Il Sessantotto vent’anni dopo: «Un giorno e mezzo» di Fabrizia Ramondino
Abstract
Italiano | IngleseIl titolo allude a un duplice significato: lo sguardo critico di Fabrizia Ramondino nei confronti del Sessantotto, da lei vissuto con un certo distacco, pur se immersa nel sociale, e i vent’anni che separano quell’esperienza dalla scrittura del romanzo Un giorno e mezzo, ambientato nel settembre ’69. Questo contributo lo propone come il romanzo più classico della scrittrice.
È la stessa Fabrizia Ramondino, a trent’anni di distanza, a rievocare i luoghi dove si svolgevano le «riunioni caotiche» durante il ’68, le «incredibili ville fatiscenti» (RAMONDINO 2012: 21-23) della sua città, Napoli, dove, come ricorda La Capria, da sempre aristocratici e alto borghesi convivevano, negli stessi quartieri e persino negli stessi palazzi, con gli strati sociali più bassi, gli ultimi. Del resto, andando indietro con la memoria, agli anni della militanza della scrittrice nel partito socialista, quando lei e i cosiddetti compagni si riunivano in un vecchio palazzo adiacente a piazza Dante, Fabrizia Ramondino notava che questa era proprio una caratteristica di Napoli. Come negli anni Cinquanta, gli ambienti del fare politica anche nel ’68 erano rimasti «interclassisti»: in essi «il senso dell’antistato dell’aristocrazia si sposava con quello del sottoproletariato, il tutto in una cornice decadente» (RAMONDINO 2012: 23).
Grazie a queste parole, riemerse dopo anni di oblio, perché contenute in una cassetta dimenticata in qualche sottoscala, dopo la registrazione per un programma radiofonico (LAMBIASE 2012: 17), il quadro dell’identità politica e civile della nostra scrittrice, su posizioni anarchiche per alcuni anni, si arricchisce ulteriormente di tessere preziose. Ramondino arriva al ’68 con un bagaglio ripieno di esperienze varie, più o meno eslegi: il giro d’Italia in autostop con Gli ossi di seppia di Montale e I Canti orfici di Campana al seguito; il grande attivismo per l’Associazione Risveglio Napoli con sede a Palazzo Marigliano in via San Biagio dei Librai; la ripresa dell’analisi junghiana nel ’67; la nascita della figlia Patrizia, avuta, fuori dal matrimonio, da Livio Patrizi; l’insegnamento in una scuola media di Torre Annunziata a contatto con bambini già adulti, pronti a delinquere e senza alcuna possibilità di recupero. Così ricorda nella Prefazione alla nuova edizione del suo primo libro, Ci dicevano analfabeti. Il movimento dei disoccupati napoletani degli anni ’70: «Fui salvata dai bambini – dalla scoperta dei bambini dei vicoli di Napoli e della bambina dei vicoli dell’inconscio che era in me. Così nacque l’Arn, e con essa la mia discreta attività poetica, la mia nascosta gravidanza» (RAMONDINO 1998: 7).
Ed è sempre grazie all’intervista radiofonica rilasciata all’amico e scrittore napoletano Sergio Lambiase nel 1998, e poi pubblicata, a distanza di molti anni, in più sedi, sotto il titolo Il mio Sessantotto, che oggi noi possiamo accostare con più certezza il romanzo Un giorno e mezzo apparso nel 1988 a quel clima culturale e politico. Occorre dire che la data dell’ambientazione era già segnalata dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi, cioè il settembre del 1969, così come vi era dichiarata l’ambizione narrativa dell’autrice di essersi misurata, nel romanzo, con il proprio tempo, dandone un’interpretazione critica. Tuttavia, se il tempo e lo spazio hanno un’esatta localizzazione nel «ritratto di una generazione, di un momento storico, di una città», la focalizzazione è sempre spostata dai progetti politici ai labirinti dell’animo umano (RAMONDINO 1988).
Recuperando questa direzione, il testo dell’intervista rivela lo sguardo soggettivo e tutto personale con cui la trentaduenne Fabrizia aveva attraversato le esperienze del ’68, filtrandole poi in Un giorno e mezzo, uscito a vent’anni di distanza, con grande perizia letteraria. Tutto torna: l’amore per i libri, la sua cultura antica e radicata, per usare i suoi stessi aggettivi, tutto ciò la rende libera di fronte agli imperativi di quegli anni. Non solo, ma leggere e rileggere gli autori della sua formazione, i russi, i francesi, restava anche durante l’attività politica e sociale di quei mesi la sua occupazione preferita. Non potendo abbandonare i libri degli junghiani, per la sua curiosità e pratica della psicologia del profondo, si affannava a leggere Marx e i «Quaderni Piacentini», la storica rivista nata nel 1962, interprete di molte posizioni della Nuova sinistra, in cui la stessa Ramondino si è riconosciuta, pur con molte riserve, come per l’appunto emerge da Un giorno e mezzo.
Qual è stato il mio ’68 allora, si chiede Fabrizia, situandosi nella situazione e descrivendone gli aspetti per lei positivi e a lei, che proveniva da esperienze politiche libertarie, congeniali? Così risponde:
Durante il Maggio Francese io ero a Portici con una bambina piccola per cui gli avvenimenti di Francia mi arrivavano riportati da altri o li apprendevo attraverso libri, giornali, televisione. Diciamo che li ho vissuti come un fatto straordinario, coinvolgente, giacché avevo una cultura francese di partenza. Gli eventi di Francia di quei giorni per me si riallacciavano profondamente all’esperienza del fronte Popolare del ’36 e prima ancora al movimento surrealista. Gli aspetti ludici, gioiosi, libertari del Sessantotto sono stati fondamentali. Io che li avevo sempre negati, li ho scoperti in parte su me stessa. Prima cosa. Poterti abbigliare come volevi […]. Seconda cosa. Il cosiddetto “amore libero”, che io avevo già sperimentato in precedenza tra mille difficoltà. La mia generazione lo aveva teorizzato, ma soffrendone enormi conseguenze, non essendo ancora matura per questo. Io comunque ne coglievo gli aspetti tragico-ridicoli. Ricordo in proposito (ne ho anche parlato nel mio romanzo Un giorno e mezzo) una festa a Sorrento, in una villa della Sinistra universitaria, a Capodanno (RAMONDINO 2012: 32-33).
