Fanciulle ribelli nell’opera di Malika Mokeddem
Riassunto:
Abstract
Italiano | IngleseNei romanzi di Malika Mokeddem, l’infanzia è l’archetipo di un’innocenza tradita. Il fanciullo, ma soprattutto la fanciulla, lottano da subito per la sopravvivenza, allo stesso modo di come l’adulto ha un rapporto difficile con la collettività. Il legame tra l’individuo e il gruppo è d’altra parte ambivalente: da una parte il singolo vive con sofferenza la propria differenza, ma la rivendica come uno spazio di libertà, dall’altra egli desidera recuperare la memoria collettiva, di cui si sente l’unico portatore in una società degradata. Attraversare i drammi individuali significa quindi paradossalmente risvegliare la speranza per il futuro di tutti. Per questa via, l’immagine dell’infanzia in Mokeddem ritrova la funzione simbolica che aveva nelle opere dei padri fondatori: giudicare il presente per ipotizzare il futuro. Tuttavia, nell’opera della scrittrice contemporanea, il fanciullo, o più precipuamente la fanciulla, è lo specchio di un atteggiamento mutato nei confronti del mondo e del ruolo della letteratura: non più prefigurazione di un mondo nuovo, ma denuncia dei limiti del mondo attuale, revisione di un percorso, voce da dare al silenzio.
Nel tracciare un quadro dell’immagine dell’infanzia nella letteratura scientifica e narrativa, Mario Valeri sottolinea come essa si presti ad alcune ambiguità e difficoltà di rappresentazione. Discrimini di tipo sociale si accomunano a incapacità di differenziazioni culturali che agiscono in modo più o meno consapevole già a livello produttivo e che vengono, per dir così, amplificati dalle differenze culturali e dalla contemporanea tendenza alla globalizzazione. Se tuttavia negli studi scientifici la tendenza alla «rappresentazione su un piano culturale a livello medio-alto» (VALERI 1997: 9) risulta dominante – è infatti assai difficile rappresentare l’infanzia «comprendendo contemporaneamente una amplissima varietà di aree socioculturali» (Ibid.) –, è da notare che i linguaggi narrativi permettono di sfumare, se non di far scomparire, tale «scelta elitaria » (Ibid.: 10); è un limite che può mantenersi nelle biografie, ma che non è necessariamente presente «nelle narrazioni che hanno come riferimento differenti e specificati ambienti» (Ibid.). Il presupposto che appare tuttavia onnipresente è che l’infanzia è un periodo mitizzato della vita umana e considerato come il «luogo della purezza» (Ibid.). Si tratta di un sottinteso «che fa velo ad una conoscenza reale» e che risponde ad una «immagine personale dell’adulto di un’infanzia spesso non rispondente alla realtà ma che potrebbe essere compito dell’adulto che si realizzasse» (Ibid.). Esiste, in altri termini, una visione «magica» dell’infanzia, che viene vista «come archetipo esistenziale» e, per questa via, assume il valore di «presenza che accusa e “magicamente” distrugge l’uomo che ha tradito» (Ibid.: 11).
