L'immaginario del narcisismo a partire da La Fontaine
Il presente contributo intende proporre una lettura della favola di La Fontaine L'homme et son image in chiave interdisciplinare, attraverso il dialogo e la messa in relazione di apporti scientifici diversi. Tra questi sono preminenti, oltre alla letteratura, i presupposti psicoanalitici e la storia dell'arte, qui concepita in particolare come storia delle immagini nell'ambito di una più generale cultura visuale in rapporto dialettico con le parole del testo letterario.
Fig. 1 François Chauveau, L'homme et son image, 1668 [www.utpictura18.univ-montp3.fr]
Dietro le favole di La Fontaine si celano riflessioni che oltrepassano i meri fini moralistici e gli intenti precettistico-educativi. La sintesi delle composizioni, la musicalità dei versi e, soprattutto, le immagini a cui l'autore dà vita offrono allo sguardo complesse implicazioni che conducono verso epoche successive fino alla contemporaneità. Esempio mirabile ne è la favola L'homme et son image, costruita attorno alla riflessione circa la struttura identitaria dell'uomo ovvero il rapporto dell'individuo con la propria immagine costitutiva. Protagonista è colui che La Fontaine definisce “il nostro Narciso”, un Narciso diverso da quello classico che, a fronte dell'immagine negativa rinviatagli dagli specchi, vive contento nell'errore di credersi il più bello ed è per questo condannato dalla sorte a confrontarsi fatalmente con una pluralità di riflessi di se medesimo. Egli fugge gli sguardi speculari, ma infine un ultimo specchio “così bello” lo respinge e lo attira al contempo: un canale d'acqua, per natura superficie mutevole e cangiante. La favola si conclude con l'esplicitazione del parallelismo tra il canale d'acqua e il libro delle Massime di La Rochefoucauld con il palese omaggio a quest'ultimo. La Rochefoucauld è, non a caso, tra gli osservatori più acuti del rapporto tra l'uomo e la sua stessa immagine e in generale circa l'amor proprio che, secondo l'immagine da lui elaborata, muove e travaglia l'animo umano in un flusso e riflusso continuo. È lo stesso La Rochefoucauld infatti ad affermare: “L'amor proprio è amore di sé e di ogni cosa per sé, rende gli uomini idolatri di se stessi; […] nulla è più impetuoso dei suoi desideri, nulla è più segreto dei suoi progetti […], il mare ne è un'immagine sensibile e l'amor proprio trova nel flusso e riflusso delle sue onde continue una fedele espressione”.1
Questa concezione dell'amor proprio e dei suoi abissi imperscrutabili permette un superamento del mito classico di Narciso da parte di La Fontaine, intrecciando il rapporto narcisistico al travagliato processo di riconoscimento e di identificazione. L'amor proprio si lega a desideri e passioni profonde e rinvia non alla stasi immaginativa, ma a una dinamica processuale che implica il rapporto con l'altro esterno dal cui sguardo ritorna la nostra immagine come elemento connotativo e al tempo stesso estraneo. Si capisce, dunque, il motivo per il quale Jacques Lacan, nell'ambito dell'elaborazione della sua teoria sul narcisismo, veda in La Rochefoucauld – da lui definito ironicamente “drôle de type” ed “esprit frivole” − l'anticipazione della scoperta delle passioni inconsce, opposte all'imperante razionalismo cartesiano; e risulta anche comprensibile perché Roland Barthes definisca le Massime un luogo ambiguo, di passaggio tra classicismo e modernità, in cui ricorre costantemente l'interrogativo sul “chi sono?” e sull'identità che l'uomo si vede attribuire dall'esterno e che pertanto si definisce in termini restrittivi e limitativi.2
La letteratura esprime sul piano immaginario la profondità di queste riflessioni e ne dà forma a fronte del suo complesso compito che, come afferma Alberto Castoldi, “consente di inserire gli eventi all'interno di una struttura narrativa, dimostrandosi in grado di rendere conto in termini condensativi, ma efficaci, di una molteplicità di eventi apparentemente incongrui”.3
Questa è l'operazione in atto anche nella favola di La Fontaine: la condensazione del processo identificativo/riconoscitivo nella pluralità ed eterogeneità delle sue componenti, contestualizzato nel discorso sociale contemporaneo all'autore, porta su riflessioni ricche di implicazioni successive.
