« L’Enfant génial » di Irène Némirovsky: il problema delle origini tra appartenenza, allontanamento e impossibile ritorno
Indice
Una "judéité" ambigua, un’opera ambigua
Una tradizione folklorica e biblica
Abstract
Italiano | IngleseL'articolo mira ad analizzare la novella "L'Enfant génial" di Irène Némirovsky, secondo diversi angoli di lettura, dal più semplice al più complesso. Fiaba simbolica del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, ma anche parabola del ritorno alle origini, il testo riutilizza numerose forme narrative della tradizione folklorica e biblica. Questi modelli sono tuttavia riscritti dall'autore per esprimere le difficoltà del vivere pienamente l'identità ebraica.
Alejandro Jodorowsky, Quando Teresa si arrabbiò con Dio.
Una fiaba allegorica?
«Ismaël Baruch était né, un jour de mars où il neigeait très fort, dans une grande ville marine et marchande du sud de la Russie, au bord de la mer Noire» (NÉMIROVSKY 1927: 211). L’incipit di L’Enfant génial inquadra immediatamente la vicenda, senza però fornire indicazioni spazio-temporali del tutto precise, come è tipico della forma della fiaba. L’opera viene pubblicata nella collana «Les Œuvres libres», edita da Fayard, nel 1927, ma Irène Némirovsky afferma in un’intervista di averla concepita già nel 1923 (LEFÈVRE 1930: 11), a vent’anni: essa sembra in effetti nutrirsi di un’ispirazione fiabesca che è tra i primi moventi letterari per l’autrice, come ammette lei stessa: «j’écris depuis l’âge de treize ans. […] j’écrivais d’abord des contes de fées» (DÉROYER 1931: 431).Anche la chiusa del racconto sembra conformarsi, nel suo tono formulare, ai canoni fiabeschi: «C’est ainsi que vécut et mourut Ismaël Baruch, l’enfant génial» (NÉMIROVSKY 1927: 248).
Ismaël, ultimo figlio di poveri ebrei del ghetto, all’età di dieci anni scopre di possedere un grande talento per la poesia e il canto popolare, grazie al quale viene notato dal poeta Romain Nord e dalla sua amante, la Princesse, personaggio senza altra caratterizzazione onomastica, com’è tipico della fiaba. Il bambino viene portato dalla Princesse nel suo palazzo per intrattenere gli ospiti delle numerose feste. Tuttavia, dopo una lunga malattia, Ismaël, ormai divenuto adolescente, smarrirà il suo talento: dovrà tornare dalla sua famiglia e finirà per darsi la morte. Il racconto sembra dunque legare strettamente la perdita del talento spontaneo del bambino con la sua crescita: la fine improvvisa della creatività corrisponde al passaggio tra infanzia e adolescenza. Il genere della fiaba, il tema della Bildung orientano il lettore verso un’interpretazione allegorica apparentemente semplice, tanto da permettere al racconto di essere proposto in una collana di narrativa per l’infanzia. L’Enfant génial è infatti pubblicato con il titolo Un enfant prodige nel 1992 da Gallimard Jeunesse, a cura di Élisabeth Gille, figlia minore di Irène Némirovsky. L’opera appare nella collana Folio Junior, indicata per bambini di età non inferiore agli undici anni.
Tuttavia, in un simile quadro di riferimenti interpretativi, la morte del protagonista si inserisce in maniera problematica. La crescita del bambino non sembra essere l’unica ragione della perdita del talento e questa perdita, a sua volta, non basta a spiegare il suicidio: alcuni interrogativi restano aperti. Il racconto, anche sul piano del genere letterario, può essere letto in una chiave più complessa, in quanto l’autrice attinge, per la sua scrittura, a un universo di tradizioni letterarie, culturali e folkloriche estremamente variegato. Némirovsky è infatti ebrea, ucraina, russa, francese e conosce alla perfezione le principali lingue e letterature europee (russa, francese,inglese, tedesca) e comprende probabilmente anche lo yiddish: il sincretismo è dunque consustanziale alla sua attività creativa, caratteristica che la accomuna a molti scrittori ebrei europei, ma ne fa una figura particolare nel panorama letterario francese dell’entre-deux guerres. Si può parlare per L’Enfant génial di fiaba allegorica, dunque, ma non si possono trascurare ulteriori livelli esegetici.