Ed eccoci qui a parlare di un romanzo che, come tutti i secondogeniti, ha dovuto fare i conti con il primo nato, il folgorante Althénopis che nel 1981 segnò l’esordio tardivo di una scrittrice nata nel 1936 (BELLUCCI 2015: 125). Tanto fortunato il primo, quanto sfortunato è stato il secondo. Il romanzo ingiustamente dimenticato può essere riletto anche dai più giovani per l’efficace intreccio di problemi attuali e disagi esistenziali, tensioni utopiche e memorie letterarie. Pochi romanzi del nostro secondo Novecento hanno la grazia di questa narrazione che ha in Mozart il suo paradigma figurale e nel Nipote di Rameau di Diderot una delle sue chiavi di lettura nascoste (ALFONZETTI 2002). Non ci si può addentrare nella lettura, senza aver fissato i versi favolosi dello scrittore francese Michel Leiris che richiamano profumi dell’Arabia, sogni del sonno o della veglia, avventure reali o immaginarie e soprattutto tutte le esperienze che nascono dai libri. E non si può finire di leggerlo, senza dare uno sguardo all’originale Indice-Oroscopo che fa parte integrante del romanzo e ne rivela la cifra poetica, che sovrappone alle figure reali figurazioni letterarie e favolose. Nell’Indice il «luogo» del romanzo, Villa Amore, è ricondotto dall’autrice all’altra faccia della razionalità illuministica, rovesciatasi come un guanto, nel Nipote di Rameau (RAMONDINO 1988: 202-201). Ma c’è di più: il riferimento all’enigmatico dialogo di Diderot, pubblicato postumo, vuole proiettare sui personaggi e sulla narrazione la duplicità dei punti di vista, l’illusorietà di ogni certezza granitica: verità, virtù, felicità hanno senso solo nella soggettività dell’individuo.
E proprio dalla tardiva consapevolezza, rispetto a quel momento storico, che i grandi movimenti come per l’appunto il ’68 siano fatti soprattutto di individui «anche se di norma si pone l’accento soprattutto sulla massa» (RAMONDINO 2012: 19), prendeva avvio la riflessione di Ramondino, memore sicuramente dell’impianto dato alcuni anni prima al suo romanzo più polifonico (BRANCALEONI 2013: 268)
Un giorno e mezzo vede la luce esattamente vent’anni dopo il ’68, segnando quasi un ritorno indietro nella struttura romanzesca con il recupero di una temporalità classica cui si aggiunge quello della terza persona. Esibite sin dall’incipit, «Don Giulio sentiva un’oppressione al petto», crearono un’immediata e duratura disattenzione verso il secondo romanzo di Ramondino. Quest’ultimo fu avvertito come in contraddizione con il memorabile Althénopis, costruito su una geometria del cuore e su una memoria raggelata restituita da partizioni ed elencazioni asindetiche, nominazione di cose, da cui si staccano le improvvise sequenze di una memoria autobiografica ancora dolorante, che guarda all’indietro e inserisce i ricordi velati di nostalgia nel ritmo di una narrazione dallo stile notarile, asciutto e raffinato (ALFONZETTI 2012).
Posto che abbia senso fare i confronti, nel trovare una corrispondenza all’insegna dei taccuini e diari, fra il Taccuino d’oro di Doris Lessing del 1962 e l’intera produzione di Fabrizia Ramondino, che più volte si è ritratta con il taccuino in mano, mi è occorso di scrivere che Un giorno e mezzo è accostabile al taccuino giallo del Taccuino d’oro (ALFONZETTI 2013). Entrambi esprimono, in effetti, la possibilità di raccontare una storia o di costruire un romanzo, espungendo per certi aspetti l’io e dunque i taccuini in prima persona che cifrano molti testi e lo stesso profilo poetico e intellettuale di Ramondino (SETTI 2015: 257).
In Un giorno e mezzo, però, la restituzione di uno spaccato generazionale ed epocale è pervasa da una luce a tratti favolosa, creata dall’originale struttura teatrale del romanzo. A tal proposito, corre un profondo legame fra Un giorno e mezzo e Terremoto con madre e figlia, la suggestiva pièce teatrale, messa in scena da Mario Martone con interprete Anna Bonaiuto nella parte della Madre. A connettere i due testi è il conflitto rituale, dalle simboliche valenze archetipiche, già rivelatosi nel teso scontro Madre-Figlia di Althénopis abbozzato molti anni prima alla lettura della Cognizione del dolore di Gadda (ALFONZETTI 2012).
La stessa aura religiosa e sacrale della terza parte di Althénopis ritorna sotto vari travestimenti in Un giorno e mezzo, sin dal pranzo domenicale che unisce attorno a un’unica mensa la variopinta umanità della generazione del Sessantotto, dai più accesi militanti sostenitori a oltranza dei movimenti organizzati, ai delusi dei collettivi studenteschi, alle femministe divise fra amori e politica. Al pranzo partecipa anche il borbonico zio Giulio, tante sono l’anarchia e l’allegria che vi regnano, in un’alternanza gioiosa di vino, pane, cestini con noci e mandorle, schermaglie erotiche e fumose discussioni attorno ai vari nomi simbolo di lotta di classe (Marx, Rosa Luxemburg, Trotsky).