Nate dall’esperienza coloniale, le letterature maghrebine rappresentano un mondo che certo non può essere considerato elitario (salvo nel senso che, ovviamente, le opere sono scritte da quella minoranza di individui che ha studiato), ma che propongono certamente un’immagine archetipica del mondo infantile, visto non tanto come luogo della purezza, quanto come momento da cui scaturisce uno sguardo indagatore e talora critico del mondo coloniale o postcoloniale. Analizzando l’opera di Malika Mokeddem ci accorgeremo di quanto tale funzione d’analisi e di critica diventi più complessa e risponda sia alle nuove problematiche socio-culturali che attraversano il mondo maghrebino a seguito delle indipendenze, sia alle più specifiche questioni di genere che caratterizzano l’opera della scrittrice. Volendo tuttavia ancora per un po’ rimanere sul piano generale delle letterature maghrebine d’espressione francese, la nostra ipotesi è che l’immagine dell’infanzia sia strettamente connessa con il valore simbolico di un’identità in divenire. È così che, proprio in virtù del fatto che «l’infanzia offre occasioni di riflessione sulla vita» (Ibid.: 15), la puerizia maghrebina costituisce il luogo della prefigurazione di un futuro, di un mondo nuovo che si sta costruendo, o che comunque si vorrebbe/dovrebbe costruire. Nella letteratura dei padri fondatori, ad esempio, due personaggi rappresentano con chiarezza questa funzione, declinata nelle due diverse connotazioni della prefigurazione di un mondo/uomo nuovo in costruzione o, viceversa, nella difficoltà, se non impossibilità, di rendere possibile e vivibile questo spazio di rinnovamento, costruito con i pezzi della vecchia società oramai irrimediabilmente compromessa. Da una parte troviamo Omar, il ragazzino della Grande Maison di Mohammed Dib, personaggio attorno al quale si snodano le vicende degli abitanti della dar Sbitar, la casa collettiva in cui si ammassano le molte famiglie che condividono il cortile, la cucina e la toilette, dall’altra Alexandre Mordekhaï Benilouche, il bambino che diventerà giovane uomo nella Statue de sel di Albert Memmi. Semplificando, Omar incarna il mito dell’uomo nuovo e rappresenta, con il suo sguardo infantile, curioso e pieno di dubbi, la giovane nazione che sta per nascere. Senza essere uno sguardo politico, quello di Omar è, per così dire, lo sguardo di chi mette in crisi l’ordine coloniale e partecipa alla nascita di una coscienza politica. Più intimamente problematiche si presentano l’infanzia e l’adolescenza di Alexandre Mordekaï Benilouche: segnata da una scissione identitaria che anch’essa ha un valore molto più ampio di quello della rappresentazione di una vicenda personale, la vicenda del giovane protagonista della Statue de sel è la rappresentazione di un’impossibile riconciliazione e quindi di una difficile rinascita. Esilio linguistico, segregazione culturale, impossibilità di ricollegarsi con la propria cultura d’origine, ma anche di sentirsi completamente integrati nella cultura francese costituiscono le varie fasi che caratterizzano la crescita del giovane tunisino come momenti di frattura e che portano, irrimediabilmente, alla prefigurazione di una fuga verso spazi lontani, verso un’Argentina che appare, alla fine, come una soluzione in negativo e che non ha mai avuto, nel corso della narrazione, una funzione di reale prospettiva o rinnovamento. Accanto a questi due esempi, i modi di declinare l’infanzia sono ovviamente molteplici, ma in generale, per i padri fondatori, si tratta di rappresentare l’immagine di un’identità sociale e politica in costruzione attraverso la lente di rifrazione di uno sguardo nuovo, perché infantile; un fanciullo che è simbolicamente il popolo che sta prendendo coscienza della propria identità.
Nella letteratura femminile, la questione è differente in quanto, accanto alle fratture storiche determinate dalla colonizzazione, le scrittrici si pongono all’ascolto di tutte quelle fratture, individuali e sociali, che attraversano la storia delle donne, intersecano il loro passaggio dall’infanzia alla pubertà e infine all’età adulta, si scontrano con una realtà sociale che non riconosce un ruolo pubblico all’individuo-donna o che relega questo ruolo all’interno delle mura domestiche. Si tratta quindi di raccontare il passaggio dall’infanzia all’età adulta, dalla costrizione alla libertà, dall’emancipazione ad una nuova repressione, dalla realtà al sogno o dal fervore della lotta studentesca alla tragicità del reale. Se raccontare l’individuo-donna significa raccontare il mondo attraverso il filtro della condizione socio-culturale dell’essere sessuato e dell’identità di genere, raccontare l’infanzia al femminile significa rileggere le questioni fondamentali dell’écriture-femme (cfr. DIDIER 1981) alla luce della rappresentazione di un progetto, un’idea o anche solo un’inquietudine per il futuro. Significa, in altri termini, interrogarsi sui grandi ambiti di sviluppo della fanciulla alla luce di un doppio riferimento, i cui due poli si pongono in modo talora contraddittorio: l’individuo che ha vissuto la colonizzazione (o che vive la condizione di appartenere al sud del mondo o che vive in un universo che definiremo, per semplice comodità, “postcoloniale”) e l’individuo-donna, il cui ruolo nella società tradizionale è quello del silenzio e dell’accettazione dell’ordine maschile. Ecco quindi che attraverso la descrizione dei luoghi che tradizionalmente rappresentano la crescita dell’individuo-donna in ambito maghrebino (la famiglia, la scuola, il mondo esterno) vengono rappresentati gli stravolgimenti di una società in trasformazione, in cui l’individualità e la sessualità assumono uno spazio sempre più consistente tanto da mettere la giovane che diventerà donna in contrasto con il gruppo al quale appartiene.