A segnalare la complessità celata dal racconto intervengono anche le conclusioni opposte a cui sono giunti i biografi dell’autrice nel tentativo di spiegare il silenzio creativo di Ismaël. Per Philipponnat, il bambino prodigio nato nel ghetto ha perso il suo talento proprio perché si è allontanato dalle sue origini: «c’est parce qu’on l’a arraché au quartier juif pour le gorger de livres que le petit poète Ismaël a perdu l’énergie créatrice» (NÉMIROVSKY 2011: 32). Per Jonathan Weiss, invece, sono proprio le origini del protagonista a ostacolare la creazione poetica, incoraggiata invece dall’aristocrazia russa: «l’aristocratie […] parraine sa poésie, tandis que les parents du poète et la communauté à laquelle il appartient l’empêchent de composer […]. Ismaël, revenu dans son milieu natal, ne trouve plus les forces nécessaires à l’inspiration» (WEISS 2010: 22). Essere ebrei sembra essere, considerando entrambe le opinioni dei critici, al contempo un dono e un ostacolo, in un continuo gioco di forze di attrazione e di allontanamento. In particolare, il poeta ebreo trova ispirazione unicamente nel mondo della sua infanzia, ma per realizzarsi deve allontanarsi dalla sua stessa fonte di ispirazione: è impossibile restare ed è impossibile tornare.
Una "judéité" ambigua, un’opera ambigua
L’identità ebraica del bambino è al centro dell’ambiguità interpretativa: la misteriosa perdita del talento dell’enfant génial si inserisce nel quadro diuna visione problematica della judéité, caratteristica di gran parte dell’opera némirovskiana. «La judéité est le fait et la manière d’être juif», afferma Albert Memmi (MEMMI 1962: 29): si tratta di un fattore soggettivo che, nel caso di uno scrittore, influenza inevitabilmente anche la creazione letteraria, in un continuo cortocircuito tra piano biografico e universo finzionale. Nel caso di Irène Némirovsky, il concetto coniato da Memmi spiega solo in parte la complessità identitaria vissuta dall’autrice: Memmi difende, nel secondo dopoguerra, la scelta di essere ebreo nonostante la perdita di ogni riferimento religioso, mentre per Irène tali riferimenti sono vicini e al contempo allontanati e visione euforica e disforica dell’identità ebraica si intrecciano in maniera quasi inestricabile.
La descrizione dei bambini del quartiere ebraico, presente nelle prime righe del racconto, è esemplare della complessa elaborazione identitaria da parte dell’autrice:
les enfants naissaient dans le quartier juif comme pullule la vermine. Ils poussaient dans la rue, ils mendiaient, se querellaient, injuriaient les passants, se roulaient demi-nus dans la boue, se nourrissaient d’épluchures, volaient, jetaient des pierres aux chiens, se battaient, emplissaient la rue d’une infernale clameur qui ne s’apaisait jamais. […] ils vendaient des pastèques volées, demandaient l’aumône et prospéraient comme les rats qui couraient sur la plage autour des vieux bateaux (NÉMIROVSKY 1927: 211-212).
La caratterizzazione animalesca dei bambini del ghetto è leggermente attenuata nella versione pubblicata nel 1992, indirizzata, come si è detto, a un pubblico giovane. Nella prima frase viene infatti eliminato il paragone spregiativo tra enfants e vermine: «les enfants pullulaient dans le quartier juif» (NÉMIROVSKY 1992: 16). Immagini simili sono tuttavia ricorrenti nell’opera di Némirovsky. In Les Chiens et les Loups il narratore parla di «un peuple d’enfants qui se roulaient dans la boue» (NÉMIROVSKY 2008: 9). Élisabeth Gille scriverà nel 1992 un’autobiografia fittizia della madre, facendo ammettere a Irène una certa repulsione per i bambini ebrei che vivono nella miseria: «Ces Juifs du Podol, […] enfants malingres aux larges yeux noirs et aux maigres boucles, […] je les trouvais sales, furtifs […]. Bref, les Juifs de la ville basse me faisaient peur et me mettaient mal à l’aise» (GILLE 2000: 56).E poco oltre: «qu’avais-je de commun avec les petits Juifs pouilleux du Podol […] ?» (Ibid.: 68). Il Podol è il quartiere ebraico di Kiev, città natale di Irène Némirovsky, che, in quanto figlia di un ricco banchiere ebreo, può effettivamente avere osservato con un certo orrore misto a fascinazione i bambini del ghetto, prima di abbandonare Kiev per San Pietroburgo. Nel 1917 Irina (allora si chiamava ancora così) lascia definitivamente l’ex impero russo, in preda alla Rivoluzione, alla volta della Finlandia, della Svezia e infine della Francia, dove arriva nel 1919, all’età di 16 anni. Tuttavia, il ricordo della visione infantile resterà impresso nella sua memoria e sarà variamente trasfigurato nei suoi testi letterari.
