Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Le parole, l’amore, il filo spinato. Luandino Vieira a Tarrafal

Roberto FRANCAVILLA



Abstract

Italiano  | Inglese 

La guerra d’Indipendenza nelle colonie africane portoghesi, che aveva reso necessaria l’instaurazione dello stato di emergenza, scoppia nel 1961. Il regime prova a rallentare il corso della storia attraverso il controllo censorio e la violenza, ricorrendo all’apparato segreto della polizia politica (PIDE) e all’incarceramento dei dissidenti in campi concentrazionari come quello di Tarrafal, alle Isole di Capo Verde, dove il più importante scrittore della letteratura angolana, Luandino Vieira, redasse in maniera clandestina i racconti di Luuanda, il suo capolavoro. Nella prigionia matura la lezione di questa grande figura: nel coraggio e nella coerenza del suo cammino politico verso l’indipendenza politica e la costruzione della nazione, nello statuto della sua opera, nel progetto di una letteratura postcoloniale, svincolata da ogni processo imitativo nei confronti dell’egemonia coloniale e foriera di un discorso originale prodotto sulla traccia identitaria dell’angolanidade.

Salazarismo, colonialismo

Negli anni ‘60 il Portogallo di Salazar era impegnato con tutte le sue forze a eternizzare il suo vano sogno ultramarino ormai sfilacciato che, nell’illusione alimentata da una propaganda e da una mitografia nostalgica e volutamente scollata dalla realtà, lo univa ancora ai suoi territori coloniali, come se l’orologio della storia si fosse fermato ai lontanissimi splendori dell’Impero. La guerra d’Indipendenza delle allora colonie africane (da un punto di vista strettamente militare e logistico la guerra si combatteva sul suolo di Angola, Mozambico e Guinea Bissau e non a Capo Verde né nell’arcipelago di São Tomé e Príncipe) scoppiò ufficialmente nel febbraio del 1961. Se la definitiva periodizzazione di quei drammatici eventi pare ancora difficoltosa, è certo che nel volgere di pochi mesi si passò dalla sanguinosa repressione di uno sciopero dei raccoglitori di cotone ai primi attacchi inferti dai guerriglieri dell’MPLA1 a Luanda. L’anno seguente, il leader dell’Indipendenza angolana e poeta Agostinho Neto, riparato da Lisbona a Kinshasa (allora Léopoldville), viene nominato presidente dell’Angola.2 Lo scrittore portoghese João de Melo, smentendo la freddezza di queste date consegnate alla storiografia, afferma che, in realtà, tutta la colonizzazione portoghese, fin dai suoi esordi e per la violenza che la contraddistinse, non fu nient’altro se non una lunghissima guerra coloniale. Le norme coercitive del potere, infatti, si instaurarono in Angola già nel 1575 con l’arrivo dei primi coloni e basterebbe leggere le cronache coeve dei gesuiti per avvallare l’ipotesi dello scrittore e per comprendere la natura, la prassi e le conseguenze del processo coloniale nei suoi più foschi risvolti.

Per gran parte del Novecento la storia del Portogallo, all’ombra della giurassica figura di Salazar, il suo dittatore, asseconda i circoli lenti e monotoni di un volano che ruota su se stesso in un inutile movimento perenne. Lisbona è la capitale di una nazione sola e depressa, in guerra con se stessa, guidata da un regime corporativista, autarchico e d’ispirazione fascista che, per quasi mezzo secolo, indossando la maschera di un paternalismo rassicurante, tradizionalista e molto cattolico, ha provato a rallentare l’inevitabile corso della storia attraverso un ossessivo controllo censorio e, non di rado, attraverso una spietata violenza. Nell’aprile 1970, Salazar, il “vecchio avvoltoio”, come lo apostrofa la poetessa Sophia de Mello Breyner Andresen (o, in alternativa, il Dinosauro Eccellentissimo, come lo definirà lo scrittore José Cardoso Pires nella sua omonima e impietosa allegoria nel 1972) è ormai moribondo, ma il virus con cui ha ammorbato il suo paese e l’eco dei discorsi con cui è riuscito a “rimpicciolire le anime del suo popolo” (anche questa è una nota suggestione coniata dalla poetessa) si protraggono in un’estrema appendice: nel settembre del 1968, infatti, gli succede Marcelo Caetano, il suo delfino. Il passaggio da Salazar a Caetano fu in realtà gattopardesco e non fece che assecondare una strategia politica abbastanza ovvia: cambiare tutto perché ogni cosa rimanesse immutata. Si trasformavano solo nominalmente le diciture, le sigle istituzionali e gli oscuri acronimi dietro cui, in realtà, si mantenevano intatte le strutture che li animavano. L’aggettivo “novo” che attribuiva ai cardini del partito unico e del governo che reggeva (Estado Novo, appunto) un’aura di euforica innovazione e progettualità, purtroppo soltanto presunte, si tramutò in Estado Social. E la censura, che Salazar definiva ipocritamente “il male necessario” e che era entrata in vigore fin dal 1933 con un decreto-legge anticostituzionale, prese a chiamarsi “exame prévio3: nient’altro, dunque, che fragili trasformismi lessicali.

