Letteratura e antiletteratura? Cinquant'anni dopo
1. Riflessioni e rivisitazioni sul Sessantotto, cinquanta anni dopo, mettono chi allora già c’era nella condizione di chi si confronta con ciò che ha vissuto senza poterlo capire, essendo poi arrivato a capirlo (o credendo di averlo capito) solo molto più tardi, sull’onda di quei cinquanta anni trascorsi. È opinione comune che intorno al Sessantotto abbia preso avvio una imprevista accelerazione nel corso del secondo Novecento: chi ci è stato dentro si è trovato a viverla nel suo darsi e poi a percepire il modificarsi che ne è scaturito nel corso del tempo, chiarendone e come complicandone il senso. Ripensare a quell’anno e a quegli anni suscita allora un particolare ripensamento della propria vita, porta a rivederla nel suo essere implicata nelle trasformazioni del mondo circostante: e l’impegno critico, quanto più cerchi di decifrare il senso delle situazioni e degli eventi, quanto più si voglia rigoroso e imparziale, quanto più ambisca a capire quello che allora non si era capito, tanto più si sovrappone inestricabilmente all’autobiografia, al flusso di esistenza che si è prolungato da allora fino ad oggi, al modificarsi dello sguardo indietro, nello svolgersi dell’accidentale flusso del tempo.
Si tratta allora di andare al di là della conferma di sé o della mitizzazione delle proprie scelte o della opposta reticenza su di esse. Davvero poco fruttuose sono le nostalgiche autocelebrazioni dei reduci, le patetiche rievocazioni di gesta personali. Si dovrà cercare piuttosto di comprendere come lo sviluppo storico successivo suggerisca di riconoscere in molti aspetti del Sessantotto, nei comportamenti e nelle azioni di coloro che vi hanno preso parte, una ambigua e contraddittoria educazione sentimentale, proiettatasi in un viluppo di illusioni perdute: tra processi culturali e sociali che hanno condotto alla situazione presente (molte delle cui radici si ritrovano probabilmente proprio nel Sessantotto). Fuori causa sono le evocazioni di utopici sogni (Dreamers!), di entusiastiche gioventù rivoluzionarie, di assalti al cielo sconfitti dalla malignità del mondo.
Ma qui mi limito a parlare di letteratura, del modo in cui veniva percepito lo stato della letteratura italiana da chi allora si trovava in una Facoltà di Lettere, in una di quelle che costituivano il cuore del movimento studentesco. Nel mettere in questione l’istituzione universitaria, il movimento si trovava naturalmente a mettere in questione l’uso della letteratura dentro di essa e poi più in generale lo statuto della letteratura nella società e il rapporto dei soggetti con essa. Molto presto si venne a definire e ad imporsi un orizzonte di critica totale delle forme culturali e istituzionali, che non poteva non coinvolgere la letteratura, raccogliendo tutto il disagio maturato negli anni del boom economico e il radicalismo variamente circolante nella cultura degli anni Sessanta, la spinta a distruggere che lo caratterizzava (una sua esemplare espressione, fuori d’Italia, è data dal libro e film del 1969 di Marguerite Duras, Détruire dit-elle).
Questa spinta si manifestava, a livello internazionale, secondo direzioni diverse; nel più specifico ambito italiano, se ne possono distinguere sommariamente quattro:
- Operaismo. Nel quadro di un marxismo sostenuto da nuove analisi delle lotte operaie, si affermava il presupposto di un orizzonte rivoluzionario suscitato dalla stessa struttura produttiva del capitalismo e da una nuova soggettività dell’operaio-massa, tutta determinata dalla nuda materialità del suo essere, indifferente agli sviluppi dell’arte e della cultura, sovrastrutture irrimediabilmente borghesi. Così si considerava irrilevante un impegno culturale, anche se paradossalmente la stessa immagine dell’operaio-massa veniva disegnata in termini del tutto “letterari” e addirittura estetizzanti. Questa linea trovava la sua espressione più coerente nel libro del 1966 di Mario Tronti, Operai e capitale: ma negli svolgimenti successivi sarebbe approdata all’estremismo del gruppo di Potere Operaio e alla violenza della cosiddetta Autonomia Operaia.