L’estraneità sentita dalla piccola Irène nei confronti dei bambini del ghetto e, al contempo, la familiarità dell’identità comune sono state lette da Olivier Philipponnat alla luce del concetto freudiano di Unheimliche: «On s’étonnera de la description, trop hideuse pour avoir été mûrie, du ghetto juif dans L’Enfant génial […]: c’est sans doute que l’idée d’une consanguinité avec la misère juive avait saisi la petite Irina d’une “inquiétante étrangeté”» (NÉMIROVSKY 2011: 29). Freud afferma che «l’uso linguistico consente al Heimliche [“familiare” ma anche “segreto”, “nascosto”], di trapassare nel suo contrario, il perturbante (Unheimliche) […]: infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, bensì un qualcosa di familiare alla vita psichica fin da tempi antichissimi, che le è diventato estraneo soltanto per via del processo di rimozione» (FREUD 1991: 294).Tale processo psichico, originatosi nell’infanzia stessa dell’autrice, permetterebbe dunque di spiegare l’immagine offerta al lettore dei bambini ebrei poveri. In alcuni casi, la voce narrante adotta anche il punto di vista di questi ultimi, che si accostano a loro volta al mondo degli ebrei ricchi, con il medesimo sentimento di fascinazione e terrore, di familiarità ed estraneità. Queste diverse prospettive convergono dunque a sottolineare un interrogativo ricorrente e di difficile soluzione: cosa significa essere ebrei? cosa accomuna tutti gli ebrei, ricchi e poveri? esiste davvero un elemento comune tra mondi così lontani?
L’Enfant génial è permeato dai ricordi infantili dell’autrice, come dimostrano anche i luoghi descritti: il ghetto, la zona portuale brulicante dell’umanità più varia, le grandi steppe. L’opera è inscritta in un universo geo-culturale chiaramente connotato, legato all’infanzia e alle origini di Némirovsky. Il racconto nella sua forma e nella sua ambientazione è molto distante dal gusto che domina la prosa francese contemporanea. Forse anche per questo motivo l’autrice rinnegherà questo lavoro giovanile, nell’intento di divenire una scrittrice francese a tutti gli effetti:«Ne m’en parlez pas. Je viens d’y jeter un coup d’œil et j’ai refermé le livre bien vite: je le trouve si mauvais!» (LEFÈVRE 1930: 10).Nonostante questa presa di distanza, l’universo delle tradizioni ebraiche sarà presente anche in opere successive dell’autrice, seppur in forme diverse, più adatte al pubblico francese. In nessun racconto, tuttavia, l’autrice si immerge così profondamente nella realtà ebraica orientale, di cui sono descritti con attenzione numerosi aspetti: «Dans L’Enfant génial […] perce […] une réelle connaissance des rites et de coutumes juives, ainsi que de la réalité sociale du ghetto» (PHILIPPONNAT, LIENHARDT 2007: 139). La descrizione del padre e della madre di Ismaël e dei mutamenti nel loro modo di vestire denotano, da parte dell’autrice, una spiccata attenzione sociologica. Quando erano poveri, il padre «portait encore le cafetan usé, les babouches et les courtes mèches bouclées, appelées peiss, de chaque côté du front, comme il sied» (NÉMIROVSKY 1927: 211), la madre «sur ses cheveux, coupés ras le jour de son mariage selon la Loi, […]avait une perruque noire» (Ibid.). Si tratta di usi rituali, tipici dell’ebraismo ortodosso, come sottolineano le espressioni «comme il sied» e «selon la Loi», che vengono poi abbandonati dalla famiglia del bambino, arricchitasi grazie al suo talento. La voce narrante descrive non senza ironia le periodiche visite di Ismaël ai genitori: «Le Messie, s’il eût daigné descendre chez les Baruch, n’eût certes pas été reçu avec autant de respect et d’amour» (Ibid.: 227). Dal racconto sembra trasparire un giudizio critico nei confronti di chi abbandona le tradizioni ebraiche per inseguire la ricchezza, mentre tali tradizioni sono descritte con rispetto, come dimostra il finale, con la sepoltura di Ismaël nel cimitero ebraico. Il padre toglie dalla tomba del figlio le rose lasciate dalla Princesse e vi getta sopra dei sassolini. Anche qui tornano espressioni che sottolineano la ritualità del gesto: «la loi des Juifs défend de donner des fleurs aux morts […] selon le rite, il jeta sur la tombe de son fils une poignée de cailloux» (Ibid.: 248, corsivo mio).