Le promesse di attenuazione delle maglie censorie annunciate in quella breve illusione di libertà che prese il nome di “primavera marcelista” naufragarono grazie a un pretesto offerto dalla congiuntura storico-politica che il Portogallo attraversava, segnata appunto dalle guerre coloniali in Africa che avevano reso necessaria l’instaurazione dello stato di emergenza. Ovvero dello stato d’eccezione. Come si è visto, infatti, già dall’inizio degli anni ‘60 i movimenti clandestini per l’indipendenza avevano intrapreso la loro lotta, conclusa formalmente soltanto il 25 aprile del 1974 con l’avvento della democrazia in Portogallo. Sarebbe stata una guerra tragica4, come d’altronde tutte le guerre, combattuta per difendere quel pervicace anacronismo su cui il regime aveva costruito la sua fragile posizione nella geografia del mondo: un impero coloniale rivolto all’oltremare, come ai tempi del Congresso di Berlino e soprattutto rivolto al passato, al mito del dominio dell’Impero lusitano sugli oceani, al Quattrocento e al Cinquecento dei grandi navigatori, anziché al presente e alla modernità.

Come ogni dittatura, anche quella lusitana struttura le sue pratiche di controllo a partire da un apparato violento e segreto di polizia politica. La PIDE (Polícia Internacional de Defesa do Estado) constava di una sorta di “dipartimento” (chiamato “Escola Técnica”) dove gli agenti apprendevano le pratiche dello spionaggio e della tortura (spesso a impartire i “seminari” erano invitati agenti della CIA). Tortura, il cui etimo risale al latino torquere, distorcere è, di fatto, una distorsione di tutto: non solo delle ossa o delle unghie durante i feroci interrogatori, ma anche del senso dello spazio e del tempo, della capacità di comprendere, del comune buon senso, dell’appartenenza stessa al genere umano: ed era proprio su questi aspetti, come si vedrà, che il potere esercitava ossessivamente la sua natura coercitiva e violenta. La tortura veniva praticata in Rua António Maria Cardoso, sede istituzionale della PIDE, nel centro di Lisbona, e in luoghi più isolati e desolati come Peniche (il carcere in cui restò a lungo Álvaro Cunhal, leader del Partito Comunista Portoghese), o Caxias, dove venne rinchiuso il cantautore José Afonso. O Tarrafal, alle Isole di Capo Verde, dove il più importante scrittore della letteratura angolana, Luandino Vieira, redasse in maniera clandestina i racconti di Luuanda5, il suo capolavoro.

Tarrafal

Il campo di prigionia di Tarrafal si trovava nell’arcipelago di Capo Verde, più precisamente sull’isola di Santiago. Nel fragile sistema coloniale ormai minato dalla tensione crescente e dalle aspirazioni all’auto-legittimazione politica da parte delle allora “province d’oltremare”, Capo Verde, di per sé, costituiva il luogo simbolo dell’isolamento geografico, dell’abbandono, della povertà endemica, del fallimento del colonialismo paternalista che aveva eletto le isole a frutto dell’incontro “luso-tropicalista” (secondo una nota dottrina elaborata a partire dalle teorizzazioni del sociologo brasiliano Gilberto Freyre che la propaganda di Salazar aveva riscritto, con enorme fortuna, adattandola in maniera programmatica alla catechesi coloniale lusitana), salvo poi abbandonarle al proprio tragico destino, minate da siccità endemica, da cicliche carestie e da una massiccia emigrazione intesa come unica possibilità di sopravvivenza.