- Avanguardia. L’attività della neoavanguardia, sviluppatasi nel corso degli anni Sessanta con il Gruppo 63, con parziale ripresa dei modelli delle avanguardie di primo Novecento (le cosiddette avanguardie storiche), diffondeva un’istanza di progettazione e sperimentazione di nuove forme artistiche, con il rifiuto dei generi letterari codificati. Nel clima del Sessantotto la suggestione avanguardistica arrivava a toccare esiti estremistici, fino alla negazione della parola comunicativa, all’anarchismo linguistico, al tentativo di praticare un linguaggio-azione.
- Dimensione estetica. Seguendo alcuni svolgimenti del pensiero marxista, tra cui particolare risonanza assunsero le opere di Herbert Marcuse, si concepiva la rivoluzione come compimento della promesse de bonheur trasmessa dalle forme estetiche della tradizione e della modernità, ma negata dal sistema borghese. Ne scaturivano varie utopie della liberazione estetica ed erotica, anche con particolari usi della psicanalisi e del pensiero negativo, sostenute spesso da critiche radicali della stessa estetica e delle forme artistiche date. Vicina, ma diversa prospettiva era quella che si potrebbe definire del comunismo letterario, in cui il valore dell’esperienza estetica veniva salvaguardato nella sua alterità rispetto alle condizioni del presente, proiezione verso un modo futuro, ma separata dalle necessarie pratiche rivoluzionarie (è una linea a cui si può ascrivere in parte l’attività di Franco Fortini).
- Populismo. Collocandosi in quello che si considerava il punto di vista delle classi subalterne o in genere del “popolo”, se ne affermava l’estraneità alla cultura borghese e si prospettava una radicale modificazione delle forme culturali, che dovevano trasformarsi in espressione del popolo, delle sue necessità morali e materiali. Prospettiva di grande impatto era in questo senso quella indicata nella Lettera a una professoressa (1967) che don Lorenzo Milani aveva redatto a nome della scuola di Barbiana nel Mugello: qui la critica alle forme correnti della scuola si svolgeva in critica all’insegnamento della letteratura e dei suoi modelli “classici”, affermando la necessità di pratiche linguistiche rispondenti alle esigenze e ai bisogni delle classi popolari e specificamente del mondo contadino. Questo orizzonte populistico si volgeva spesso a più dirette affermazioni e rivisitazioni di dati specifici delle culture subalterne, di tradizioni popolari conculcate dalla cultura “alta”, o si estremizzava in direzioni “filocinesi”, secondo le linee suggerite dalla rivoluzione culturale di Mao-Zedong, con propositi di estinzione di ogni orizzonte intellettuale che non si risolvesse nell’impegno rivoluzionario a “servire il popolo”. E oggi occorrerebbe riflettere sulle modificazioni successivamente intervenute nella natura e nelle condizioni di quello che allora veniva considerato il “popolo”: sul fatto che, proprio mentre se ne rivendicavano le istanze, esso cominciava a trasformarsi in un popolo-massa di consumatori, subalterni ai miti e alle manipolazioni mediatiche.
Da quest’ultimo cenno si può capire come ogni sommaria distinzione, come quella qui fatta, trascini con sé la necessità di distinzioni ulteriori e imponga la considerazione dei successivi sviluppi, chiamando in causa, in definitiva, ciò che poi siamo diventati, gli esiti (reali o apparenti) del nostro ingarbugliato presente. È vero d’altra parte che allora non era facile identificare con chiarezza le quattro linee qui distinte: oltre a non essere chiare a chi era immerso nel presente, esse agivano in modi diversi e sfasati, che imporrebbero più sottili e articolate distinzioni. Esse comunque convergevano verso una generale messa in questione delle forme culturali: dai punti di vista più eterogenei serpeggiava in ogni modo, anche in molti intellettuali intrisi di letteratura, un’istanza di rifiuto della letteratura stessa. Valeva una formula che fu più volte ripetuta: si passava dalla “letteratura del rifiuto” al “rifiuto della letteratura”, nel presupposto della preminenza di un compito rivoluzionario, rivolto verso un rovesciamento dei rapporti di produzione, con conseguente liberazione della vita in tutte le sue forme.