Una tradizione folklorica e biblica
Numerosi elementi narrativi possono essere ricondotti alla ripresa di una tradizione folklorica di origine ebraico-orientale. I canti di Ismaël infatti, secondo la voce narrante, «n’étaient qu’un inconscient écho des tristes chants juifs, venus du fin fond des siècles, comme un immense sanglot, grossi d’âge en âge jusqu’à son âme d’enfant» (Ibid.: 216). L’arte del bambino prodigio attingerebbe dunque a un secolare patrimonio storico-culturale. Su richiesta del marinaio Sidorka il bambino
se mit à chanter, à psalmodier plutôt, d’une voix lente et pure qui vibrait singulièrement dans le silence de la nuit […] les étoiles tremblaient si fort qu’elle semblaient communiquer au firmament entier une espèce de douce vibration incessante. […] Ismaël chantait toujours, et son cœur devenait léger, léger dans sa poitrine, comme un oiseau qui va s’envoler. Et une lucidité étrange habitait sa pensée, comme celle que donne quelquefois l’ivresse ou la fièvre. Toute la nuit ils le firent chanter […] les refrains qu’il découvrait dans son âme, comme des trésors déposés là par Dieu, de toute éternité. (Ibid.: 215-216)
Numerose espressioni («singulièrement», «les étoiles tremblaient», «lucidité étrange») concorrono a trasmettere al lettore l’impressione di un evento magico, per il quale il testo suggerisce un possibile riferimento intertestuale. Ismaël incanta gli avventori dei cabarets del porto esattamente come Orfeo incantava le belve feroci: «Ils le forçaient à répéter vingt fois la même chose; il s’y prêtait de bonne grâce, plus fier de son ascendant sur tous ces hommes […] que ne le fut jamais Orphée, enfant, parmi les bêtes fauves» (Ibid.: 216). Tuttavia non vi è solo il mito di Orfeo a fare da sostrato culturale al magico canto di Ismaël. Le parole da lui pronunciate sono infatti ispirate da Dio, come testimonia un altro passaggio del testo: «L’enfant chantait d’une voix grêle et pure; ses yeux fixés dans le vide semblaient suivre une page déroulée, visible pour lui seul; les adolescents bibliques qu’animait le souffle de Dieu devaient avoir été pareils à lui» (Ibid.: 223). L’allusione alla רוחַ (ruah), al soffio divino che ispira Ismaël come molti adolescenti biblici prima di lui, quasi leggesse da un libro invisibile, fa pensare alla tradizione mistica ebraica e in particolare al hassidismo, nato nel contesto ebraico orientale di cui era originaria Némirovsky. Anche i cernecchi portati dal padre di Ismaël fanno parte dei costumi prescritti nell’ebraismo hassidico.