Data la tessitura di questa fitta rete di corrispondenze simboliche, anche l’anno preciso dell’ambientazione del romanzo è significativo. L’indicazione esatta, settembre del 1969, vuole avere un senso, richiamando alla memoria la strage di Piazza Fontana. Da allora si consumò il divorzio nella sinistra, secondo quando Ramondino avrebbe annotato nel romanzo del 1998, L’isola riflessa:
Tutto sembra ripetersi. Nella prima fase del movimento della Nuova Sinistra, negli anni sessanta non ci sarebbero state mense separate. Poi, dopo la “svolta” dovuta alla strage nella Banca dell’Agricoltura nel ’69, vi sarebbero state molte mense separate. Ma erano mense diverse – contavano solo ossessive divisioni politico-ideologiche. Non più la fame (RAMONDINO 1998bis: 43).
La terza persona cui Ramondino ritorna in Un giorno e mezzo sembra dunque rispondere a una scommessa con se stessa sulla sua identità di scrittrice, secondo l’«invito a diventare poeta» degli ultimi sogni datati 1976 e raccontati, e nello stesso tempo interpretati, molti anni dopo, nel Libro dei sogni pubblicato nel 2002. Il romanzo può ritenersi a tutti gli effetti una vera e propria prova letteraria, con alcuni richiami autobiografici mutati radicalmente di segno e curvati in una dimensione generazionale (il Sessantotto con le utopie e le separazioni fra i gruppi). Esso, infatti, – come ho già scritto – ha quasi la struttura corale di un antico poema in cui il narratore, o la narratrice, segue le vicende dei vari personaggi e parla attraverso i loro gesti e ricordi rievocati in maniera frammentaria, a spezzoni, in sequenze non lineari che alla fine si ricompongono. Tutti i personaggi hanno una genealogia letteraria, come lasciano intendere subito i loro nomi, Erminia, Angelica, Walter Scott, ecc., e appartengono al mondo fantastico e magico della letteratura, come per altro suggerisce, posto alla fine, l’originale Indice-Oroscopo.
Villa Amore è il nome simbolico, per le sue forme architettoniche, fatte di sporgenze e rientranze che imitano il bacio e il capriccio amoroso, scelto dalla scrittrice per velare quello proprio di «Villa Patrizi». Essa è il centro unificante di un’invenzione narrativa modellata sul ritmo della vita teatrale, ed è il luogo di una rappresentazione condensata fra un sabato sera e una «doppia domenica», prolungatasi sino al mattino del lunedì. Conosciamo a poco a poco i pezzi della villa, ognuno dei quali nasconde un passato e un presente, e li conosciamo attraverso gli occhi della mente dei personaggi. Le loro rievocazioni fanno agire altri personaggi, ombre e fantasmi di una memoria attivata da un angolo di mondo della stessa villa.
Tanti i personaggi dalla fisionomia cesellata, come la fragile Erminia, il cui sguardo ci dipinge innanzitutto la facciata che per l’appunto ricorda le ville delle riunioni alle quali più volte fa riferimento in altri contesti la stessa Ramondino, e in questo caso la villa di Livio Patrizi, padre della figlia Livia (ALFONZETTI 2016). Lo sguardo del personaggio sembra far rivivere in sé, per le sue funzioni di occhio creatore e per la sua vocazione di non riamata amante, l’Erminia della Gerusalemme liberata. Dalla facciata per contiguità si passa alla città. E la vista lontana fa scattare il flashback del ricordo, quando, bambina, Erminia guardava da Capodimonte il distendersi variopinto e geometrico della città e fantasticava di sorvolarla su un tappeto volante. Poi il diretto impatto con quella realtà immaginata da lontano, con la parte più antica e degradata di Napoli, i Quartieri spagnoli, aveva provocato il «disinganno», anticipando lo stesso destino del personaggio, che come tutti quelli del romanzo s’inquadra in memorie e cifre letterarie.
Erminia era già apparsa nel primo capitolo, mentre si recava, il sabato sera, a una riunione politica presso un’altra villa, «squallida», in confronto alla bellezza mozzafiato di Villa Amore («una perla rosa», «dipinta nel colore dell’aurora e del tramonto, quando si confondono ascesa e declino» RAMONDINO 1988: 201). Ed ecco che lo sguardo di Erminia materializza la visione di se stessa in fuga durante l’occupazione della facoltà di Architettura (palazzo Gravina nel linguaggio aulico della scrittrice). La sua figuretta attillata nel vestito rosso aveva perso «una scarpetta di vernice rossa col mezzo tacco», quasi avesse inteso partecipare «a una festa, non a una guerra» (RAMONDINO 1988: 21). Con queste sequenze intermittenti, che scaturiscono dall’«osservatorio» di Erminia, l’autrice riporta a un livello favolistico e soggettivo la dimensione politica del romanzo. Questa Cenerentola passionaria - che si pitta come una maschera per tentare il suicidio fra le acque e si vede, sempre nel ricordo, come un personaggio tragico compianto dai «canti e lamenti del coro» (RAMONDINO 1988: 44), che rincorre avventure amorose siglate puntualmente da un addio sotto forma di aborto, che si dà generosamente ai bambini delle sue classi - è non a caso il personaggio deputato a introdurci nelle fumose discussioni sulle diverse concezioni della lotta di classe, con riferimenti ai padri: da Marx a Lenin a Bordiga a Gramsci, da applicare nelle lotte studentesche e operaie.
Imprigionato dal fascino ammaliante della villa, luogo sotterraneo di eros e di incantesimo, il rivoluzionario Walter Scott Palumbo si riprometterà, alla fine dell’estenuante domenica, di non partecipare più a «una riunione in quella maledetta villa» (RAMONDINO 1988: 169). E rivelerà così la traccia lasciata dall’occhio pietoso di Erminia, alla quale il portiere, nel gesto mattutino di aprire il portone della grande villa, era apparso un «informe Caronte» che metteva in contatto la villa e il rione cioè «il sonno e la veglia» (RAMONDINO 1988: 45). Sonno è parola della tradizione poetica, e le sue stratificazioni metaforiche rimandano alla morte, a una vita sepolta, al sogno, alla magia e implicitamente alla poesia che duplica i sogni, li ricrea, muta di segno ogni cosa, come le ricordate Metamorfosi, paradigma del cambiamento e dei travestimenti. Parlando fra sé, il compreso rivoluzionario, il cui nome è già un’antifrastica citazione, traccerà un bilancio negativo, che vale anche come indizio della sovrapposizione villa-teatro: «Una giornata persa in chiacchiere e psicodrammi. Un circolo ricreativo, altro che gruppo politico» (RAMONDINO 1988: 169).