In ambito italiano, a differenza di ciò che accadeva in Francia (dove i due celebri slogan, l’imagination au pouvoir e changer la vie, sembravano inverare gli auspici del surrealismo), questo rifiuto della letteratura finiva per agire anche in chi di letteratura continuava a occuparsi, nella presunzione che, per realizzare le proprie stesse istanze liberatorie, la propria promesse de bonheur, la letteratura dovesse, se non proprio estinguersi, identificarsi con la vita in atto, col movimento verso l’agognata rivoluzione. Il fervore rivoluzionario saltava ogni possibile mediazione: pretendeva di mirare a forme culturali che coincidessero con lo scorrere spontaneo della vita, con il suo darsi in azione presente: vita che rappresenta se stessa, che trova il proprio senso nell’immediatezza del proprio darsi, del proprio dispiegarsi (rousseauiano avvento di un tempo trasparente a se stesso, di cui significativo emblema teatrale poteva essere l’esperienza dell’americano Living Theater).
Sarà certo il caso di riflettere su come tutto ciò sia approdato, attraverso gli aggrovigliati e contraddittori passaggi dagli anni Settanta ai primi decenni del nuovo millennio, al populismo digitale, al generale ostinato affidarsi alla mediazione informatica, illusoriamente concepita come salto di ogni mediazione, condivisione assoluta, partecipazione ad un indefinito presente, sempre “in tempo reale”, vita in atto perché veicolata dalla magia della rete: con la decisiva emarginazione di ogni cultura complessa, umanistica o scientifica, e il diffondersi di modelli sociali regressivi, di miti fittizi, di arcaici pregiudizi, di ottundente aggressività.
Quali che siano stati questi tardi sviluppi, quella negazione della letteratura si affacciava in dichiarazioni e gesti d’ogni tipo, in cui si distinguevano spesso proprio coloro che letteratura facevano, con recisi scatti di fervore rivoluzionario, che erano in effetti molto letterari. Così oggi può far sorridere la battuta di uno scrittore di valore come Roberto Roversi, che già nell’ottobre 1967 aveva sentenziato in un fascicolo di “Rinascita”: «Io sento che è arrivato il momento di spezzare la penna sul ginocchio».
2. Molti giovani che stavano cercando di dar voce al proprio interesse e passione per la letteratura e che pur seguivano la suggestione del movimento studentesco, si trovavano allora come spiazzati, sospesi tra la condivisione di quelle istanze di negazione e l’opposta aspirazione a frequentare comunque territori letterari. Così un gruppo di giovani letterati romani provò a uscire da questa contraddizione raccogliendosi in una “cantina”, quella della libreria Al Ferro di Cavallo, davanti alla sede dell’Accademia di Belle Arti: ci si riuniva ogni sabato sera leggendo dei testi e discutendoli animatamente. Erano narratori, poeti, critici, molti dei quali sono ancora in intensa attività letteraria, altri sono scomparsi, pochi hanno preso strade diverse. Frequentavo assiduamente questo gruppo, che non ambiva a costituire nessuna militanza avanguardistica, insieme a Dario Bellezza, Giorgio Manacorda, Renzo Paris, Biancamaria Frabotta, Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli, Maurizio Grande, Tommaso Di Francesco e tanti altri. Qualcuno già intratteneva qualche rapporto con alcuni dei personaggi più importanti della vivace cultura romana di allora: primi fra tutti Moravia e Pasolini, che guardavano con interesse alle giovani generazioni e cercavano a loro modo di capire ciò che accadeva nei movimenti del Sessantotto.