Inoltre l’uso del verbo psalmodier, che viene a precisare, nella frase citata, il verbo chanter, rinvia alla figura di Davide, autore per la tradizione ebraica della maggior parte dei Salmi e musicista in grado di ammansire Saul: «Davide prendeva la cetra e sonava con la sua mano: Saul trovava la calma, ne aveva un beneficio e lo spirito malvagio si allontanava da lui» (1 Sam 16, 23). Ismaël tuttavia non usa la lira di Orfeo o la cetra di Davide, ma strumenti legati alla tradizione russa e balcanica come la balalaïka o la guzla dalmata (NÉMIROVSKY 1927: 229): è evidente in questi aspetti l’influenza delle diverse culture e tradizioni (ebraica, russa, europea) nell’opera di Némirovsky. Il verbo psalmodier può anche alludere più in generale alla cantillazione della lettura sinagogale delle preghiere e della Torà, o anche dello studio talmudico. Nel mondo hassidico la preghiera è spesso accompagnata da melodie, o niggunim, che hanno una funzione mistica, possono portare alla trance, e sono a volte accompagnati dal ballo.
L’immagine degli uccelli è spesso legata all’ispirazione di Ismaël: l’elevazione di Ismaël attraverso il canto ricorda la דבקות (devéqout, WIGODER: ad vocem), letteralmente “adesione” o “unione”, cioè l’elevazione mistica verso il divino attraverso la preghiera e la meditazione, come è intesa dal pensiero cabalistico, concetto a cui poi il hassidismo diede un’interpretazione ancora più ampia e generalizzata. Il volo è anche simbolo della spontaneità: «Jamais le petit ne réfléchissait d’avance à ce qu’il allait dire: les paroles s’éveillaient en lui comme des oiseaux mystérieux auxquels il n’y avait qu’à donner l’essor» (NÉMIROVSKY 1927: 216). Quando l’ispirazione svanisce, sembra che le parole-uccelli non si facciano più catturare: «les mots qu’autrefois il capturait ainsi que des oiseaux dociles s’envolaient loin de lui, devenaient redoutables et pleins d’un hostile mystère» (Ibid.: 237). Anche Romain Nord, il poeta fallito che ha scoperto Ismaël, descrive allo stesso modo la perdita del talento: «Là, dans ma tête, il y a des vers, de beaux vers… Je les sens qui battent de l’aile comme des oiseaux… là, tu comprends? et je ne peux pas les écrire… Quand je veux les saisir ils s’envolent… loin… loin… […] peut-être qu’ils sont morts mes oiseaux merveilleux» (Ibid.: 246). L’immagine degli uccelli ricorre anche per designare gli ebrei al mercato, che saltellano qui e là, gli occhi della Princesse e un suo cappello, creando una sorta di leitmotiv che percorre tutto il testo (Ibid.: 213, 224, 225). Le parole che volano rinviano anche a una leggenda molto nota, a cui fa allusione ad esempio André Schwarz-Bart alla fine del romanzo Le Dernier des Justes, grande affresco del mondo yiddish:
il se souvint avec bonheur de la légende de rabbi Chanina ben Teradion, telle que la rapportait joyeusement l’ancêtre: lorsque le doux rabbi, enveloppé dans le rouleau de la Thora, fut jeté par les Romains sur le bûcher pour avoir enseigné la Loi, et qu’on alluma les fagots aux branches vertes encore pour faire durer son supplice, les élèves lui dirent: Maître, que vois-tu? Et rabbi Chanina répondit: «Je vois le parchemin qui brûle, mais les lettres s’envolent…» (SCHWARZ-BART: 424)
Nel racconto viene evocato anche un altro animale alato, la farfalla. Dopo una malattia che ha rischiato di farlo morire, Ismaël trascorre un lungo periodo di riposo solitario nella tenuta di campagna della Princesse, dove scopre la gioia della vita a stretto contatto con la natura. Proprio in questo periodo egli perde l’ispirazione poetica e l’immagine della farfalla sembra anticiparlo:
D’une touffe d’herbe, à côté de lui, un papillon blanc s’éleva en zigzaguant […] et ses petites ailes palpitaient d’une vibration incessante, qui était comme le rythme même de l’été, comme le frisson, l’écho d’une mystérieuse musique venue du fin fond de la terre. La papillon volait vers Ismaël; alors, le petit jeta le papier, le crayon, et, les joues en feu, avec un cri léger, barbare et naïf, il s’élança à sa poursuite. Et, depuis ce jour, il cessa d’écrire. (Ibid.: 234)
La farfalla appare producendo una musica «misteriosa», e introduce così un ulteriore elemento riconducibile ad un campo semantico dominante nel testo: le parole étrange, mystère, mystérieux, surnaturel, magique, songe sono infatti molto ricorrenti. In questo brano, l’apparizione della farfalla, che distrae effettivamente Ismaël dalla fase creativa, potrebbe simboleggiare, in chiave magico-allegorica, il passaggio stesso dall’infanzia all’adolescenza, dalla prigionia del ghetto alla libertà della natura, in analogia con la trasformazione da baco a farfalla. Il seguito del racconto conferma questa interpretazione:
Jamais Ismaël n’avait été un véritable enfant: là-bas, dans le ghetto, il avait toujours senti au fond de son cœur une espèce d’angoisse indéterminée, de désir vague, un orgueil trop puissant, une faculté presque torturante de se pénétrer de beauté et de tristesse. Mais cette vigueur, cette simplicité de l’âme, cette absence de pensées, de besoins, cette insouciance, cela l’emplissait, à présent, comme d’un sang nouveau (Ibid.: 234-235).