Fig.2 Jean-Baptiste Oudry, L'homme et son image, 1775 [www.utpictura18.univ-montp3.fr]
Il novello Narciso di La Fontaine non si riconosce nelle immagini rinviate dagli specchi, le rifiuta con sdegno, rifiuta la sua immagine: in realtà, che altro potrebbero essere gli specchi che lo attorniano se non gli stessi sguardi sociali in una società, quella seicentesca, fondata sul trionfo dell'apparire e dei sembianti sociali? La moltiplicazione speculare corrisponde alla moltiplicazione degli occhi degli altri che restituiscono un'immagine nella quale Narciso non accetta di riconoscersi, segno evidente dell’impossibile coincidenza del soggetto e della sua concezione identitaria con l’immagine riflessa dallo sguardo altrui, di cui pure necessita. Solo l'ultimo specchio lo respinge e irresistibilmente lo attrae. Escludendo, considerata la contestualizzazione nel XVII secolo, qualunque contrapposizione tra società e natura, un nuovo riflesso torna a Narciso dall'esterno, un riflesso mutevole per la superficie che lo genera. L'acqua è mutevole come l'immagine che rinvia ed è antropologicamente associata alla componente femminile, tanto che, come evidenzia Jean-Pierre Vernant, nell'antichità classica l'uso degli specchi era negato agli uomini per il loro pericolo mortifero, mentre era consentito alle donne le quali attraverso il riflesso costituivano la loro identità, passando da oggetto del proprio stesso sguardo a oggetto di sguardo e desiderio dell'uomo. Se l'identità femminile passa attraverso lo sguardo riflesso dello specchio e dell'uomo, quella maschile passa a sua volta dallo sguardo della donna ovvero dallo sguardo dell'oggetto desiderato e desiderante.4
Pertanto, il processo identitario non può escludere l'altro esterno o, meglio, gli altri, che restituiscono riflessi per definizione parziali e frammentari: riconoscersi nella propria immagine e in un corpo unitario, affermerà la psicoanalisi, implica una componente di estraneità dell'immagine e quindi un sentimento di odio e amore per la stessa, data la sua ineliminabile alterità. La Fontaine ne è consapevole ed ecco allora che il suo Narciso è infine costretto, nell'ambivalenza tra repulsione e attrazione, a confrontarsi con l'intima estraneità dell'immagine.
Immagini e giochi di specchi
Fig.3 Jacques-Louis David, L'homme et son image, seconda metà del XVII sec.
Le sollecitazioni offerte dal testo della favola hanno ispirato una serie di illustrazioni, incentrate sul momento culminante dell'incontro del protagonista con lo specchio d'acqua. Queste rendono il rapporto tra l'homme e son image solo iconograficamente, a un livello meramente illustrativo. Dalla prima rappresentazione seicentesca fino a quelle ottocentesche, al centro è posta la figura umana nella sua interezza, come corpo già costituito che si specchia e si ritrae disgustato. Sono questi i tratti comuni alle immagini di François Chauveau (1668), Jean-Baptiste Oudry (1755), Jacques-Louis David (seconda metà del XVIII secolo), Carle Vernet (prima metà del XIX secolo).[Figg. 1, 2, 3, 4]
Fig. 4 Carle Vernet, L'homme et son image, prima metà del XIX sec. [www.culture.gouv.fr]
Lo specchio d'acqua si colloca in un ambiente naturale, un luogo appartato, proprio dove La Fontaine dice che il suo Narciso si ritira per fuggire agli sguardi sociali, tuttavia nelle rappresentazioni non è dato rilievo al riflesso (che non è mostrato), quanto solamente alla reazione e al moto di orrore del personaggio. Il rapporto ambivalente con l'immagine speculare non è considerato e con esso non trova espressione il processo di formazione identitaria, essendo i personaggi rappresentati già costituiti nella loro identità e sicuri nei loro abiti sociali.
Fig. 5 Gustave Doré, L'homme et son image, XIX sec. [www.fablesaffables.fr/lhomme]
L'incisione di Gustave Doré (XIX secolo), a differenza delle precedenti, racchiude un forte richiamo al mito classico con la raffigurazione di un giovane che si protende con grande slancio verso l'acqua, frenando l’impulso a tuffarsi grazie ad un ramo al quale si aggrappa, per sottrarsi al rischio in cui invece incorre il personaggio ovidiano. La componente repulsiva è sostituita da una attrazione fatale, tuttavia l'oggetto del desiderio, il riflesso speculare, ancora una volta non ha effettivo rilievo [Fig. 5]. Anche la parodia ottocentesca trova un suo spazio con l'illustrazione di Amédée de Noé, in arte Cham, i cui tratti specifici dall’evidente intento ironico la rendono un unicum nell’ambito della tradizione iconografica delineata [Fig.6].