Si sa che proprio a Pasolini è dovuto il più noto incontro-scontro con il movimento studentesco, la discussa lettera poetica del giugno 1968, Il PCI ai giovani, apparsa in più sedi (“Nuovi argomenti”, “L’Espresso”, “Paese sera”,) e raccolta nel 1972 in Empirismo eretico. Prendendo a spunto la “battaglia” tra studenti e polizia avvenuta davanti alla Facoltà di Architettura di Roma il 1° marzo 1968, Pasolini, attribuendosi quello che immagina essere il punto di vista del PCI, si rivolge agli studenti figli dei borghesi, opponendo la loro condizione borghese a quella dei poliziotti che invece sono «figli di poveri», vengono da periferie contadine o urbane. Per lui le rivendicazione di diritti fatta dagli studenti manifesterebbe in realtà un’aspirazione borghese e piccolo-borghese al potere: «Smettetela di pensare ai vostri diritti,/ smettetela di chiedere il potere». Gli studenti chiedono “tutto”, ma in realtà vogliono riforme che migliorino il sistema: queste richieste sono perfettamente integrate nelle prospettive del trionfante neocapitalismo, che sta diffondendo le forme di un repellente comportamento piccolo-borghese, a cui vanno conformandosi anche gli operai e i contadini.
La polemica che ne seguì diede poi luogo a un nuovo intervento di Pasolini su “L’Espresso” (30 giugno 1968), Perché siamo tutti borghesi, in cui spiegava di aver dato alla parola borghese un significato «metafisico» e di ritenere che gli studenti «rappresentino semplicemente il neocapitalismo in quanto totalità, che respinge e supera il capitalismo classico. La nuova cultura tecnica e cittadina, che rovescia la vecchia cultura, umanistica e contadina». In questa nuova cultura espressa dagli studenti egli vedeva «non più la malattia di una classe sociale», ma quella che si stava avviando ad essere «la malattia di tutto il mondo». Il suo era in effetti un ragionamento impulsivo, pieno di scatti provocatori e di contraddizioni, ma che si sarebbe approfondito negli anni successivi, fino al tragico esito del 1975, con le profetiche riflessioni sulla mutazione antropologica, sull’universale degradazione consumistica dei comportamenti e dei modelli di vita delle giovani generazioni.
Quella del 1975, data della morte di Pasolini, costituisce peraltro una sorta di data limite, che può essere presa come punto finale della letteratura del Sessantotto: sullo sfondo delle tendenze che sopra ho distinto e del procedere comunque, in quel contesto, di vari esiti letterari, si può infatti circoscrivere la letteratura del Sessantotto entro una periodizzazione “breve”, tra il 1963 (anno canonico della neoavanguardia, con la fondazione del Gruppo 63) e il 1975 (anno della morte di Pasolini, che per le più giovani generazioni è l’anno di un’antologia poetica che si apre su di un orizzonte che è già al di là dell’avanguardia e del rifiuto sessantottesco della letteratura, Il pubblico della poesia, a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli).
In una storia di questa letteratura del Sessantotto occorrerebbe mettere in rilievo molte riviste, che ebbero una presenza determinante nel dibattito politico-culturale, cosa che negli anni successivi il genere rivista andò rapidamente perdendo. Tra quelle che si trovarono a chiamare in causa la letteratura, anche se entro una più ampia problematica politico-culturale, affacciata sugli eventi contemporanei, non si possono trascurare “Quindici” e “Quaderni piacentini”. La prima (uscita dal 1° giugno 1967 al 19 agosto 1969) raccolse intorno a sé gran parte degli esponenti e simpatizzanti della neoavanguardia, ma poi rapidamente arrivò ad estinguersi per un contrasto tra una posizione di indipendenza politica, di apertura problematica alle novità in atto, e opposte istanze di immediato schieramento e aderenza diretta alle lotte in corso: nei diversi numeri di “Quindici” in realtà una concentrazione su autonomi sviluppi culturali si alterna a convergenze con le più varie istanze dei movimento del Sessantotto. Nella linea dello schieramento dalla parte delle lotte, anche nei loro esiti estremi, era in prima linea Nanni Balestrini, che con il libro del 1971, Vogliamo tutto, registrava spezzoni di linguaggio in cui si esprimeva la spinta estrema dell’operaio-massa, secondo una linea che poi avrebbe trovato svolgimento nelle posizioni dei gruppi di Autonomia operaia, con le azioni più violente degli anni Settanta.