Creato nel 1936 come campo di concentramento, Tarrafal era stato chiuso nel 1954 e poi riaperto per sistemarvi i prigionieri politici legati alla vicenda coloniale. Paradigma politico e normativo della nostra modernità, per riprendere Agamben e la sua nota definizione del concetto di campo concentrazionario6, Tarrafal passa alla storia con i nomi di “Pântano da Morte” e di “Campo da Morte Lenta”, «un rettangolo di filo spinato circondato all’esterno da una fossa larga quattro metri e profonda tre» (DIAS COELHO 2006: 132).7Di fatto, non si tratta di un campo di sterminio, ed è lo stesso Luandino Vieira a ribadirlo8: la morte sopraggiunge con calma, lenta e spietata. Al derelitto contesto geografico, reso ancora più atroce dal clima tropicale (calore insopportabile durante il giorno e freddo di notte) e dall’assenza di vegetazione, si aggiunge un corollario patologico che acuisce l’esperienza della prigionia: paludismo, deficit epatici, scorbuto, infezioni di varia natura, tubercolosi, nevrosi, ripetuti casi di vera e propria follia. A tutto ciò, alla monotonia dei giorni e alla pressoché cronica mancanza di assistenza medica, vanno poi aggiunte le derive comportamentali del personale addetto al controllo e alla gestione del campo: in più occasioni, nella relazione di prigionia di Luandino si possono leggere riferimenti precisi all’odio manifesto nei confronti dei reclusi, all’inconsapevolezza o alla mera stupidità dei carcerieri. Il simbolo della spietatezza cui era soggetto chi veniva imprigionato era rappresentato dalla cosiddetta frigideira (“friggitrice”), una specie di camera di isolamento esposta al sole tropicale dove il prigioniero veniva rinchiuso in punizione.

Nonostante le difficoltà di ordine pratico con cui gli storici e in generale gli studiosi si sono spesso scontrati durante il complesso cammino della ricostruzione della memoria, una vasta attività editoriale – specie nei primi anni immediatamente dopo la Rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1975) ha contribuito alla diffusione di imprescindibili voci testimoniali.9 Oggi un piccolo museo quasi del tutto abbandonato si erge come unica e labile testimonianza di quel passato. Il ricordo delle esperienze che in quel luogo sono state vissute e la pazienza degli storiografi lo hanno eletto a lieu de mémoire e a simbolo del disastro del regime salazarista in Africa.

Luandino Vieira, scrittore e militante

Luandino Vieira (pseudonimo, scelto in onore della città di Luanda, capitale dell’Angola, di José Vieira Mateus da Graça), nato nel 1935 a Lagoa do Furadouro, nell’Alto Ribatejo portoghese, presso Vila Nova de Ourém, giunge in Angola con poco più di un anno di età. Di famiglia contadina, figlio di emigranti portoghesi, cittadino angolano, militante della lotta per la liberazione nazionale dell’Angola nelle fila dell’MPLA, rappresenta senza ombra di dubbio uno dei nomi più importanti delle letterature africane di espressione portoghese e, più in generale, delle letterature lusofone. La portata della sua opera, non soltanto per il suo valore strettamente letterario ma anche per i complessi risvolti teorici di natura soprattutto linguistica, attraversa più di una generazione di scrittori angolani, costituendo una vera e propria base per un canone delle letterature postcoloniali di lingua portoghese.

L’esordio come narratore risale al 1961 con il romanzo A vida verdadeira de Domingos Xavier, che circola in edizioni clandestine fino a quando è pubblicato, finalmente, nel Portogallo post-rivoluzionario, ovvero nel 1974 (in realtà già nel 1971 esce a Parigi per le edizioni di Présence Africaine seguito, pochi anni dopo, da una tradizione russa).10 La prima edizione dei racconti di Luuanda, anch’essa clandestina, risale al 1963. Seguono fasi di lungo silenzio creativo che si interrompono di rado, com’è il caso, nel 1980, della pubblicazione del romanzo Laurentino, Dona Antonia de Sousa Neto e Eu. Nel 2006 esce il densissimo De rios velhos e guerrilheiros, primo volume di un’ipotetica trilogia dal titolo O livro dos rios.