Fig. 6 Cham (pseud. di Amédée de Noé), L'homme et son image, XIX sec. [REF.IMAGE]
Nella serie delle illustrazioni, vi è però un'immagine profondamente diversa; un'immagine che maggiormente pare cogliere la complessità della riflessione di La Fontaine: si tratta dell'incisione eseguita da Grandville (1838-40). In posizione centrale un'effigie, il busto di una statua, personifica il nostro Narciso ed è vivificato dall’espressione emotivamente carica del volto rivolto verso lo specchio d'acqua che scorre in primo piano. Tutt'intorno una molteplicità di specchi circondano il ritratto statuario, rinviandosi l'un l'altro il riflesso del personaggio e restituendo a noi spettatori una pluralità di punti di vista e di sfaccettature. Unico tra gli illustratori, Grandville esplicita sotto il busto l'omaggio di La Fontaine a La Rochefoucauld con la rappresentazione del libro aperto delle Massime che si rispecchia a sua volta nell'acqua [Fig.7].
Fig. 7 Grandville (pseud. Di Jean-Jacques-Isidore Gérard), L'homme et son image, 1838-1840 [REF. IMAGE]
Non si ha più, pertanto, la raffigurazione umana nella sua interezza, ma un frammento, il corps morcelé di un uomo che addiviene egli stesso a ritratto. Il gioco di riflessi e di sguardi tra gli specchi e la superficie increspata dell'acqua nonché il corpo frammentato trasformato in immagine, pone in evidenza come il processo formativo e conoscitivo del sé esiga di passare attraverso lo sguardo esterno, per cui l'io ideale si costituisce fantasmaticamente attraverso lo sguardo degli altri. Possiamo al riguardo far nostro quanto scrive Louis Marin in La critique du discours:
Le fantôme du moi comme représentation de moi s'est constitué de la représentation que les autres ont de moi; “je” dans sa représentation est un autre. Le simulacre n'a d'existence que dans le système spéculaire des regards et des points de vue, qu'à l'entrecroisement imaginaire d'un jeu de rayons optiques. L'homme se regarde selon un certain être qu'il a dans l'imagination des autres. Chaque moi – dans sa représentation – est le point de fuite d'une multiplicité de regards.5
Alienazione e rappresentazione dei desideri personali si alternano nella costituzione identitaria, secondo un intreccio di raggi ottici tale che ogni uomo si concepisce così come è percepito nell'immaginazione degli altri, punto di fuga – proprio come la statua al centro dell’illustrazione di Grandville – di una molteplicità di sguardi. Il soggetto esiste in quanto simulacro creato dallo sguardo.
Anche Jacques Lacan esprime lo stesso concetto:
Cette image de soi, le sujet la retrouvera sans cesse comme le cadre même de ses catégories, de son appréhension du monde – objet, et ce, par l'intermédiaire de l'autre. C'est dans l'autre qu'il retrouvera toujours son moi idéal, d'où se développe la dialectique de ses relations à l'autre.6
Fig. 8 William Hogarth, Caratteri e caricature, 1743 [REF. IMAGE]
Nel gioco di rimandi con l'esterno, l'uomo si costituisce in quanto volto, persona ovvero maschera, un volto che, come ha sottolineato Hans Belting nella sua riflessione circa la nascita della pratica del ritratto, aderisce al teschio fino a quando nel momento della morte non scivola via come una maschera che ha fatto il suo dovere.7
Proliferazione di identità
Fig. 9 Grandville, dalla serie Les Ombres portées, 1830 [REF. IMAGE]
Ci si potrebbe dilungare sulle infinite riprese, variamente declinate, ad opera degli artisti più diversi che hanno fatto della proliferazione dell'identità l'oggetto delle loro raffigurazioni e che vanno, a puro titolo esemplificativo, dalle tavole di Hogart brulicanti di volti a quelle dello stesso Grandville – il quale ha dato un “volto” a tutti gli animali che compaiono nelle Fables –, ma soprattutto, perché più coinvolte nella riflessione proposta da La Fontaine, alla serie delle ombres portées in cui il nostro abbigliamento si fa interprete dei nostri ruoli sociali, nonostante le ombre proiettate sulle pareti denuncino la nostra “vera” identità svelando la sua impossibile coincidenza con ciò che vorremmo essere [Figg. 8, 9].