Tuttavia, già dal racconto di uno dei tanti antefatti, reinseriti dai personaggi nella narrazione, avevamo appreso come la villa fosse proiezione del ritmo fantastico del teatro, metafora, come nei Giganti della montagna, della creatività poetica. Apparso inizialmente tramite il ricordo di Costanza, anche il ben più affascinante rivoluzionario Bento Corduras aveva esclamato: «Questa non è una casa, ma un teatro!». Attraverso le sue impressioni, si rivela il funzionamento del meccanismo narrativo che guarda alla letteratura e che, mescolando suggestioni reali e letterarie, ne ispira altre:
Gli sembravano personaggi usciti dalle penne più estrose: don Giulio era il nipote di Rameau, donn’Angelica una femme fatale dannunziana, donn’Anna la protagonista di Una vita di Maupassant (RAMONDINO 1988: 120).
Anche Bento tuttavia non sfugge al circolo fra letteratura e politica utopica – e qui va sottolineato il legame che spesso intercorre fra scelte rivoluzionarie e passioni letterarie, al di là del circoscritto ’68. Quando nel finale, all’alba del lunedì, Bento farà il suo ingresso a Villa Amore, con un’efficace consonanza incipitaria («Cantò il gallo e Corduras, spingendo con cautela la porta finestra, entrò nella stanza buia» RAMONDINO 1988: 187), pochi cenni saldano la sua straordinaria vocazione alla politica e a una medicina senza frontiere alla sua divorante passione adolescenziale per figure letterarie tutte legate all’inchiesta e all’avventura, al viaggio per mare e all’umanitarismo sociale. E anche questi richiami vanno letti come spie della genesi fantastico-letteraria del personaggio, legato per questi suoi amori letterari alle stesse passioni della scrittrice:
Da ragazzo, gran divoratore di romanzi, era passato nel volgere di pochi mesi da Don Chisciotte a Guerra e pace, da Moby Dick al prediletto Conrad; così da adulto entrava e usciva dai racconti scritti per lui dalla vita, senza mai fissarsi in un destino, perché si sentiva connotato solo in virtù di quanto faceva (RAMONDINO 1988:188).
In antitesi al suo incessante andare, si situa la ormai stanziale Costanza, uno dei personaggi centrali del romanzo, poi modello della costruzione doppia del personaggio della Madre in Terremoto con madre e figlia, l’unica pièce teatrale pubblicata dalla scrittrice (RAMONDINO 1994). Come i «sempreverdi, emblemi della fedeltà e della costanza», Costanza ha le sue radici nella villa (aveva «una terra e una patria») essendo una Amore, legatasi a Bento Corduras in un rapporto di fedeltà ideale durante l’unica evasione da Napoli e dalla villa. E se i sempreverdi dell’androne, «memento» di morte e di una vita senza gioia, «predilette» «da tutte coloro che cuciono le ore, accudiscono al tempo, gli detergono dalla fronte marmorea il sudore, ne alleviano lo spasimo ininterrotto», sembrano non corrispondere alla inquieta vitalità di Costanza – ma semmai ad altre figure femminili della villa come donn’Anna –, l’«odore» di «grembo» mescolandosi al muschio incrostato al portale dell’androne, «sormontato da una grande conchiglia di San Giacomo, di stucco, detta anche di Venere», dà a questo luogo «l’aspetto di una fresca grotta marina», simbolo di maternità come la stessa Costanza. D’altronde i sempreverdi sono per l’appunto «emblemi della fedeltà e della costanza» (RAMONDINO 1988: 51). Che, per altro, fra la villa e Costanza ci sia una sotterranea identità simbolica lo conferma l’appartenenza di entrambe allo stesso segno dell’Acquario. L’Indice-Oroscopo descrive la villa come «una perla rosa, una conchiglia» che stimola con i suoi «effetti scenografici» «l’emozionalità degli spettatori», mentre Costanza vi è ritratta come un’«inesauribile dilapidatrice di se stessa», cifrata dalle caratteristiche del «palcoscenico» inerenti al suo segno zodiacale (RAMONDINO 1988: 201, 204).
La villa vale come un teatro, ma anche come utero materno. Costanza allora, secondo il fantasioso sillogismo di Mozart, corrisponde al teatro. Per questo potrà trasformarsi nelle due madri di Terremoto con madre a figlia. Segno della maternità scissa e conflittuale di Costanza è Pio Pia, come dice lo stesso nome. Non casualmente la mamma e la bimba entrano insieme nella narrazione, che le sorprende durante l’ora del sonno, quando «le membra spossate dall’eccitazione si ritirano, come stanchi cavalieri nei padiglioni del lenzuolo» (RAMONDINO 1988: 28). La prima a capitolare è Pio Pia, mentre Costanza divisa fra «l’impero barbaro delle faccende e quello cortese dei castelli in aria» – altra antitesi che rimanda al «romanzo»quattro-cinquecentesco – si aggirerà ancora fra i colori e i disegni, prima di piombare in un sonno profondo, agitato da sogni e apparizioni notturne, prime rivelazioni delle sue inquietudini, cullate dalle manine della piccola. Tutto, persino il nome della bimba, allude alla duplicità irrisolta fra maschile e femminile di Costanza, impressa nel suo stesso corpo, dal bacino stretto, gambe lunghe e grossi seni, coltivata nell’infanzia e nelle esperienze bisessuali dell’adolescenza, vissuta nell’età adulta sotto forma di amore e ripugnanza per il vomito e gli escrementi della bimba. Costanza incarna l’essenza della stessa maternità, che sembra potersi espletare solo nella scissione e nel conflitto. A differenza dell’amica Erminia, sempre pronta a sottolineare con i suoi regali e i suoi giochi l’identità femminile di Pio Pia, ma insieme a non poter divenire madre, Costanza aveva scelto questo destino, decidendo di mettere al mondo la figlia, non senza la costante «meraviglia» che quel «putto» biondo e ricciuto lo fosse. A quel «gioco» di madre e figlia non poteva più sottrarsi, essendosi trasformata simbolicamente in una «casa»:
La bambina infatti aveva deciso di abitarla, prima nel suo corpo, poi nella sua casa. Costanza provava sempre la sensazione di essere abitata. Di essere una casa.
