolari!
L’interesse di cercare nella giurisprudenza le conseguenze dell’oscurità del testo normativo, come mostrano questi esempi, rivela come tale oscurità si celi spesso in elementi linguistici all’apparenza inoffensivi, quali avverbi, preposizioni o congiunzioni, con conseguenze giuridiche anche rilevanti (basti vedere la già citata sentenza n. 230-2012 della Corte costituzionale).
Lo studio delle riflessioni dei giudici sulla lingua apre una prospettiva nuova e complementare a quella degli studi menzionati in apertura. Il ruolo fondamentale che la lingua mostra qui di avere nel creare il diritto mette inoltre in luce le valenze “magiche” della lingua della sentenza, in particolare nella sua parte performativa: nel dispositivo, che non descrive, ma crea la realtà, si evidenzia infatti quel legame tra performatività e magia così ben disegnato dalle parole di Karl Olivecrona:
The sense of all truly performative statements is, indeed, magical. They purport to create something. That which is held to be performed is the creation of a non-physical relationship or property through the pronouncing of some words. Such doings fall under the category of magic.17
Note
↑ 1 A Sergio, al Master giuridico e a tante sue altre ottime idee (una versione cartacea di questo contributo uscirà nelle Giornate di diritto costituzionale, a cura di Roberto Romboli et al., Pisa University Press).
↑ 2 Tra gli studi principali ricorderemo: Bice Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Einaudi, 2001, pp. 155-187; Patrizia Bellucci, A onor del vero: fondamenti di linguistica giudiziaria, UTET, 2005; Giovanni Rovere, Capitoli di linguistica giuridica. Ricerche su corpora elettronici, Edizioni dell’Orso, 2005; Stefano Ondelli, La sentenza penale tra azione e narrazione, CLEUP, 2012; Maria Vittoria Dell’Anna, In nome del popolo italiano. Linguaggio giuridico e lingua della sentenza in Italia, Bonacci, 2013; sulla scrittura: Patrizia Bellucci, “La redazione delle sentenze: una responsabilità linguistica elevata”, in Diritto e Formazione V.3, 2005; Michele Cortelazzo, “La tacita codificazione della testualità delle sentenze”, in Alarico Mariani Marini (a c. di), La lingua, la legge, la professione forense, Giuffrè, 2003, pp. 79-86; Francesco Sabatini, “Strutture testuali e linguaggio delle sentenze”, Consiglio Superiore della Magistratura, 2004; Francesca Santulli, “La sentenza come genere testuale”, in ead. e Giuliana Garzone (a c. di), il linguaggio giuridico, Giuffrè, 2008; Riccardo Gualdo, “Riassumere, desumere, disporre. La sentenza: come è scritta e come dovrebbe essere scritta”, Scuola Superiore della Magistratura, 2014; Jacqueline Visconti, “La lingua del processo civile”, Scuola Superiore della Magistratura, 2015.
↑ 3 Fausto Nisticò, “Il linguaggio del magistrato del lavoro”, in Roberto Romboli (a c. di), I linguaggi del diritto: esperienze a confronto, Pisa University Press, 2013, p. 90.
↑ 4 Giovanni Rovere, op. cit., pp. 50 e 97.
↑ 5 Riccardo Gualdo, op. cit.
↑ 6 Si veda Maj-Britt Mosegaard Hansen e Jacqueline Visconti (a c. di), The Diachrony of Negation, John Benjamins, 2014; Stefano Ondelli e Gianluca Pontrandolfo, “La negazione multipla nei testi giuridici: veramente non si può negare che sia un tratto caratteristico?”, Rivista internazionale di tecnica della traduzione 16, 2014, primo studio quantitativo del fenomeno.
↑ 7 Bice Mortara Garavelli, op. cit., pp. 173-175.
↑ 8 Ead., “Profili argomentativi e stilistici dei testi in tipi di decisioni della Corte Costituzionale”, in Federigo Bambi (a c. di), Atti del Convegno su Lingua e processo civile (Accademia della Crusca, aprile 2014), in c. di stampa.
↑ 9 Ibid..
↑ 10 Guglielmo Cinque, “Mica: note di sintassi e pragmatica”, Teoria linguistica e sintassi italiana, Il Mulino, 1991 [1976], p. 313.
↑ 11 Patrizia Bellucci, “La redazione delle sentenze”, op. cit.
↑ 12 Ibid.
↑ 13 Franco Cordero, “Stilus Curiae”, Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1986, p. 33.
↑ 14 Basti ricordare gli splendidi lavori dedicati da Tullio De Mauro al “dissidio tra comprensibilità della legge e capacità linguistica dei destinatari” (“Obscura lex sed lex? Riflettendo sul linguaggio giuridico”, in Gian Luigi Beccaria e Carla Marello (a c. di), La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, Edizioni dell’Orso, 2002, p. 148); o di Roberto Zaccaria, La buona scrittura delle leggi, Camera dei deputati, 2012, “Il linguaggio del legislatore”, in Roberto Romboli, op. cit. e in questo volume, oltre alle iniziative dell’Accademia della Crusca e dell'ITTIG-CNR, quali la Guida alla redazione degli atti amministrativi (http://www.aquaa.it).
↑ 15 Francesco Sabatini, Vittorio Coletti (a c. di), Dizionario della lingua italiana, RCS Libri, 2007.
↑ 16 Costituisce invece naturalmente reato la mancata esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione, da parte del cittadino straniero presente, regolarmente o non, nel territorio dello Stato (Cassazione sez. un. 29 ottobre 2003, n. 45801).
↑ 17 Karl Olivecrona, “Legal Language and Reality”, in R. A. Newman (ed.), Essays in Jurisprudence in Honour of Roscoe Pound, Bobbs-Merril, 1962, p. 175 (su cui Jacqueline Visconti, “Speech Acts in Legal Language”, Journal of Pragmatics, 2009, p. 394).