Presentazione del numero
Enfances francophones
A seguito della VII Giornata della Francofonia, tenutasi a Verona il 19 marzo 2013, abbiamo il piacere di proporre un nuovo numero della collana « francophonieS », incentrato sulla rappresentazione dell’infanzia nelle letterature francofone. Tale tema, attraverso il quale abbiamo cercato di offrire un percorso il più possibile ricco di spunti, appare ricorrente e trasversale nelle letterature di tutti i paesi francofoni, europei e non, che si confrontano in modo sostanziale con la questione delle radici e che portano avanti una ricerca fondamentale, talvolta dolorosa, sull’identità, sull’appartenenza e su un passato storico e individuale che è spesso molto complesso. Nel quadro di queste preoccupazioni, capitali per numerosi autori, il tema dell’infanzia appare come un’immagine e uno strumento di ricerca privilegiato. I saggi raccolti in questo numero coinvolgono le letterature di diverse aree geografiche e culturali: dalla francofonia europea di scrittori dell’esilio, di cui si sono occupati Riccardo BENEDETTINI e Elena QUAGLIA, passando per le scritture isolane di Mauritius e delle Antille francesi, trattate rispettivamente da Suzanne CROSTA e da Sara ARENA; dal Maghreb all’Africa Subsahariana, con i contributi di Anna ZOPPELLARI e di Silvia RIVA, fino al Québec, oggetto dell’intervento di Anna GIAUFRET.
Il tema dell’infanzia è affrontato in tutti i suoi diversi aspetti, tanto simbolici che socioculturali: rappresentazione dell’infanzia, delle sue gioie o più spesso dei suoi dolori, visione del bambino e del suo ruolo, rievocazione dei legami familiari, del percorso di formazione e di gioco, rapporto dei bambini con il lavoro, con la guerra, con la storia, costruzione dell’identità, dialettica tra innocenza e crudeltà, sguardo del bambino sul mondo esterno, funzione della figura infantile nell’ambito del testo e nello sviluppo e nell’affermazione di una tradizione letteraria.
Tutti i contributi sottolineano tanto la dimensione intima quanto quella collettiva che entrano in gioco nella rappresentazione letteraria dell’infanzia. Infatti, i personaggi bambini costituiscono spesso figure che permettono all’autore una riflessione più o meno apertamente autobiografica sulle proprie origini e sulla propria identità, risultando, al contempo, anche al centro di una riflessione socio-politica e culturale. Nei contesti post-coloniali, così come nel caso del Québec, che ha affrontato un faticoso percorso verso la modernità, la frequente presenza del tema dell’infanzia è uno dei segnali testuali di un profondo rinnovamento letterario; inoltre, il récit d’enfance e, a maggior ragione, la produzione di testi per l’infanzia, così come evocato in alcuni di questi contributi, hanno una funzione educativa per l’intera collettività. L’infanzia si fa luogo di violenza, sopraffazione, lotta per la sopravvivenza, ma anche di cambiamento, risultando così simbolo di un’identità storica, politica e culturale in divenire.
La dimensione autobiografica appare ricorrente anche qualora non si tratti di veri e propri récits d’enfance. È il caso dell’opera di Agota Kristof, spesso popolata da personaggi bambini attraverso i quali l’autrice rivive la propria infanzia in Ungheria, con la madre e i fratelli, prima dell’esilio in Svizzera. Riccardo Benedettini analizza in particolare, sottolineandone i legami con le novelle e le pièces, i quattro romanzi kristoffiani, Le Grand Cahier, La Preuve, Le Troisième Mensonge e Hier, evidenziando come i personaggi restino in un certo senso eroi positivi pur compiendo azioni crudeli. L’autore presenta così la condizione ossimorica di quelli che definisce «omicidi innocenti»: «vittime degli adulti, schiacciati dai flagelli esterni – che vanno dalla guerra, alla fame, all’abuso sessuale –, i bambini protagonisti rimangono paradossalmente puri». Tra questi atti omicidi, è centrale l'uccisione del padre, figura fondamentale nella narrazione kristoffiana: egli tradisce il suo compito di protezione nei confronti dei figli, che si sentono così abbandonati. Spesso, come in Hier, il parricidio è un atto liberatorio, tuttavia esso conduce in molti casi a forme di attaccamento morboso nei confronti di figure sostitutive o all'alienazione da sé. Kristof evocherebbe così le forme di oppressione che hanno caratterizzato la sua stessa infanzia, anch’essa segnata dall’assenza della figura paterna. Questa lotta generazionale, spesso crudele e dalle conseguenze estreme, non intacca tuttavia l’innocenza dei giovani protagonisti, cui la letteratura permette di restituire una dimensione di purezza.