Ismaël perde dunque l’ispirazione divenendo adolescente, ma questo avviene, paradossalmente, perché con la crescita egli acquisisce quell’insouciance che è tipica dell’infanzia, un’infanzia che non ha mai realmente vissuto. Il talento poetico si nutriva dunque di quest’infanzia infelice e svanisce nel momento in cui essa diviene un lontano ricordo: questo non accade per Némirovsky, la cui opera trova radici proprio negli anni trascorsi in Ucraina e in Russia e nel difficile rapporto con la madre. Irène sembra conservare sempre quella «faculté presque torturante de se pénétrer de beauté et de tristesse» che viene meno a Ismaël.
Per una conclusione: diversi livelli di lettura
Tzvetan Todorov, riflettendo sulle funzioni narrative di un evento magico, quale è la comparsa e la scomparsa improvvisa del talento di Ismaël, attribuisce a tale evento lo scopo di motore dell’azione. Todorov porta a esempio una vicenda-tipo che richiama da vicino la trama di L’Enfant génial:
un enfant vit au sein de sa famille; il participe à une micro-société qui a ses propres lois. Par la suite, survient quelque chose qui rompt ce calme, qui introduit un déséquilibre […]; ainsi l’enfant quitte, pour une raison ou une autre, sa maison. À la fin de l’histoire, après avoir surmonté maint obstacle, l’enfant qui a grandi réintègre la maison paternelle. L’équilibre est alors rétabli, mais ce n’est plus celui du début: l’enfant n’est plus un enfant, il est devenu un adulte parmi les autres (TODOROV 1970: 171-172).
Il racconto secondo questo schema, fortemente debitore di alcune funzioni definite da Propp nel suo Morfologia della fiaba (PROPP 2000), potrebbe essere oggetto di un’interpretazione allegorica, suggerita dal narratore stesso:
il essayait de comprendre… Pourquoi s’étaient-elles tues, les chansons qui naissaient autrefois spontanément sur ses lèvres? La maladie en était-elle la cause? Ou bien, au contraire, le retour à la santé, à la vie normale? Son génie avait-il été une espèce de morbide fleur, éclose seulement parce que sa vie avait été violente, excessive, malsaine? […] Hélas! C’était tout simplement qu’il entrait dans la difficile période de l’adolescence. (NÉMIROVSKY 1927: 243)
La perdita del talento di Ismaël è legata dunque, in prima istanza, al passaggio chiave tra infanzia e adolescenza, come mostrano anche altri aspetti della vicenda. Ad esempio, se nell’infanzia la poesia nasce spontaneamente e il bambino non si preoccupa dei modelli letterari o teorici, quando inizia a leggere i grandi classici della letteratura si rende conto dell’ingenuità della sua creazione: «Rejetant avec dégoût l’art populaire qui l’avait inspiré sans qu’il s’en doutât, il s’efforçait de copier servilement Pouchkine, Lermontov, les étrangers, les anciens, et, naturellement, il ne parvenait à rien […]. Alors, il se mit à lire des ouvrages de critique, de doctrine […]. Ce fut le désastre» (Ibid.: 237). Piaget, lo psicologo che tra i primi ha studiato l’evoluzione dell’intelligenza nell’infanzia, ha sottolineato come l’attenzione per la teoria sia tipica dell’adolescente, mentre il bambino non fa caso a questi aspetti: «l’adolescente, al contrario del bambino, è l’individuo che comincia a costruire dei sistemi e delle teorie. […] il bambino non cerca affatto di sistematizzare le sue idee» (PIAGET 1969: 143).