Nata a Kenadsa nel 1949, Malika Mokeddem appartiene a quella generazione di algerine e algerini che si considerano eredi diretti degli eroi della liberazione ma che, proprio in virtù di questa mitizzazione dell’azione fondatrice dei padri, si sono scontrati con le logiche di potere e spesso con il clientelismo che hanno caratterizzato la vita dei primi anni della Repubblica e di cui proprio la generazione degli ex-combattenti è stata responsabile. Si aggiunga il fatto che quella cui appartiene Mokeddem è considerata come una sorta di «anello mancante» a livello di ricambio, non avendo mai veramente preso il posto dei padri fondatori nella gestione del potere a causa della longevità di questi ultimi e del fatto che, una volta che il passaggio si è imposto come necessario, è stata la generazione seguente, nata negli anni ’60, a prendere il testimone. Ne consegue che la storia algerina si caratterizza per un vero e proprio salto cronologico, che togliendo ai figli la possibilità di entrare nella gestione del potere, li ha portati a continuare il percorso di liberazione politica dei padri su un piano di critica alla politica interna o di impegno sociale (STORA 2002: 70). La prospettiva femminile è evidentemente solo in parte sovrapponibile a questo percorso, ma non per questo rende ininfluenti le categorie individuate. Se è certo che l’idea stessa di “gestione del potere” non si pone nella società algerina da un punto di vista femminile, è altrettanto indubbio che gli anni ’80 del ventesimo secolo sono caratterizzati da uno sviluppo su larga scala delle istanze femminili e di un’ampia letteratura scritta da autrici. È vero che queste ultime hanno sempre partecipato attivamente ai momenti salienti della vita politica algerina e che più di un nome di scrittrice caratterizza la letteratura degli scrittori fondatori, ma è altrettanto vero che non solo la nazione indipendente ha, per così dire, invitato le donne ad abbandonare la lotta, consigliando loro di rientrare all’interno delle mura domestiche, ma, in modo più ampio, già durante il conflitto per l’indipendenza ogni istanza propriamente femminile era sempre stata considerata come parte di una più ampia politica anti-coloniale, con l’effetto di svuotare di fatto le lotte di genere di ogni autonomia. L’opera di Mokeddem si trova quindi all’incrocio tra queste due tendenze storiche e socio-politiche: lo sviluppo di una generazione cresciuta nel mito della rivoluzione e dotata di una grande forza critica (cui la scrittrice appartiene per motivi anagrafici) e lo sviluppo di uno spirito critico delle problematiche di genere e di una rinnovata produzione letteraria femminile in ambito maghrebino.