La lezione di questa grande figura, tanto nel coraggio e nella coerenza del suo cammino politico, quanto nello statuto della sua opera, ha supportato intere generazioni di scrittori che hanno affiancato al cammino verso l’indipendenza politica e alla costruzione della nazione il progetto di una letteratura postcoloniale, svincolata da ogni processo imitativo nei confronti della secolare matrice lusitana, elaborando un discorso originale e soprattutto prodotto – anche da un punto di vista ideologico - sulla traccia identitaria dell’angolanidade. Il distacco dalla cultura portoghese, simbolo dell’egemonia coloniale, si andava intrecciando, fra l’altro, con il tentativo di eludere le trappole del cosiddetto “tribalismo”, evitando così la frammentazione etnico-politica e i conseguenti processi di rivendicazione forieri di sanguinosi conflitti di potere, come di fatto avverrà con il transito, senza soluzione di continuità, dalla guerra per l’Indipendenza alla guerra civile, combattuta dal 1975 al 1998.

Nella letteratura, al contrario, si andava delineando la rappresentazione di un’Angola unita, indipendente e consapevolmente radicata nella propria multiforme ricchezza culturale e linguistica, come professavano i Novos Intelectuais de Angola già negli anni ‘40, scrittori e poeti dei quali Luandino Vieira si dichiara esplicitamente debitore. Afferma a proposito Rita Chaves: «convertito in parola d’ordine fin dagli anni ‘40, il grido ‘Scopriamo l’Angola’ continuava a orientare i militanti che portavano nella loro attività artistica la volontà di elaborare un nucleo di resistenza al processo di diluizione dell’identità» (CHAVES 2005: 26).11 La generazione che letteralmente “fonda” questo nuovo discorso, nella scia di quegli antecedenti, si riunisce a Lisbona presso la Casa dos Estudantes do Império, istituzione governativa che accoglie gli studenti provenienti dai territori dell’oltremare dove si formeranno non solo raffinati intellettuali e scrittori militanti ma anche leader politici della statura di Amilcar Cabral (guida della liberazione di Capo Verde e della Guinea-Bissau, assassinato nel 1973 dalla PIDE), e Agostinho Neto, il padre della patria angolana. Sulla formazione di questi intellettuali, sulle loro letture e sulle conseguenze ideologiche del loro percorso aggiunge Luciana Stegagno Picchio: «Sottobanco, Gor’kij a dispense, e Steinbeck e già Jorge Amado, accanto a Michael Gold, scrittore proletario americano. […] Dalla cultura alla politica il passo è breve.» (STEGAGNO PICCHIO 1990: 22).

Nel caso di Luandino Vieira, considerare il rapporto fra autore e opera significa accostarsi a una biografia ferita e ancora oggi segnata da profonde cicatrici, indizi di un’epoca travagliata in cui la posizione dell’intellettuale di fronte alla storia ha implicato un doloroso cammino di militanza, di prigionia e di guerra. Per comprendere meglio la natura e i versanti più impervi di questo cammino è necessario tracciare alcune fra le principali circostanze biografiche che restituiscono a pieno la vicenda di cui lo scrittore fu purtroppo il protagonista, procedendo a partire dal fatale inganno che causerà le più infelici conseguenze.