La rivista “Quaderni piacentini” (iniziata già nel 1962 e chiusa nel luglio 1972) si pose dal canto suo come riflessiva fiancheggiatrice degli orizzonti della nuova sinistra, in una prospettiva di vigile coscienza critica: dopo aver costituito una delle maggiori espressioni della cultura della nuova sinistra italiana, la sua chiusura fu come una presa d’atto dell’esaurimento della sua spinta più originale e della sua crisi. Tra gli intellettuali vicini ai “Quaderni piacentini” Franco Fortini è stato certamente quello in cui nel modo più complesso si è manifestato l’intreccio tra le istanze rivoluzionarie e l’impegno letterario, entro un inquieto spirito di contraddizione, in un continuo e mai soddisfatto dar voce al disagio della parola nella condizione presente del mondo (libro capitale da questo punto di vista, breviario quasi di una letteratura affacciata verso l’attesa di una palingenesi rivoluzionaria, è stato Verifica dei poteri, raccolta di saggi pubblicata nel 1965).
3. Senza poter qui ripercorrere tutte le vicende della letteratura nel periodo tra il 1963 e il 1975 (che davvero meriterebbero una ricostruzione articolata, con un punto di vista centrato su tutto quell’insieme di novità che trovano il loro centro nel Sessantotto), mi soffermerò brevemente su alcune opere importanti proprio nell’anno fatidico.
Il libro di poesie che sembra essersi immerso con più vicina adesione allo spirito del Sessantotto e a un’immagine ideale di esso è certamente Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante: si tratta di una forma di poesia teatrale, praticata in deliberata estraneità ai codici poetici novecenteschi, in una sorta di teatro plurimo, pletorico e delirante, sogno di rovesciamento della storia, in cui è la forza del riso dei “ragazzini” a neutralizzare il male del mondo e la stessa sua incarnazione estrema rappresentata dal nazismo. Ma Il mondo salvato dai ragazzini resta come un informe abbozzo di impossibile utopia, che quasi si perde nell’empito della parola, nelle sue elevazioni mitiche e simboliche: e del resto alla pubblicazione del libro sarebbe seguito l’impegno della Morante in un romanzo più ambiziosamente totale, denuncia della negatività della storia dal punto di vista dei deboli, della loro silenziosa resistenza, La storia (1974), che risente anch’essa dello spirito del Sessantotto, ma in un orizzonte più intimamente critico: il romanzo suscitò riserve e polemiche sia dal punto di vista letterario che da quello politico, ma certo resta come una delle opere più essenziali del periodo.
Nel 1968 uscì un importante libro di quello che è stato il maggiore poeta della neoavanguardia, Elio Pagliarani, Lezione di fisica e Fecaloro: la poesia scaturisce qui da un’intersezione tra generi e materiali di origine diversa, privilegiando la forma della lettera-recitativo, con uno straniante conflitto di voci, che esibisce dati scientifici e dati esistenziali, con una intensa carica critica verso gli oggetti e la loro mercificazione: la tensione sperimentale vi si dispiega con una formidabile scansione ritmica, sostenuta da uno spirito anarchico che ostinatamente ambisce a tener viva la speranza di un’apertura del mondo.
Ben diversi caratteri sono quelli del coevo La beltà, di Andrea Zanzotto, che sorge proprio dal confronto tra orizzonti contrastanti: da una parte la ricerca di un rapporto autentico con la realtà, con la natura, con la tradizione poetica, dall’altra le forme della comunicazione contemporanea, l’universo del consumo, l’alterarsi dell’ambiente. In questa poesia si incontrano insistentemente il sublime e il basso, la misura lirica e la sua ironizzazione, la bellezza e la sua corrosione, lo sguardo della natura e i suoi equilibri che già cominciano ad apparire minacciati.