Abbandonata come le case dei solitari litorali di Stromboli, aperte a ogni arrivo dal mare: divinità, venti, spiriti erranti, equipaggi di gitanti e di cineasti, rifugio di amanti clandestini, di strambi e di cani randagi, covi di spaiati arredi delle navi colate a picco. (RAMONDINO 1988: 29)
Sicuramente Costanza, «madre della generazione del ’68, non rappresenta l’archetipo della “moglie-madre” ma piuttosto quello della “ragazza-madre”» (MARCHAIS 2013: 289). Nel senso che avvolge Costanza confluisce, inoltre, qualche tratto di ogni personaggio «materno» del romanzo. Così anche Erminia, doppio di Costanza, entra a far parte di questo paradigma: la sua maternità amputata e abortita sembra potersi esprimere soltanto con i figli di altre madri: con i bambini della scuola e soprattutto con la bimba dell’amica: «Pio Pia aveva così due madri, Costanza da cui non riusciva a distinguersi ed Erminia ch’era il suo modello» (RAMONDINO 1988: 85). Con Pio Pia le due donne intrattengono una relazione fondata su giochi e ruoli diversi, attivanti l’identità femminile quelli di Erminia (lo smalto, le pettinature, i vestiti, la cucina, ecc.), volti a negarla quelli di Costanza. Oggi conflittuali madri simboliche, le due donne sono riprese dal meccanismo narrativo attivato dalla memoria anche nella loro persistente identità di figlie. Se il rapporto fra Erminia e la madre scomparsa, vissuta come un insetto vorace (RAMONDINO 1988: 38), è oggetto di fissazioni fantasmatiche, quello fra Costanza e la madre donn’Anna entra nel tempo della narrazione. Come Pio Pia, la stessa Costanza ha avuto due madri, donn’Anna e Partorina, che abitano nell’ala alta della Villa: una figurazione del doppio che emerge dal vissuto della stessa scrittrice e che ritorna nei suoi racconti e romanzi, da Althénopis a Guerra d’infanzia e di Spagna, ma anche in esplicite prose in gran parte autobiografiche fra cui soprattutto In viaggio. D’altronde la sua stessa poetica si addensa e si struttura attorno a una triplice mancanza: di un’unica madre, di un’unica lingua e di un’unica patria.
Tornando a Un giorno e mezzo, dapprima è la serva Partorina ad apparire in casa di Costanza, esile e minuta, immutata nel tempo. Al suo «sicuro amore», Costanza doveva il nascere della sua «vocazione» pittorica, quando bambina disegnava per ore ed ore protetta dall’odore di pulito e dai gesti di stiro e rammendo dell’amorevole e rassicurante seconda madre. Sono pagine intense della memoria, ispirate dichiaratamente dai quadri dell’impressionista Edgard Degas:
Partorina, mentre Costanza disegnava, guardava i segni prendere forma sul foglio con la meraviglia di chi vede un oggetto per la prima volta e più di tutti la stupivano gli schizzi che la ritraevano nelle sue incombenze quotidiane. Molti anni dopo Costanza aveva ritrovato nelle Blanchisseuses di Degas la stireria dell’infanzia, e la memoria aveva scoperto come in un palinsesto, dietro le figure del pittore, la bambina col lapis, Partorina con l’ago. (RAMONDINO 1988: 96)
Non si tratta di un falso o di una menzogna poetica, ma della mise en abyme della struttura del romanzo e della sua poetica. La «bambina col lapis» che non si trova in alcun quadro di Degas può tuttavia a quello e ad altri rimandare, grazie a una forma di partogenesi fantastica. Dalle variazioni prospettiche e dagli sdoppiamenti delle figure di lavandaie e stiratrici prende corpo, complice il ritorno all’indietro della memoria, una nuova figurazione che si riversa nella vista interna, in grado di riscrivere altre e più intime immagini. La bambina inserita all’interno del quadro di Degas, da una visione adulta, ha nel frattempo arricchito il suo corredo. Ora vi può prendere posto con un oggetto citazione, emblema di infanzia e poesia crepuscolare (le Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, ovviamente). Lo stesso può dirsi di Partorina che, creatura della fantasia poetica, ne stimola altre. Non a caso era apparsa la prima volta, all’occhio estraneo di Bento Corduras, come la figura più «fantastica» della villa. Nata da un ennesimo parto della madre (di qui il nome), Partorina aveva avuto il potere di far fecondare, in Costanza, dapprima la creatività artistica e poi, implicitamente, quella naturale.
La narrazione è più avara di notizie sulla madre ormai muta e immobile, sprofondata in un coma profondo, di Costanza. Riannodando i fili della narrazione, la scrittrice ci mostra Donn’Anna (ricordiamoci del confronto con la remissiva figura di Une vie di Maupassant) in una camera che affaccia su «un angolo dell’antico parco», dove «non si avvertivano le stagioni», dove l’esposizione a nord faceva crescere le piante sempreverdi e dove «il tempo appariva immobile» come nella sua stanza (RAMONDINO 1988: 112). Visitata da medici e suore in attesa del dono promesso dalla malata (una Natività), donn’Anna è assistita da Partorina e da Costanza, attratta, quest’ultima, come da una «calamita» da quel corpo ormai gonfio e inerte, che sembra guardare alla vita come a un accumulo insensato di «sciocchezze» (RAMONDINO 1988: 115).