All’età di 26 anni, nel novembre del 1961, appena diventato padre, Luandino lascia la compagna Linda, il figlio di quattro mesi e gli amici alla mensa della Casa dos Estudantes do Império a Lisbona per recarsi presso gli uffici della PIDE a ritirare un visto che gli permetterà di viaggiare per l’Inghilterra, dove deve frequentare un breve corso di specializzazione. Si dirige in Rua António Maria Cardoso, una di quelle vie da cartolina del centro di Lisbona che si piegano all’improvviso scivolando verso il basso, come pennellate in un dipinto, fra i teatri, i caffè degli intellettuali e gli scorci sul Tago. Un antico palazzotto nobiliare che oggi ospita un condominio di lusso dotato di negozi e parcheggi sotterranei12 dove lo scrittore scopre immediatamente che, in luogo del visto per l’Inghilterra, scatta nei suoi confronti l’arresto immediato. Quattro giorni dopo si ritrova in Angola, nel carcere della capitale, da dove scrive: «Giunto a Luanda, capii immediatamente di aver ipotecata la vita per svariati anni. Sarebbe stato necessario che la memoria, da lì in avanti, la sostituisse» (VIEIRA2015: 9).13 In effetti, contro di lui viene da subito pronunciata la condanna a 14 anni di prigione con l’accusa di aver attentato contro la sicurezza dello Stato e di essere un elemento pericoloso che trama – con mezzi violenti o fraudolenti – alfine di separare dalla madrepatria parte del territorio portoghese. Oltre ai risvolti palesemente menzogneri di questa accusa, è interessante notare come l’autorità imposti la propria strategia, dal punto di vista giuridico, a partire dalla più trita retorica – a sua volta costruita intorno a significati ambigui quando non addirittura vuoti – della lesa madrepatria. Risulta evidente quanto agli apparati coloniali fosse indigesta l’idea che per figure come Luandino Vieira la madrepatria fosse rappresentata – visceralmente – dalla terra africana che le aveva accolte e non dal Portogallo.

Tarrafal, dove viene trasferito nel 1964, diviene per Luandino al contempo prigione, e pertanto spazio dell’isolamento e della sospensione dei diritti, e confino, ovvero spazio dell’esilio, della lontananza dall’Heimat, condizione che trova nel lessema desterro (con il prefisso de a indicare privazione, distacco e terra come madre) un concetto denso di foschi significati.

Le carte della prigione

Nel 2015 viene pubblicato in Portogallo un corposo volume (1100 pagine) dal titolo Papéis da prisão (“Carte della prigione”), nel quale si raccoglie filologicamente il contenuto dei 17 quaderni che Luandino Vieira redige durante i 12 anni di prigionia, definito cronologicamente da una nitida cesura: dal ‘61 al ‘64 il materiale viene prodotto in varie prigioni angolane; dal ‘64 al ‘72, a Tarrafal. Si tratta di oltre 2000 fragili fogli manoscritti che ci restituiscono, fra l’altro, una visione della prigionia politica come possibile luogo di discussione sul progetto di un’Angola indipendente, sulla letteratura, sullo spazio di detenzione e confinamento, sui rapporti fra individuo e potere in stato di coercizione e, naturalmente sulla travagliata esperienza personale dell’autore.

Come puntualmente ci ricordano M. Calafate Ribeiro e R. Vecchi nel denso paratesto che lo introduce, Papéis da prisão, pur nella sua evidente incompiutezza e precarietà è in realtà un libro magnifico interamente costruito sulla forma frammento: abbozzi di romanzi, progetti, diario, aneddoti, brani di saggi, poesie, canzoni, descrizioni di tipi umani, brevi relazioni su dinamiche interpersonali. La rottura e la libertà delle forme, fra l’altro, possono essere intese come metafora di un’aspirazione e al contempo come strumento di resistenza.

Per prima cosa, lo scrittore elabora una rappresentazione dettagliatissima dello scenario in cui è costretto a sopravvivere affrontando con immediata consapevolezza il fatto che «il campo di detenzione funziona con una legislazione del tempo propria e irriducibile»14 (VIEIRA 2015: 20). A seguire e nel segno della medesima consapevolezza (che peraltro sostiene l’intero arco delle sue riflessioni), lo scrittore converge sulla formulazione di una domanda che fornisce un possibile appiglio per l’immaginazione di un tempo futuro, dando così un senso a quegli interminabili anni, e insieme permette la costruzione di alterità – funzionali alla sopravvivenza e alla memoria – attraverso il lavoro della scrittura: “Che cosa si può fare solo con le parole?”. Una possibile risposta sembra essere contenuta nelle parole di Makutu, filosofo analfabeta citato da Vieira (in una nota risalente al gennaio del 1967): «ci sono le cose che esistono, ci sono le cose che non esistono e ci sono le cose che esistono e non esistono: come nelle storie»15 (Ibidem: 24).