Nel clima della critica sessantottesca verso le forme istituzionali della cultura uno spazio non trascurabile veniva ad assumere il comico, che trovava proprio nel 1968 una delle sue manifestazioni di maggior rilievo, con il romanzo di Luigi Malerba, Salto mortale, svuotamento e moltiplicazione della voce parlante e del personaggio, in un orizzonte parodico che rovescia criticamente luoghi, oggetti, situazioni, in un continuo interrogarsi e contestarsi degli eventi e delle cose, in una stralunata evanescenza dell’ambiente, pur reale e precisamente identificabile. Un’opzione comica come strategia di critica ai valori assestati, alla cultura repressiva, sarebbe stata poi quella di Gianni Celati, fin dal primo libro del 1970, Comiche, che, sulla suggestione della grande comicità cinematografica degli anni Venti, si affidava ad un personaggio-marionetta intento a rovesciare ogni norma, ogni oppressione istituzionale. Di lì a poco, dopo la scoperta del grande libro di Michail Bachtin su Rabelais e la cultura popolare tra Medioevo e Rinascimento, tradotto dal russo in francese nel 1970 (mentre in italiano sarebbe uscito solo nel 1979), veniva a dare nuovo impulso all’orizzonte comico, come espressione del basso corporale e materiale, dello spirito rovesciante e ambivalente del carnevale (e anche io mi sono trovato a condividere questi orizzonti, con un mio libretto del 1974, Il comico nelle teorie contemporanee).
Ma tra le maggiori uscite del 1968 non si può non ricordare un grande libro postumo, che da certi punti di vista può considerarsi fuori tempo, lascito di una stagione ormai trascorsa, da altri può apparire addirittura tempestivo, per la forza critica e immaginativa, per il modo in cui la lotta della Resistenza viene rappresentata nella sua durezza senza remissione (scevra comunque delle proiezioni sul presente che ne facevano i movimenti del Sessantotto): si tratta de Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, apparso allora nel testo curato da Lorenzo Mondo. L’autore era scomparso nel 1963 lasciando incompiuto il suo grande ciclo resistenziale, che poi avrebbe suscitato varie ipotesi, dibattiti filologici, diverse costituzioni del testo: intanto in un’altra opera di Fenoglio, Una questione privata, apparsa anch’essa postuma poco dopo la morte dell’autore, Italo Calvino già nel 1965 aveva riconosciuto il capolavoro della letteratura della Resistenza.
Intorno al 1968 facevano le loro prove di scrittura, turbati in parte da tutto ciò che sembrava mettere ai margini la letteratura, partecipi e insieme distanti dalle suggestioni del movimento, quelli che sarebbero stati alcuni dei maggiori scrittori delle nuove generazioni e che si sarebbero affermati negli anni successivi. Oltre al già ricordato Celati, ricordo tre miei coetanei, le cui opere prime sarebbero uscite poco dopo quell’anno: Sebastiano Vassalli (nato nel 1941) esordì nel 1970 con Tempo di màssacro, Franco Cordelli (1943) esordì nel 1973 con Procida, Antonio Tabucchi (1943) nel 1975 con Piazza d’Italia.
Non va in fine dimenticato il fatto che, pur nel generale orizzonte antiletterario, restava vivo il rapporto con alcuni dei grandi classici, quelli che più tardi sarebbero stati definiti entro la stucchevole categoria del canone. In fondo, pur nell’intreccio di scelte e illusioni rivoluzionarie, la grande letteratura italiana del passato aveva una presenza contemporanea ben maggiore di quella che oggi le tocca. Letture e reimpieghi in chiave contestativa o sperimentale diedero nuova vitalità ad alcuni classici, portati a confrontarsi con originali forme di ricezione: esito eccezionale fu quello dell’Orlando furioso di Luca Ronconi (la cui prima ebbe luogo a Spoleto il 4 luglio 1969) in cui la ricchezza del testo ariostesco, ridotto a cura di Edoardo Sanguineti, si dispiegava attraverso l’apertura dello spazio teatrale, con variata simultaneità degli episodi, irruzioni di macchine sceniche, intrecci sorprendenti di libertà e costrizione, in un esaltato risuonare e intrecciarsi delle voci e delle meraviglie della poesia.