La visita domenicale al capezzale della madre avviene subito dopo quella a un altro malato, rinchiuso in un’altra villa, Villa dei Glicini; un tempo residenza patrizia di un antenato di Costanza, che vi aveva fatto piantare un glicine in segno di lutto per la morte del compianto compositore siciliano Vincenzo Bellini, ora clinica tutta bianca per i malati di mente. Con questa breve sequenza, che si ripete come un «rituale» da tre anni, entra a recitare la sua parte nel contiguo palcoscenico anche Ottavio, padre ormai demente di Pio Pia. Solo dalla rievocazione, soffusa di «nostalgia», del lontano incontro in Francia con Corduras, sapremo, più avanti, chi era questo «severo pittore» morandiano: il maestro d’Accademia della gioventù di Costanza e poi, dopo l’abbandono e il ritorno, il recuperato compagno.
Nei due personaggi visti dalla prospettiva di Costanza si addensano motivi inquietanti e ricorrenti nella narrativa di Ramondino, che alla follia ha dedicato, sotto forma di «diario di bordo», il romanzo del 2000, Passaggio a Trieste. Né va dimenticato, però, che il costituirsi di questo universo simbolico, profondamente sofferto, si realizza innanzi tutto in Althénopis, per poi dipanarsi in altre invenzioni e figure della sua produzione. Così nel primo romanzo è il personaggio della Figlia a giungere a un bivio fra la caduta nell’abisso, fra panico, angoscia e sintomi schizofrenici, e la cura ostinata di sé, mentre la Madre ormai avviata verso la morte suscita quella «pietà» filiale in cui risiede la salvezza.
Fra le figure femminili dell’infanzia di Costanza vi è anche la gaudente e sensuale zia, donn’Angelica. Il suo sguardo altezzoso si posa sui giovani di Villa Amore riuniti per il pranzo politico della domenica, fatto di ammiccamenti sessuali e di accese discussioni sugli operai dell’Italsider. Come dice il nome, ulteriormente connotato dall’ammaliante personaggio del desiderio del Gattopardo, donn’Angelica si era voluta identificare da giovane in un’«irraggiungibile chimera» (RAMONDINO 1988: 132). Energica e volitiva, non si era arresa, come tanti Amore, alla decadenza e alle ristrettezze economiche e, affittando il suo grande appartamento, aveva conservato per sé due grandi stanze arredate come una «reggia». Anche la sua natura sensuale continua ad accendersi nell’estasi di visioni paradisiache in cui lei risplende ancora come «il più fulgido e desiderato» arcangelo, mentre dolcemente la sua mano s’insinua sotto il plaid in un gesto di autoerotismo (RAMONDINO 1988: 133). L’incomprensibile gesto visto da lontano insieme allo sguardo acuto della vecchia accrescerà il disagio di Walter Scott Palumbo, sempre più infastidito da «un personaggio uscito da un romanzo di Agata Christie»:
Si trovava invece ora in quella sorta di corte dei miracoli, fra quegli studenti sospettosi, quelle giovani operaie che come fanciulle dell’Ottocento, parevano pensare soprattutto ai lavori a maglia e all’amore, quella pittrice anarcoide e un vecchio barone rammollito [...]. Il sole, riverberato dal sole della facciata, lo accecava, acuendo il suo spaesamento. E non avesse saputo che era domenica, sarebbe subito fuggito verso Bagnoli o Gianturco, i quartieri degli operai, dei binari, delle fabbriche, dove non c’erano quei colori violenti, quelle facce accese dal sole e dal vino, quei garofani sfatti al centro della tavola, che sembravano dipinti sul ventaglio dell’oziosa giornata. (RAMONDINO 1988: 134-135)
In mezzo a tanti commensali donn’Angelica aveva scorto la testa ormai calva del nipote Giulio e compiangendolo aveva ricordato quando, appena diciottenne, lo aveva iniziato al sesso. Il barone allo sguardo moralistico di Walter Scott Palumbo non sembra che un «vecchio porco» uscito dal Salone Margherita (il glorioso Caffè chantant napoletano, poi decaduto a equivoco ritrovo) o da un film di Totò. Anche questa è una traccia, un’indicazione della genesi fantastica di don Giulio, coerentemente tratteggiato però in tutto il romanzo come un amante di quel mondo, dell’incompreso «genio» di Totò e degli attori e cantanti dialettali.
Nel secondo capitolo, con la sua logora vestaglia damascata, egli era apparso invece, allo sguardo affettuoso della cugina Costanza, come un «altro esemplare della sua stirpe dissennata» (RAMONDINO 1988: 57). Sono le nove della domenica mattina e la luce «geometrica» crea un’illusione di perfezione lungo la strada esterna alla villa, da cui si dipartono due curve, una «diretta verso la città antica, annunciata gradualmente da parchi, da giardini di aranci e da villette liberty, l’altra verso i quartieri di fabbriche e di operai sorti sui Campi Flegrei, dove le ciminiere dell’Italsider facevano concorrenza alle fumarole della Solfatara» (RAMONDINO 1988: 53). In quest’atmosfera che duplica i due mondi del romanzo, Costanza incrocia l’uno dopo l’altro i due baroni Amore, anche loro stretti dalla relazione del doppio. La donna si ricorda che è il 21 settembre (l’entrata dell’autunno), anniversario dell’ottantesimo compleanno del più vecchio barone Amore rintanato nella villa, alcolizzato e dedito ad amori omosessuali dopo un tentativo malriuscito (il fallito matrimonio) di rispettabilità e di normalità.