Se nell’opera di Kristof la narrazione dell’infanzia permette la rievocazione di una dimensione intima e autobiografica, nei récits d’enfance antillesi emergono spesso elementi di rivendicazione collettiva dalle implicazioni sociologiche e politiche forti: Suzanne Crosta si occupa in particolare dell’evoluzione di questa forma letteraria nel nuovo millennio, sostenendo che le recenti sfide poste dal mondo contemporaneo mutano la tradizione così che «de nouvelles poétiques se dessinent dans les récits d’enfance du XXIe siècle». L’analisi di Tu c’est l’enfance di Daniel Maximin (2004) e di La Berceuse en acajou (2013) di Daniel Radford permette infatti all’autrice di mostrare come vi emergano, rispettivamente, la relazione tra l’infanzia e la dimensione naturale delle Antille e una riscrittura in un diverso orizzonte cronotopico della memoria proustiana. Risulta significativa anche la crescente varietà della letteratura per l’infanzia: Crosta evoca non solo contributi rilevanti di grandi autori come Patrick Chamoiseau e Maryse Condé, che spaziano dal racconto al fumetto, ma anche i progetti teatrali di Lucette Salibur, spesso indirizzati ai bambini, mostrando come l’obiettivo di queste forme letterarie sia quello di coinvolgere l’infanzia in una riattivazione della memoria storica antillese volta alla costruzione collettiva di un avvenire sostenibile.
A una dimensione collettiva è legata anche la rappresentazione dell’infanzia in Made in Mauritius di Amal Sewtohul, romanzo mauriziano qui presentato e analizzato da Sara ARENA. Il protagonista, figlio di cinesi emigrati a Mauritius, isola dalle identità molteplici e dalla storia complessa, s’interroga attraverso la narrazione della propria storia sulle sue origini, le quali sono vissute – sia dal punto di vista dell’appartenenza all’isola sia da quello della storia personale e familiare – come un vero e proprio enigma: «Oui, c’est vrai, comment suis-je arrivé ici? Pas seulement dans ce campement, mais dans ce pays, dans cette famille, dans ce monde? Qui suis-je en fait?». Un oggetto, in particolare, si fa emblema della difficoltà di radicamento del protagonista e della sua deprivazione di un grembo “materno” sicuro e accogliente: il container,casa-non casa in cui il bambino è stato concepito, che segue la famiglia durante la traversata da Hong Kong a Mauritius e che finisce per diventarne l’abitazione sull’isola. Attorno a questo oggetto senza fondamenta, che simboleggia anche la mercificazione a cui è sottoposto l’uomo nel corso delle sue migrazioni («Au début du monde, il y eut mon père et ma mère. Puis vint le bric-à-brac. Et je fais partie de ce bric-à-brac»), si avviluppa e si svolge l’intera ricerca identitaria del protagonista, per il quale interrogarsi sugli anni della propria infanzia significa riflettere anche sulla storia della propria isola, sulla propria collocazione all’interno di essa (made in Mauritius può riferirsi anche al narratore stesso) e, a un livello ancora più profondo, sulle ragioni del proprio essere al mondo.