Un’ulteriore interpretazione dell’evoluzione del personaggio di Ismaël è fornita da Angela Kershaw, che, nella frase «il se mit à lire des ouvrages de critique, de doctrine», ha rilevato una possibile allusione alle Nouvelles pages de critique et de doctrine di Bourget, contemporaneo di Némirovsky (KERSHAW 2010: 53). Le letture critiche ostacolano il talento di Ismaël: l’autrice sembrerebbe implicitamente criticare un’eccessiva auto-riflessività della letteratura e tessere un elogio della creazione spontanea.
Come si è già sottolineato, il racconto non può essere dunque semplicemente ridotto a un’allegoria del passaggio tra infanzia e adolescenza: questo aspetto è certamente centrale, ma altri elementi concorrono a rendere più complessa la lettura della vicenda di Ismaël. La scomparsa del talento resta misteriosa e la causa va cercata al di là dell’evoluzione biologica, ma anche dell’influenza di una formazione culturale teorica: il ritorno alle origini e ai luoghi dell’infanzia, che avevano ispirato la sua poesia, non risolverà infatti le tensioni accumulatesi nell’animo del protagonista, che finirà per darsi la morte. Lo schema fiabesco descritto da Todorov perde dunque di senso, poiché entra in gioco l’impossibilità di un ritorno alle origini, di una pacificazione identitaria.
Il modello folklorico a cui allude Todorov è molto vicino allo schema narrativo che informa un altro racconto, quello della parabola del figliol prodigo (Luca 15, 11-32). La storia dell’enfant prodige potrebbe essere dunque modellata su quella dell’enfant prodigue e si avvicinerebbe così al genere della parabola, forma narrativa nota in particolare grazie ai Vangeli, ma nata nel contesto ebraico: «la tradizione ebraica […] ha nella parabola la forma di narrazione più compiuta e allo stesso tempo più aperta a nuove redazioni» (LO VECCHIO 2011: 1). Tra i midrashim, apparato di commenti al testo biblico stesi nel corso dei secoli dai sapienti ebrei, in particolare dai primi secoli dopo Cristo fino al Medioevo, e i Vangeli esiste «un fonds commun auquel auraient puisé les Rabbins des premiers siècles chrétiens et, avant eux, les évangélistes» (BIDAUT 2013: 18). La letteratura rabbinica è caratterizzata dalla forma del mashal, cioè un racconto in forma comparativa, il cui scopo iniziale è l’esegesi biblica, ma in cui la dimensione d’invenzione è molto importante: «Ce que le conte aggadique a de particulier c’est qu’il n’est pas une prédication morale et religieuse directe, mais qu’il raconte une histoire» (FRAENKEL 1996: 10). La parabola è dunque un testo esegetico, ma a sua volta «aperto a un instancabile lavoro ermeneutico, il quale si traduce in altrettanta scrittura» (LO VECCHIO 2011: 3). Anche Irène Némirovsky, sulla scia della tradizione ebraica, interviene in questo meccanismo di continua riscrittura e reinterpretazione. I modelli della parabola e del racconto popolare sono presenti e al contempo mutati nel loro significato profondo: il ritorno alle origini, alla casa paterna, seppur simbolo di crescita, non è positivo e porta alla morte. Il senso salvifico del nostos è annullato.
Michèle Hecquet, in una sua analisi del racconto, suggerisce di applicarvi le categorie di «irréversible» e «irrévocable» (HECQUET 2000: 131). Questa suggestione, non ulteriormente approfondita, potrebbe essere così esplicitata: l’infanzia è irrevocabile, ma le origini ebraiche sono irreversibili; se la perdita della prima è inevitabile, è impossibile dimenticare le seconde: è in questa dialettica costante che può essere trovata un’interpretazione non solo del racconto, ma di tutta l’opera di Irène Némirovsky.