Una ben diversa consistenza hanno invece le ripetute presenze di don Giulio, uno dei personaggi di maggior rilievo del romanzo. Certamente, uno dei più toccanti che unisce il privilegio di aprirlo a quello di anticipare la fine con una morte di straordinaria intensità poetica. Essa è annunciata sin dal lapidario incipit «Don Giulio sentiva un’oppressione al petto», che oltre a intitolare il primo capitolo è disseminato tra le righe del romanzo, in varie occorrenze da leggere quale presagio della fine. Definito dallo stesso Indice-Oroscopo «carnale e gaudente», anche don Giulio, come la cugina Costanza, è emanazione stessa della villa, come sottolinea anche il reiterato commento di Corduras: «quel napoletano nipote di Rameau» (RAMONDINO 1988: 191). Anche don Giulio allora, in virtù di questa perfetta corrispondenza simbolica, non può che essere, come la villa e come Costanza, legato al teatro. In questo caso si tratta di un teatro fatto di avanspettacolo, di sceneggiate ma anche di raffinati interpreti della canzone napoletana. E pur se in maniera dilettantesca anche don Giulio ha il pallino dell’arte; compone e recita in più occasioni versi semplici o sublimi, dalle canzoni sanfediste alla leopardiana Ginestra.
Questa natura teatrale del personaggio emerge sin dal suo primo ricordo, che fa muovere sulla scena immaginaria Marianna ’a Sciuanna, incontrata in gioventù nel mondo dell’avanspettacolo, cui ormai la donna, un tempo ballerina del Lago dei Cigni, appartiene. Il romanzo prende avvio da questo incrocio fra decadenza della decadenza e ricordo di ricordi altrui, e si cifra di nostalgia intrinseca alla memoria di ogni personaggio e alla stessa narratrice (LUCAMANTE 2015: 209). Dalla rievocazione del fantasma di Marianna si passa alla corposa apparizione di Nennella, nipote di Marianna e sartina al Teatro San Carlo. Complice la voce di Murolo, la giovane pettinata, agli occhi di don Giulio, come una «bambola» suscita il desiderio, sfociato in un’eiaculazione precoce di fronte all’irrigidirsi, come una statua, della ragazza. L’episodio sollecita le prime contemplazioni di don Giulio sulla vita trascorsa e sulla vecchiaia incombente, illuminate da una «tonda» luna.
L’avvio del quarto capitolo La bottiglia di whisky era poggiata in terra è occupato nuovamente da don Giulio dedito all’alcool nonostante le difficoltà respiratorie e i sudori. Il malessere fa scattare un’altra madeleine ed ecco riemergere un altro pezzo di memoria, di storia passata eppure ancora viva nelle «fantasticherie» dell’ormai malandato barone:
Le tende di mussola lilla della finestra accanto al letto si muovevano leggermente gonfiate dalla brezza, come le pieghe della vestaglia di Rosella quando, seduta davanti alla toletta, si spazzolava i capelli.
Rosella era stata la sua moglie ragazza. Aveva capelli rossi e occhi azzurri e quell’azzurro e quel rosso, che spiccavano sulla pelle bianca senza nemmeno un’efelide, facevano di ogni sua quotidiana comparsa un’apparizione abbagliante (RAMONDINO 1988: 103).
La simmetria architettonica del romanzo è perfetta: il blocco dei due capitoli terzo-quarto è situato al centro, equidistante dal primo in cui don Giulio entra e dall’ultimo in cui esce di scena. Qui il suo ritratto attraverso altri spezzoni di memoria (il bizzarro matrimonio, la fuga repentina della donna, la cattura da parte dei partigiani albanesi) si completa, prolungandosi nelle attuali percezioni di dolori fisici e mentali (spasimi, angoscia, terrore di una paralisi). E fra fitte al petto e mancamenti, una prosa asciutta elenca con ripetuti asindeti la visualizzazione fantasmatica del personaggio, il suo cervello ora «scomposto in migliaia di pezzi polverosi e arrugginiti». Antieroe per eccellenza, don Giulio, legato a un mondo spazzato via, può dire di sé che «si era divertito a imbrogliare tutti», dai Savoia a Mussolini «un borghesuccio abile e truffaldino come tutti i politicanti». E persino la rievocazione del suo tradimento militare, in favore di un prigioniero albanese, ne svela le ragioni: un gesto dettato non da principi etici ma da simpatia, da una «sfida» rivolta non ai capi, bensì al «potere della morte nelle cui mani essi non erano che burattini» (RAMONDINO 1988: 108).
La vista di un giovane partecipante alla riunione politica ha sollecitato, per una vaga somiglianza, questo ricordo, poi superato quasi, per dispetto, dall’intonazione di un vecchio ritornello sanfedista. Un poeta da strapazzo, vissuto fra amori mercenari e frequentazioni equivoche, un borbonico nostalgico senza ideali, se non quelli di un mondo vissuto già nella sua illusorietà e inconsistenza, don Giulio si appressa a morire, dopo aver partecipato da commensale al pranzo politico dei rivoluzionari. Come in una tragedia classica, sarà il sogno premonitore di Partorina ad anticipare l’evento, con uno stile da registro «comico»: la visione del cinese (la morte) che significava «Malaugurio!», «disgrazia o malattia», già comparso in sogno alla serva prima della paralisi di donn’Anna (RAMONDINO 1988: 179).