Fig. 10 James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899 [REF. IMAGE]
Altre volte sono gli autori stessi a fornire intenzionalmente un'identità diversa dalla propria come nel caso dell'Autoritratto di James Ensor che si ritrae in mezzo a una folla brulicante di maschere. Tuttavia, mentre si identifica e si dà un ruolo sociale (il mantello rosso è indice del suo essere pittore), si traveste con un cappello femminile, giocando a sua volta il ruolo di maschera fra le maschere [Fig. 10]. Questo stesso gioco, riferito al discorso di costituzione identitaria, è messo in atto anche da Marcel Duchamp attraverso la duplicazione e il travestimento nei panni femminili del suo doppio Rose Sélavy. Nel ritratto fotografico di Man Ray, inoltre, alla costituzione di un'identità mascherata si aggiunge l'identità costruita per frammenti, testimoniata dalla presenza di mani realmente femminili che Duchamp-Sélavy prende a prestito da Renée Jacobi. Il processo identitario si offre così nella forma del mascheramento e del collage di parti che si ridefiniscono di volta in volta in una forma di identificazione transitoria [Fig. 11].
Fig. 11 Man Ray, Marcel Duchamp nei panni di Rrose Sélavy, ca. 1924 [REF. IMAGE]
Altre volte l'identità si traduce in soluzioni metaforiche come nel caso del Bue squartato di Rembrandt che secondo Giulio Carlo Argan costituisce l'autoritratto del pittore o la Sedia di Van Gogh, riflessione di un artista che per tutta la vita si confronta con lo specchio alla ricerca della propria identità e che infine giunge a un ritratto metaforico del suo percepito sociale: la sedia è umile, misera – a differenza di quella di Gauguin – vuota con un cartoccio di tabacco e una pipa spenta.
Fig. 12 Vincent van Gogh, Un paio di scarpe, 1886 [REF. IMAGE]
È quanto si ritrova anche nella rappresentazione delle scarpe da contadino, misere e logore, significativamente assunte quale riferimento esemplificativo da Martin Heidegger nel suo L'origine dell'opera d'arte. La sedia come le scarpe sono per Van Gogh l'autentico autoritratto e l'espressione della sua ricerca di un ruolo identitario rispetto a una società nella quale sembra non trovare una sua collocazione. Tolte le maschere sociali, l'artista riduce il sé all'umiltà di un oggetto privo di valore [Figg. 12, 13, 14].
Fig. 13 Vincent van Gogh, La sedia di Van Gogh, 1888 [REF. IMAGE]
Fig. 14 Vincent van Gogh, La sedia di Gauguin, 1888 [REF. IMAGE]
In altri casi, è la maschera indossata ad essere più vera del volto, tanto che ritrarne uno può essere problematico per l'artista che vuole rendere la personificazione e il riconoscimento del soggetto con la sua immagine. Così Picasso, dovendo proporre un ritratto “convincente” di Gertrude Stein non può accontentarsi della figura umana davanti a sé e, nel cercare il vero volto, effettua una regressione nel primitivismo: il volto è ritrovato in una maschera africana straordinariamente somigliante alla donna. Gertrude Stein descrive in termini significativi questa esperienza:
Posai per lui [Picasso] tutto l'inverno, più di ottanta volte. Alla fine cancellò la testa dicendomi che non mi poteva più guardare. Poi partì di nuovo alla volta della Spagna […] appena tornato ridipinse la testa, senza avermi rivista. Mi diede il quadro, per me, è il mio io, l'unica mia riproduzione in cui ritrovo immancabilmente il mio io.8
Picasso compie una fuga nel passato per misurarsi con il presente che sembra sfuggirgli. Cerca una maschera tribale da prendere a modello per rappresentare il volto e, come commenta Hans Belting, infine sostituisce nel ritratto che stava dipingendo il volto con la maschera. La fotografia di Man Ray che ritrae Gertrude Stein accanto al suo ritratto mostra la straordinaria affinità tra questi due volti lontani nello spazio e nel tempo, ora affiancati in una sorta di operazione di montaggio che ne evidenzia il legame sotteso. Il volto e la maschera si identificano, come del resto dice bene l'etimologia del termine persona [Fig. 15].
Fig.15 Man Ray, Gertrude Stein seduta accanto al proprio ritratto eseguito da Picasso 1922-1923 [REF. IMAGE]
Si può senz'altro condividere a questo punto quanto afferma Rainer Maria Rilke che imparare a vedere significa anzitutto rendersi conto di quanti volti gli uomini indossino e cambino come maschere che si definiscono nel gioco di rimandi degli sguardi sociali. In una delle pagine de I quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke, flâneur in mezzo alla folla, commenta:
L'ho già detto? Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo. Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d'uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perché no? Una faccia è una faccia.