Se vogliamo effettuare un primo e approssimativo approccio alla presenza dell’infanzia nell’opera di Malika Mokeddem, dobbiamo notare che, a dispetto del fatto che la scrittrice non abbia mai scritto libri per l’infanzia, i fanciulli e le fanciulle attraversano, con il loro sguardo apparentemente innocente, quasi tutti i romanzi dell’algerina oltre che, per ovvi motivi, i testi dichiaratamente autobiografici. Leïla, Jellul, Khellil, Sâadia hanno una presenza più che occasionale in Les Hommes qui marchent (1990). Di Leïla, che è il fulcro attorno al quale si tesse il racconto, seguiamo tutto il percorso di vita, dalla nascita all’inizio dell’età adulta; tuttavia, anche gli altri personaggi hanno un peso significativo e le loro vicende costituiscono altrettanti momenti di snodo nel procedere della storia collettiva. La storia di Yasmine, bimba che assiste, impotente, allo stupro e all’assassinio della madre si alterna, in tutto Le Siècle des sauterelles, al racconto di Mahmoud. La giovane Dalila discute a più riprese con la protagonista adulta de L’Interdite e ne diventa una sorta di alter ego infantile, specchio dei ricordi e dei problemi dell’infanzia di Sultana. Nora ritrova la propria memoria tornando ai drammi e alle speranze dell’infanzia. È tuttavia con la scena dell’infanticidio su cui si apre Je dois tout à ton oubli che il mondo dell’infanzia entra prepotentemente nel bagaglio di immagini e simboli di Mokeddem: un neonato è la vittima, una bimba è la spettatrice esterna, i familiari – o meglio, la madre – della giovane Selma sono il carnefice. Se tuttavia è proprio la madre a essere l’adulto traditore di cui parla Mario Valeri (VALERI 1997), ne consegue che il dramma dell’infanzia si muove tutto all’interno delle mura domestiche, prima ancora che il bambino o la bambina possano aprirsi al mondo esterno. Il tradimento da parte dell’adulto – di un adulto – costituisce un motivo di fondo di tutte le apparizioni infantili nelle narrazioni di Mokeddem ed è sulla gravità di tale tradimento che si misura, come vedremo, la distanza della società algerina dal sogno di una nazione indipendente e veramente liberata dalle costrizioni.
L’ambito familiare costituisce quindi il primo nucleo all’interno del quale la fanciulla impara a guerreggiare, a misurare la distanza tra i sogni e la realtà. Già nei testi autobiografici, la scrittrice rievoca i continui contrasti con la famiglia che ha sempre «bataillé contre [sa] dévoration des livres, la jugeant prémices de vices plus grands» (La Transe: 26). È infatti proprio la famiglia ad essere lo spazio della costrizione, se non del sopruso, tramite lo spettro del matrimonio combinato o, come abbiamo visto, dell’infanticidio, giustificato dalla responsabile come un’azione necessaria per salvaguardare il buon nome familiare. In questo romanzo che la quarta di copertina presenta come «un pan douloureux de mémoire qui a trait à la relation avec la mère», la tragedia inizia con i tratti del mistero e della curiosità di una bimba: «Selma se revoit dans le désert. Quel âge a-t-elle? Trois ans, trois ans et demi? Pas plus. Les femmes la congédient. Rien de mieux pour attiser sa curiosité. Elle reste là à rôder.» (Ibid.: 21)
Niente di meglio per attizzare la curiosità. Niente di peggio per mettere una bimba di tre/quattro anni di fronte alla scena, terribile, della soppressione del figlio appena nato della zia Zahia. Di nuovo, la risposta della vittima/spettatrice è il silenzio, la fuga verso il vuoto, l’oblio:
Selma se galvanise pour trouver le courage d’affronter le vent. Elle doit retourner dans la cuisine. […] Selma colle son visage à l’une des fentes entre les planches, s’apprêtant à héler sa mère. La vue de celle-ci qui se saisit d’un coussin et qui le pose sur la tête du bébé de Zahia laisse Selma sans voix. La petite fille ne sait rien de la mort. Elle ignore l’issue de ce geste. Mais sa violence l’atteint de plein fouet. Elle s’écarte à reculons. Arrivée au seuil de la cour, elle file à toutes jambes. Poussée par le vent, elle court, court longtemps avant de tomber. (Ibid.: 23)