Il legame tra il récit d’enfance e la questione identitaria è evidente anche nel racconto L’Enfant génial (1927) di Irène Némirovsky. Recentemente ripubblicato in una collana per bambini e adolescenti, questo testo che apparentemente si presenta come una fiaba allegorica si rivela ben più complesso, come si evince dall’analisi di Elena Quaglia, secondo cui non si tratta tanto di letteratura per l’infanzia, ma di un’opera che fa del passaggio dall’infanzia all’adolescenza il cardine per una riflessione sull’identità ebraica, vissuta dall’autrice in maniera problematica. La storia del piccolo Ismaël, bambino prodigio nel canto, che perde, crescendo, il suo talento, è modellata su diverse tradizioni culturali e narrative: dal mito di Orfeo alla figura biblica di Davide, dalla fiaba allegorica codificata da Propp alla parabola evangelica del figliol prodigo. Il sincretismo dei modelli letterari, frutto della molteplice appartenenza identitaria di Némirovsky, permette di mettere in scena la problematica delle origini quale tema centrale del testo. L’Enfant génial non è solo un racconto sulla fine dell’infanzia, ma soprattutto sull’allontanamento dalle proprie origini: «l’infanzia è irrevocabile, ma le origini ebraiche sono irreversibili; se la perdita della prima è inevitabile, è impossibile dimenticare le seconde». Il tema dell’infanzia è, come nel caso di Kristof, legato alla dimensione biografica dell’autrice, che mette così in scena l’irriducibilità della complessità identitaria che permea tutta la sua opera.
Come sottolinea Anna Zoppellari, di forte ispirazione autobiografica risultano anche alcune opere della scrittrice maghrebina Malika Mokeddem i cui testi mettono in scena un’infanzia, soprattutto femminile, percepita non come un momento “magico” dell’esistenza ma come una lotta per la sopravvivenza, sia a livello familiare che collettivo. In un universo in cui l’integrazione delle bambine si oppone all’esercizio della loro libertà individuale, la visione di queste ultime funziona come una denuncia del mondo adulto, costituendo quindi una costante che apparenta i testi della scrittrice a quelli dei padri fondatori della letteratura francofona post-coloniale del Maghreb, che attribuivano alla visione dei più giovani una funzione critica. Anche – soprattutto? – nel caso di esistenze femminili, «riscrivere la storia collettiva per costruire il futuro significa in primo luogo reinventare l’infanzia, il suo ruolo simbolico all’interno della comunità», presentando (nel senso di rendendo presente) un rapporto sempre più problematico con il gruppo, percepito come fonte di conflitto, oltre che come luogo imprescindibile della memoria collettiva. Sono quindi i dilemmi fondamentali di una scrittrice maghrebina contemporanea ad emergere prepotentemente attraverso la descrizione dell’infanzia offerta nei testi analizzati.
Il complesso rapporto tra infanzia, comunità, epopea e storia in divenire è sviluppato anche da Silvia Riva, che a partire dalle “parole” sui bambini del patrimonio orale africano evidenzia quanto essi siano poi segnati (e quindi “scritti”) come tramite tra il presente e il passato degli antenati che sono incaricati, talora difficoltosamente, di rappresentare. L’autrice traccia un vasto percorso lungo i «quasi cent’anni dalla nascita del romanzo africano di lingua francese», a partire dalla citazione dei “classici” come L’Enfant noir di Camara Laye, o l’Aventure ambiguë di Cheikh Hamidou Kane, sottolineando come già in periodo coloniale il confronto tra le culture annetta spesso un lessico di tipo bellico e militare, annunciando un trattamento dei personaggi infantili come pedine di un gioco di scacchi destinato, in ultima analisi, allo “scacco”, alla sconfitta. Ma è il dramma dei bambini-soldato che percorre soprattutto la letteratura posteriore, fin dal kouroumiano Allah n’est pas obligé, - conte philosophique, lo definisce l’autrice - che articola intorno a un originale lavoro sul linguaggio un incontro con l’orrore che sarà anche dell’Aîné des orphelins di Monenembo. Il bambino qui, «vittima e carnefice» al contempo, porta del resto fin nel nome, Faustin, il segno di un “patto” con il diavolo, la contiguità con un viaggio infernale che prosegue fino alle più recenti camere di risonanza dei conflitti tribali e regionali del Rwanda (Boubacar Boris Diop, Monique Ilboudo, Antoine Ruti, Véronique Tadjo). Straziato territorio di conquista è anche il corpo delle bambine, spesso riflesso o duplicato in una situazione di gemellarità, violato e profanato fin nelle precoci gravidanze e ancora più tragicamente oggetto di terrore e di pietà nei romanzi di Pius Ngandu Nkashama e Bolya Baenga. Di fronte a queste pregnanti denunce, il saggio di Silvia RIVA si conclude con la riflessione panafricanista di James Baldwin e la controversia (Alain Mabanckou, Patrice Nganang) che in tempi recenti, tra littérature engagée e littérature-monde, ha continuato a riverberare in campo estetico e letterario quella dialettica tra identità e differenza, integrazione e individualizzazione, Africa felix e tormentata modernità che investe ugualmente questi récits de formation. I quali, in ultima analisi, constatano l’impossibilità – ma anche la cogente necessità – di una pedagogia intesa in senso etimologico, che conduca il bambino, non attraverso i terreni di lotta degli adulti, ma verso una più auspicabile libertà di gioco e di crescita.