Altri si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sui quaranta e già arriva l'ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono abituati a tener da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora a poco a poco vien fuori il rovescio, il non volto, e vanno in giro con esso.9
Se l'uomo sembra essere, dalle parole di Rilke, parte attiva nella scelta del volto da indossare, i volti sono in realtà precostituiti, riconoscibili solo nella folla di sguardi e di rimandi esterni, tanto che il nostro sguardo si identifica con quello dell'altro, la nostra identità con il riflesso restituito dall'esterno, che forma la nostra maschera.
Tutte le declinazioni del tema identitario qui affrontato ci portano a un'ultima rappresentazione della favola di La Fontaine che ne condensa la complessità nel quadro del pensiero novecentesco. Si tratta dell'immagine elaborata nel 1952 da Marc Chagall, ultimo tra gli artisti affascinati da L'homme et son image. Il rinnovato interesse per la favola nel Novecento è un sicuro indice delle potenzialità di cui essa è portatrice sul piano dell'immaginario [Fig. 16].
Fig. 16 Marc Chagall, L'homme et son image, 1952 [REF. IMAGE]
Nel vortice dei tratti rapidi dell'incisione, Chagall non rappresenta nessun soggetto specifico, quanto due corpi che si guardano e che seguono il movimento vorticoso di quella che pare essere una danza circolare di interscambiabilità corporale. Le due figure sono indistinguibili: possiamo ipotizzare il soggetto protagonista e il suo riflesso, ma di fatto essi hanno la stessa consistenza, vivono in un rapporto simbiotico, l'una proiezione dell'altra. Il corpo si fa riflesso e il riflesso si fa corpo. Così, se una figura pare proiettata fuori da uno specchio, l'altra, che è il suo doppio, ne è risucchiata, tanto che l'immagine potrebbe essere capovolta senza che perda il suo senso e la sua forza visuale. Nell’interscambiabilità del corpo e del riflesso si perde ogni sostanza ontologica fondatrice: il volto è il riflesso esterno, una maschera mutevole che deriva dal riflesso dello sguardo degli altri. Quel riflesso a cui non possiamo sottrarci, come già ci insegna La Fontaine.
Riferimenti bibliografici
Barthes R., Roland Barthes par Roland Barthes, in Œuvres Complètes (III), Le Seuil, Paris 1993-1995.
Bassy A.-M., Les fables de La Fontaine, Quatre siècles d'illustration, Promodis, Paris 1986.
Belting H., Facce. Una storia del volto, Carocci, Roma 2014.
Castoldi A., In carenza di senso. Logiche dell'immaginario, Mondadori, Milano 2012.
Frontisi-Ducroux F., Vernant J.P., Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma 2003.
Lacan J., Séminaire I, Seuil, Paris 1975.
La Fontaine J. de, Favole, BUR Classici, Milano 2005.
La Fontaine J.de, Œuvres complètes, tome I, Fables, contes et nouvelles, édition de Jean-Pierre Collinet, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », Gallimard, Paris 1991.
La Rochefoucauld F. de, Massime, Newton Compton, Roma 1993.
Leveque E., Iconographie des fables de La Fontaine, Flammarion, Paris 1893.
Marin L., La Critique du discours: sur la “Logique de Port-Royal” et les “Pensées de Pascal”, Minuit, Paris 1975.
Rilke, R.M. I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), Garzanti, Milano 2010.
Note
↑ 1 François de La Rochefoucauld, Massime, Newton Compton, Roma 1993, p. 52. Questa massima, non numerata, compare nella prima edizione dell'opera nel 1665, mentre nella successiva del 1666 l'Autore ha deciso di sopprimerla.
↑ 2 Cf. Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, in Œvres Complètes, Le Seuil, Paris 1993-1995, tomo III, p. 154.
↑ 3 Alberto Castoldi, In carenza di senso. Logiche dell'immaginario, Mondadori, Milano 2012, p. 69.
↑ 4 Françoise Frontisi-Ducroux, Jean-Pierre Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma 2003, p. 43.
↑ 5 Louis Marin, La critique du discours: sur la “Logique de Port-Royal” et les “Pensées » de Pascal, Minuit, Paris 1975, p. 219.
↑ 6 Jacques Lacan, Séminaire I, Seuil, Paris 1975, p. 311.
↑ 7 Hans Belting, Facce. Una storia del volto, Carocci, Roma 2014, p. 139.
↑ 8 Ibid.
↑ 9 Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), Garzanti, Milano 2010, p. 3.