La prima visione del moribondo don Giulio è quella di vedersi trasportato da un asino che ha le sembianze dell’«arida pendice del Vesuvio». Il sogno si tramuta subito in angoscia, perché «incerta» è la meta, sospesa fra le vertigini dell’«altezza del cielo» e l’abisso dell’«inferno». Risvegliatosi dall’incubo, don Giulio intona i corrispondenti versi della Ginestra, forse perché soltanto adesso può scorgervi un legame con la solitudine e la desolazione appena provate. Il richiamo all’ultimo canto leopardiano si arricchisce di altre suggestioni letterarie nel pezzo più alto del romanzo: la morte onirica, come in sogno, di Giulio «’o Barone». Il mondo delle favole e delle tradizioni popolari napoletane (il presepe, la cuccagna) si sovrappone a immagini e topoi dell’alta letteratura, in particolare a quelle – più volte riproposte con l’Orlando furioso raccontato da Calvino (RAI, 1968) o messo in scena da Ronconi nel 1969 – dei poemi cavallereschi, dal Morgante al Don Chisciotte. E il sogno intermittente di don Giulio, divenuto un gigante che cavalca la bestia in forma di vulcano, acquista l’implacabile senso del viaggio finale, dell’ascensione del monte, quasi fosse il purgatorio e non l’inferno ad accogliere questo peccatore mondano. Il «viaggio» ripercorre nelle sue ineluttabili tappe, fra voci e associazioni, la stessa vita del pellegrino sotto forma di simboli del desiderio ora vietati: da Angelica giovane, additata da una vecchia, alla festa della cuccagna, al banco-lotto, alla brigata al séguito dell’amico Murolo. Ma Giulio non può più fermarsi, raggiungerli. Una «forza» lo spinge avanti, simile «a quella che lo aveva costretto a presentarsi in una caserma, a salire con mille altri su un treno, poi su una nave, e ancora su altri treni navi, camion» (RAMONDINO 1988: 184). La vita e la morte si sovrappongono nel viluppo di percezioni, nell’agonia senza coscienza, in cui si mescolano sogni del sonno e sogni della veglia, visualizzati nel fantastico sdoppiamento dell’io in don Chisciotte che cavalca l’asino di Sancho Panza o nello stesso asino che porta don Chisciotte, mutati in segni di angoscia e smarrimento:
Erano giunti in cima. Ma non sapeva bene in chi risiedesse la sua anima. Ora gli pareva di essere l’asino e avrebbe voluto parlare al cavaliere, capiva però di non poter articolare i suoni, di bocca gli sarebbero usciti solo ragli, tanto più paurosi e alti quanto più si fosse sforzato di piegarli in parole. [...] Ora invece gli pareva di essere il cavaliere stesso e avrebbe voluto allora chiedere a quell’asino, che lo portava in groppa senza il suo volere, perché non lo lasciava mai scendere. Infine gli pareva di essere lo stesso monte, e provava sensazioni bizzarre e sconvolgenti: era nello stesso tempo maschio e femmina, vivo e morto, carne e lava pietrificata, simile ai calchi dei corpi contorti dal dolore sorpresi dall’eruzione del Vesuvio (RAMONDINO 1988: 185).
Nebbia e nuvole basse sembrano aver inghiottito ogni cosa, poi diradandosi consentono un apparente ritorno alla «meraviglia di bambino», cui immediatamente si sovrappongono affollate percezioni di se stesso, che ripete affannosamente il suo nome («Sono Giulio... Giulio Amore... ’o Barone... mi chiamavate anche il rosso... Mister Bowling... ’on Giulio ’mellone…» (RAMONDINO 1988: 185) o che tenta inutilmente di raggiungere la madre e la casa. In sogno don Giulio si rivede mentre tenta di prendere il tram, subito trasformatosi in filobus, mentre la gente intorno si muove abbigliata come in passato. L’angoscia cresce per essere salito in direzione contraria che lo conduce in luoghi estranei e ignoti. L’incubo risveglia don Giulio per la fine imminente, vissuta come una regressione onirica alla ricerca di rassicuranti carezze femminili di mano ignota, somiglianti a quelle della madre al suo capezzale bambino e della pietosa infermiera in guerra.
A questa figura della tenerezza materna e femminile insieme Giulio parlerà con versi in sintonia con il ritmo delle carezze, confusi nella «lingua dolce e straniera dell’acqua sotto le persiane», come se la lingua poetica sia al fondo una traduzione o una traslazione del legame ancestrale con l’acqua e la terra (la madre terra). E nel ritorno ai primordiali elementi, alle radici stesse dell’esistere, il morituro troverà un ultimo sollievo nella bellissima visione delle figure fantastiche di un gioco dell’infanzia, cui basta un filo rosso magicamente animato da due mani. Infine l’ultima aggressione del male si traduce nuovamente nel sogno del monte mentre erutta «orrendi macigni», che precipitando gli squassano il petto, prima di perdere i sensi.
La morte di don Giulio non è mai nominata, proprio perché narrata, in base alla tecnica di tutto il romanzo, dalla parte del personaggio. Essa s’intuisce dallo spostamento del piano narrativo, quando la parola ridiventa voce del regista-narratore, che ha montato tutti i pezzi, gli incastri, le apparizioni. Così un passo di recuperata classicità narrativa, in cui la natura risponde alla ciclicità della vita e della morte e gli ignari animali proseguono il loro incessante gioco della fame e degli istinti, commenta la fine, proiettandola nel ritmo dell’oltrepassare:
La tempesta si era calmata. Mentre la luna calava dietro i cipressi, per un attimo attorno a Villa Amore, regnò un grande silenzio, ingigantito dal rapido trascorrere delle nuvole, sospinte da un vento così alto e lontano che non se ne percepiva nemmeno un alito. Ma subito si levarono feroci lamenti di gatti dal lato dove affacciavano le cucine; qualcuno aprì una finestra, una bestemmia fu seguita da un tonfo e i gatti fuggirono, ricominciando oltre, sotto la clinica (RAMONDINO 1988: 186).
Sul corpo inerte di don Giulio, fattosi madido e freddo, si imbatterà Corduras al suo arrivo, scandito dal canto del gallo. La magia di Napoli e della villa producono l’«effetto scenico» dello scambio di persona («invece di passare la notte con l’amica si trovava con un morto; e invece di parlare di progetti, si ripeteva le frasi, che ricordava ancora, di quel napoletano nipote di Rameau» (RAMONDINO, 1988: 191). E se la veglia funebre richiama alla memoria di Bento l’ultimo incontro con il padre morente, la narrazione procede oltre; oltre la stessa Villa con la figura di un giovane scugnizzo, già apparso, in cammino verso la Villa. Un proverbio popolare ripetuto da Pietro – «che il cielo, dove vede neve, spande il sole» RAMONDINO 1988: 196) chiuderà così il romanzo, capovolgendo l’atmosfera luttuosa della morte in rassegnata speranza. Dopo la notte che ha portato l’autunno, spunta il mattino.
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