Considerata attraverso lo spettro di queste immagini, l’infanzia è il luogo della violenza. Di una violenza che può essere vista o subita, comunque sempre introiettata. La fuga diventa la molla verso la libertà, ma anche verso l’abbandono del gruppo, di cui non viene più messo in luce il ruolo di difesa e rassicurazione, ma quello di costrizione e controllo. È sintomatico notare come la figura simbolica attorno alla quale si muove tale ricerca di libertà sia la figura materna, che assume le funzioni opposte della chiusura o dell’apertura. In realtà, la madre ricopre il più delle volte un ruolo vessatorio e solo talora quello protettivo. Quando è presente, essa è il guardiano della tradizione e addirittura l’artefice della sopraffazione: deve assicurarsi che la figlia segua i dettami della tradizione e si adegui al ruolo subalterno che è stato ritagliato per lei. Quando è assente, e la sua figura entra nella narrazione attraverso il ricordo, la genitrice ha una funzione utopica e, essendo stata lei stessa vittima di sopraffazioni, diventa una figura immaginaria, talora addirittura magica, attorno alla quale si gioca la costruzione di un’identità rinnovata. In quanto vittima, la madre diventa, paradossalmente, una figura positiva, poiché racchiude in sé le tensioni cui si tende e le paure da cui si fugge. È ad esempio nel senso di un’impossibile riconciliazione con la madre scomparsa che si svilupperà la fuga di Kenza verso la Francia in Des rêves et des assassins. Partita dall’Algeria per fuggire l’integralismo, la giovane donna si troverà, in Francia, a ricostruire la vicenda della madre, la sua ricerca di libertà e il suo tentativo, drammatico, di ritrovare le proprie radici in un’Algeria incapace di dar voce a una vera libertà per le donne. L’infanzia, qui solo accennata, diventa il momento di un tragico distacco, prima subito, in seguito fatto proprio e inseguito. Un meccanismo simile è in atto anche nel già citato Siècle des sauterelles. In questo romanzo storico e fantastico a un tempo, la giovane Yasmine, che assiste all’assassinio della madre, risponderà al trauma con una fuga metaforica nel mondo del silenzio e ritroverà la parola solo dopo un lungo percorso individuale. È interessante notare come – diversamente da quello che avviene negli altri romanzi – sia qui la figura materna ad assumere il ruolo di vettore della parola ritrovata e, nel contempo, di recupero del contatto con il gruppo. È infatti bevendo una boccetta di profumo della madre che, magicamente, la giovane ritroverà la voce, si salverà dalla tempesta di sabbia, entrerà nel mondo degli adulti e inizierà la carriera di cantante. In realtà, la genitrice, rappresentata metonimicamente dal suo profumo, può agire come arma di riscossa solo in virtù del fatto che essa è fisicamente assente e, in quanto tale, costituisce un elemento immaginario più che reale.
La madre reale, quando appare, è, come dicevamo, lo strumento della costrizione, del controllo nei confronti delle ragazze in cerca di libertà. Nasce quindi un contrasto generazionale che non sembra possibile risolvere e che trova la sua origine in una società in cui il ruolo di genitrice è sentito come primario e totalizzante (DÉJEUX 1994: 181). Come sottolinea Camille Lacoste-Dujardin in Des Mères contre les femmes, sarà la stessa madre a impartire un’educazione rigida alla figlia femmina al fine di prepararla a un futuro fatto di privazioni. Nel romanzo Les Hommes qui marchent, sono descritte le costrizioni quotidiane della società arcaica e la rinnovata violenza della società contemporanea nei confronti delle ragazze. In La Transe des insoumis, la scrittrice denuncia le debolezze e le complicità di quelle donne che contribuiscono a mantenere il giogo in cui vivono esse stesse e le loro consorelle. Particolarmente duro è lo scontro tra Leïla e la madre, specchio della contrapposizione vissuta dalla giovane Malika e descritta nell’autobiografia:
L’amour des mères se mesure à leur aptitude à blinder leurs filles contre les coups de la vie. Sans rien changer. Sans rechigner. Je l’apprendrai beaucoup plus tard. Pour l’heure, seule une terrible frustration m’assiège, et le désarroi d’un sentiment d’injustice naissant. Mais ces impressions ne suffisent pas à expliquer mes terreurs nocturnes, mon besoin de solitude et d’insomnies. Celles-ci s’ancrent dans quelque chose de plus enfoui. J’éprouve la même angoisse à les écrire. (La Transe: 35)