La perdita del talento di Ismaël risiede forse nell’obbligo di una scelta impossibile, tra passato e futuro, tra infanzia ed età adulta, tra identità ebraica e inserimento nella società. Il nome stesso del protagonista anticipa l’ambiguità del suo destino. Ismaele infatti è il primo figlio che Dio concede ad Abramo, concepito con la schiava Agar perché Sara non può avere figli (Genesi, 16, 3-16) e in ebraico il suo nome significa: Dio ascolta. Tuttavia, Ismaele verrà cacciato con la madre Agar su richiesta di Sara subito dopo lo svezzamento del figlio Isacco (Genesi, 21, 8-21). Il nome Ismaele può dunque acquisire anche il significato di outcast, déraciné. Al tempo stesso, Ismaele è nella tradizione ebraica anche il nemico, il prototipo del nemico, poiché sposò un’egiziana ed è considerato il progenitore del popolo arabo. Ismaele è un nome che non viene mai dato nella storia ebraica diasporica, né viene dato oggi. Non ci sono ebrei che si chiamano Ismaele perché Ismaele non è ebreo. Il cognome Baruch significa invece “benedetto”. Il nome completo del bambino prodigio ha dunque un duplice significato: è colui che Dio ascolta e infatti è un poeta e la sua poesia sembra una benedizione divina, come sottolinea il cognome, ma è anche colui che si allontana dalla famiglia, dal ghetto e implicitamente dall’identità ebraica e, quando tornerà sui suoi passi, verrà deriso con l’appellativo ironicamente spregiativo di «Wunderkind», cioè bambino prodigio, in un «vilain allemand, mâtiné de yiddish» (NÉMIROVSKY 1927: 242). Il nome e il cognome del bambino prodigio creano una sorta di doppia natura, che non fa che sottolineare la duplicità intrinseca nel percorso del protagonista, tra volontà di allontanarsi dalle proprie origini e impossibilità di un totale distacco.
Il tema dell’infanzia e delle origini è centrale in tutta l’opera di Irène Némirovsky: nata in Ucraina, poi emigrata in Russia, in Finlandia, in Svezia e infine in Francia, dove divenne scrittrice di fama nel 1929 con la pubblicazione del romanzo David Golder, l’autrice non smise mai di evocare le atmosfere e i luoghi natii e il difficile rapporto intrattenuto con la madre fin da bambina. Il racconto L’Enfant génial è particolarmente significativo da questo punto di vista anche perché è il prodotto dell’“infanzia” della Némirovsky come scrittrice, concepito in un periodo in cui non aveva ancora individuato un suo pubblico. Non è un caso che l’autrice rinneghi questo racconto delle origini e sulle origini, che denuncia forse le sue difficoltà iniziali nel posizionarsi nel panorama letterario. Le origini, in particolare in questo caso le origini ebraiche, sono un punto di partenza imprescindibile per l’autrice e continua fonte di ispirazione, come dimostra la sua produzione, all’interno della quale l’universo della judéité non scompare mai del tutto. Il forte desiderio di divenire una scrittrice francese la spinge verso un percorso di assimilazione, che si rivela tuttavia impossibile negli anni che precedono il secondo conflitto mondiale, così come è impossibile tornare indietro: tutte le strade per gli ebrei europei sono sbarrate. La vicenda di Ismaël sembra anticipare questa doppia impossibilità tra assimilazione e ritorno alle origini,e la difficoltà di vivere entre-deux, elementi che nutriranno in profondità tutta l’opera di Irène Némirovsky: la morte del bambino rappresenta l’irriducibilità della complessità identitaria. La morte, però, non può essere l’unica soluzione: se la complessità non può essere ridotta, può comunque essere vissuta, come dimostra l’autrice che, anche in questo racconto, fa della sue molteplici identità di russa, francese, ebrea, cattolica, un potente motore della creatività letteraria. Riscrittura dei modelli letterari e stratificazione dei livelli interpretativi sono esemplari della capacità di Irène Némirovsky di far convivere, anche in questo tragico racconto, istanze apparentemente inconciliabili.
BIBLIOGRAFIA
Opere di Irène Némirosky citate
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Bibliografia su Irène Némirosky
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Altri testi citati
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Opere di carattere generale
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