Di tutt’altro universo culturale e geografico si occupa Anna Giaufret, il cui contributo prende in esame la rappresentazione dell’infanzia nella narrativa quebecchese recente. L’importante numero di personaggi bambini e di bambini narratori ha già indotto la critica a mettere in relazione questa presenza reiterata con la questione della ricerca identitaria “nazionale” – conseguentemente, con quella della maturità della letteratura del Québec – soprattutto con i due referendum del 1980 e del 1995. Dopo aver analizzato vari saggi sull’argomento al fine di stabilire quale sia il “canone” di tale rappresentazione nella seconda metà del XX secolo, GIAUFRET confronta le conclusioni della critica con un’analisi quantitativa della letteratura primaria, mostrando come il maggior numero di pubblicazioni di testi che presentano personaggi bambini riguardi soprattutto gli anni1965-1969 e 2000-2004, e come l’inizio della riflessione critica sull’argomento coincida più specificamente con gli anni del secondo referendum. Prendendo in considerazione testi narrativi più contemporanei, si può comunque notare che la presenza del tema dell’infanzia, sia essa modulata come «enfance éclat», «enfance source» o «enfance blessure», non diminuisce, e anzi mantiene una notevole importanza: soprattutto nel caso di un narratore bambino, la scrittura assume allora una valenza libertaria in contrasto con ogni forma di censura, testimoniando quindi «une volonté de liberté à la fois dans la vision et dans l’expression: liberté recherchée des contraintes de l’âge adulte, des grilles d’interprétation imposées par le moulage social, voire recherche d’un lien plus direct entre les mots et le monde».
I contributi qui raccolti non fanno allora che confermare, e ulteriormente indicare, la particolare pregnanza e la fondamentale valenza polisemica del trattamento dell’infanzia nei vari ambiti francofoni. Il bambino, “compagno di strada” della letteratura che lo rappresenta e della sua evoluzione, emblema infinitamente plasmabile delle diverse specificità e problematicità, diventa allora veicolo di significati e palinsesto estetico. Investiti di un ruolo dinamico e propulsivo, enfants-rois, enfants terribles o ben più spesso enfants de souffrance inducono, nei simbolici itinerari qui riuniti, alla riflessione non solo sull’importanza fondatrice del periodo infantile per la personalità individuale, ma sulle possibili modulazioni di temi-chiave quali vulnerabilità e ribellione, tenerezza e rapporti di forza, passività o progressiva presa di coscienza. Lontana dai racconti agiografici degli albori, l’infanzia degli eroi, e delle eroine, della produzione contemporanea si muove allora tra memoria e engagement, pathos e appello alla nostalgia del lettore, immersione nelle profondità del tempo e della psiche e costante interrogazione del contesto politico-culturale, offerta di “rinascita” e perenne tentazione di rinnovamento, con apporti di indubbio interesse e originalità. 1
BIBLIOGRAFIA CRITICA
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Note
↑ 1 Vorremmo qui esprimere tutta la nostra gratitudine agli enti e alle istituzioni che hanno contribuito a questa Giornata e ai relativi Atti: il Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e il Corso di Dottorato in Letterature straniere e Scienze della letteratura dell’Università degli Studi di Verona, l’Institut français Milano, l’Alliance française de Vérone e Ugo Mazzoli. Siamo grate anche al Comune di Verona, all’Organisation Internationale de la Francophonie e al Consolato generale di Svizzera a Milano per il loro patrocinio. Vorremmo inoltre rivolgere un particolare ringraziamento alla prof.ssa Rosanna Gorris Camos, e alla prof.ssa Elisa Bricco e a tutta l’équipe di Publif@rum che ci ospita, per il loro prezioso sostegno.