Frustrazione e sgomento di fronte all’ingiustizia subita sono i sentimenti istintivi, che ancora non prendono l’aspetto di una denuncia, ma ne preparano evidentemente la strada. La denuncia arriva con la voce dell’adulto che si scaglia contro la diffidenza nei confronti del mondo femminile, che porta le famiglie a contrastare la scolarizzazione femminile o che ha indotto il governo algerino a promulgare il nuovo Codice della famiglia nel 1984, limitando considerevolmente la libertà delle donne. Senza cadere in una logica manichea, la scrittrice si sofferma sul dramma interiore dei personaggi e tratteggia il sentimento di sconforto o di rivolta nei confronti della realtà circostante. Seppure i giovani dimostrino talora compassione nei confronti degli adulti che mettono in atto comportamenti repressivi, lo scontro assume toni assai duri e diventa l’eco delle varie difficoltà che caratterizzano la vita delle protagoniste (modernità vs arcaismo, libertà vs costrizione, sedentarismo vs erranza, pluralità culturale vs monocultura). Paradossalmente è proprio la figura della nonna paterna che fa da contraltare a questa condizione di costrizione e che permette di evocare un mondo di libertà che si oppone a quello di imposizioni in cui Leïla sente di vivere. Anche in Les Hommes qui marchent, tuttavia, la violenza non è solo psicologica, ma si traduce anche in violenza reale e gratuita, perpetrata dal mondo maschile nei confronti delle ragazze. Nella seconda parte del libro l’istanza narrativa descrive le innumerevoli scene di violenza verbale di cui è oggetto la giovane Leïla, additata per gli atteggiamenti e il vestire troppo occidentali, o i vari tentativi di sopraffazione da parte dei piccoli e grandi detentori del potere.
Se la famiglia è il più delle volte lo spazio della frustrazione o della sopraffazione, la scuola diventa, soprattutto per le bambine, il luogo della scoperta, dell’incontro con l’altro e della possibilità del riscatto. Nei romanzi di Mokeddem il ruolo del percorso educativo è talmente grande da apparire anche quando la scuola non esiste, in senso stretto, e interessa sia le bambine sia i bambini. Leïla segue tutto il percorso didattico, prima francese, poi algerino, per diventare, alla fine, toubib (medico). Nello stesso testo, sarà Djelloul a rappresentare il passaggio del gruppo dall’oralità alla scrittura. L’incontro con il mondo della scrittura è fonte di fascino e inquietudine per il giovane nomade, antenato di Leïla.Il personaggio resterà affascinato dai segni sui quali un conteur incontrato nel deserto legge le storie delle Mille et une nuits. Una volta partito il taleb, Djelloul verrà colto da un inguaribile senso di vuoto e curiosità insieme. Sente che sarà separato per sempre da questo mondo misterioso e fantastico. Non potrà mai sapere come finirà la storia. Nessuno, in quel deserto, potrà mai dirglielo…:
Djelloul ressentit un vide insupportable, un marasme mortel. Alors il se remit à traîner à l’arrière de la caravane et à réfléchir. Il regardait les siens qui allaient comme sans cesse aspirés par un horizon indifférent:
– Que cherchent-ils? Le savent-ils au moins? (Ibid.: 15)
Il ragazzo deciderà di imparare a leggere e scrivere. Andrà quindi in città, sperimentando un allontanamento dal proprio gruppo che diventerà sempre più netto e definitivo, ma anche un percorso di conoscenza liberatorio oltre che totalizzante. In tutti i romanzi, il processo di apprendimento è rappresentato come una vera e propria esperienza di felicità. È così che il primo giorno di scuola è per Leïla l’esperienza di una vera e propria vertigine:
s’assoir sur un banc à côté d’une roumia et prendre une plume. La plonger au centre de la collerette blanche, la tremper dans l’encre violette et reproduire ce que la belle institutrice venait de dessiner sur un tableau noir, un A. Ce premier crissement de la plume sur le papier, jamais elle ne l’oubliera! (Ibid.: 85)
In Le Siècle des sauterelles, è il padre a insegnare a scrivere in arabo alla giovane Yasmine e la bambina, diventata improvvisamente muta a seguito dello shock subito assistendo alla morte della madre, «s’accroche[ra] aux signes écrits» (Ibid.: 154) come per sfuggire al silenzio:
Les échos de leurs sonorités ricochent sur l’enfermement du silence. Ils vibrent à son oreille comme une promesse. Elle pressent que par ce moyen elle pourra bientôt donner vie à toutes ces sensations en elle ensevelies. Elle pourra poser les questions qui piétinent en elle sans jamais trouver d’issue. Elle les sent là, les mots du silence, fragments épars, paroles dissoutes au bout de ses doigts. Patiemment, elle s’attelle à les cristalliser pour s’en saisir, pour se tailler une ouverture dans la tour orbe du mutisme. C’est d’abord sur le sable, au moment de leurs haltes, qu’elle tente de les construire. Inlassablement, Mahmoud les prononce pour elle, la corrige, l’encourage. (Ibid.: 154)
Se la scuola e, più in generale, l’apprendimento sono sinonimi di gioia e di crescita, l’abbandono è il segno di una drammatica chiusura al mondo esterno. Si tratta di una chiusura che colpisce la gran parte delle compagne di Leïla che, nel passaggio dall’infanzia alla pubertà, sono costrette a sottomettersi alla pratica dei matrimoni combinati.
I romanzi di Malika Mokeddem risuonano di questo bisogno di giovani di entrambi i sessi di apprendere, per se stessi e per il gruppo. Si tratta di un percorso pieno di ostacoli, ma non privo di gioie. La soddisfazione di entrare in un mondo libero e soprattutto al riparo dalle costrizioni familiari viene descritta in vari passi dei testi: è nel compiacimento di Leïla che misura la propria libertà attraverso la propria acculturazione; è, ancora, nella felicità di Sultana bambina che ritrova un poco di serenità attraverso la crescita intellettuale; è, infine, nella testarda applicazione di Malika bambina, che si estrania dal contesto familiare con l’aiuto delle insegnanti e con la complicità della nonna. Il mondo della scuola e quello dei nomadi sono percepiti come i due ambiti che forgiano la crescita in modo indelebile. Due civiltà e due modi di apprendere si incontrano, talora entrano in competizione, ma contribuiscono entrambi a creare un’identità composita. Accanto a questo senso di soddisfazione e pienezza vi è tuttavia anche la coscienza delle innumerevoli separazioni che un tale percorso di crescita ha comportato.
Senza entrare nel dettaglio delle scene, ciò che accomuna tutte queste immagini è il fatto che in esse l’infanzia è il luogo di una lotta per la sopravvivenza. Le bambine e le ragazze di Mokeddem vivono da subito il dilemma tra libertà individuale e integrazione all’interno del gruppo. Considerata da questo punto di vista, è proprio a livello dell’infanzia che si ricrea uno dei dilemmi fondamentali dello scrittore maghrebino contemporaneo: il rapporto con il proprio gruppo si rappresenta come problematico, specchio di una difficoltà di riconoscimento reciproco. Malika Mokeddem vuole farsi interprete dei cambiamenti in corso e vuole ergersi contro il rischio di revisionismo che attraversa la società algerina. Non manca il senso di recupero della memoria collettiva e quindi la preoccupazione di legare la propria opera al gruppo, del quale si vuole comunque riprendere la storia. Riscrivere la storia collettiva per costruire il futuro significa in primo luogo reinventare l’infanzia, il suo ruolo simbolico all’interno della comunità. Attraversarne i drammi per risvegliare di nuovo le speranze. Esiste una continuità di funzione, in questo senso, tra l’immagine della fanciulla nella scrittrice contemporanea e quella del fanciullo nei padri fondatori: il fanciullo o la fanciulla tendono a diventare lo specchio di una denuncia del mondo dell’adulto. L’analisi, tuttavia, mette in luce una serie di differenze che diventano la punta dell’iceberg di un atteggiamento mutato nei confronti del mondo e del ruolo della letteratura: non più costruzione di un nuovo universo a venire, ma denuncia dei limiti del mondo costruito, revisione di un percorso, voce da dare al silenzio.
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