E dunque, la scrittura pare elevarsi, in tutte le sue possibili declinazioni, come unica vera strategia di adesione alla vita, come impedimento all’abdicazione esistenziale, soprattutto psicologica e intellettuale, che era poi uno dei principali obiettivi di chi condannava uno scrittore o un militante al carcere politico. Scrittura come archivio di esperienze e come dispositivo per la riattivazione della memoria – come di fatto avvenne – una volta esaurito il ciclo ormai corroso e moribondo della dittatura e della guerra; scrittura come evasione dal dilemma patologico verità / menzogna che corrode qualsiasi tipo di comunicazione all’interno del campo, ogni tipo di possibile interazione verbale (con l’abrasione dell’attività dialettica o addirittura più semplicemente dialogica) fra soggettività dominata e potere; scrittura come elaborazione di una nuova dimensione del tempo (la summa dei quaderni ha per titolo Ieri, oggi, domani.); scrittura come dialogo d’amore con la compagna Linda e con il figlio, partendo dall’assioma che le parole, foriere di libertà, costruiscono l’aperto e raggiungono chi vogliono: è il suggerimento del grande poeta brasiliano João Cabral de Melo Neto – accolto fra le letture predilette di Veira – il quale intendeva la poiesis come mezzo eccelso per “costruire l’aperto” e come forma di suprema resistenza alla barbarie della libertà incarcerata. A questo proposito, la letteratura nel campo di Tarrafal e nell’esperienza della clausura non si limita solo alla prassi e all’aspirazione all’atto creativo, allargandosi altresì alla costituzione di una sorta di fratellanza ideale, una corporazione di voci che contengano nello spazio del testo, oltre che nell’aura amicale della loro scrittura, la forza di un’ispirazione e della condivisione di un ideale: si pensi ad António Jacinto, poeta angolano rinchiuso a Tarrafal, del quale Vieira ricorda un importante monito di speranza (“le sbarre non trattengono le stelle”); o ancora a Uanhenga Xitu, a lungo compagno di cella di Luandino Vieira, che non aveva mai scritto nulla prima di entrare in carcere e che si trasforma nell’autore di un vero e proprio classico della letteratura angolana qual è Mestre Tamoda.16

Infine, certamente, la scrittura si apre come traccia verso il futuro, ipotesi indiziale di un cammino percorribile che sia umano, individuale e al contempo collettivo: la forza dell’ideale come progetto mai abdicato. Nelle riflessioni vieiriane emerge a questo punto il lato decisamente più propositivo, tutto centrato sulla costruzione di un’Angola finalmente libera e indipendente nel segno di una Comunità-Nazione; aspetto che si affianca, costituendone il contrappunto, allo slancio distruttivo, schierato contro gli effetti devastanti del colonialismo e dell’intera episteme che gli corrisponde, comprese le divisioni etniche (che condurranno fatalmente a un secondo conflitto), linguistiche, ideologiche. In una nota risalente all’agosto del 1965, Luandino Vieira scrive: «il mio amore per la mia terra, l’Angola, è solo una forma del mio amore per l’umanità. Non sarò mai un cattivo nazionalista»”17 (Ibidem: 27). Da questo potente assioma consegue la considerazione della scrittura come forma di quella che Christopher D. Berk18 ha definito, contrapponendola alla liberal narrative del carcere, radical narrative, ovvero un racconto che elevi la prigione a spazio morale, a comunità, come la strada, la piazza. Esiste questa possibilità a Tarrafal, ovvero che la partecipazione alla vita carceraria sia un tipo di educazione politica? La risposta, per Luandino, è positiva. Ed è proprio qui che risiede il suo impegno politico reale, di cui la scrittura è massima espressione possibile.

Nel carcere di Tarrafal, Luandino Vieira scrive la sua opera più importante, i racconti di Luuanda. I testi transitano al di fuori dello spazio detentivo (attraverso una serie di abili e avventurosi stratagemmi, contando sullo strenuo appoggio della compagna – e di una rete di amici – pronti a raccoglierli all’esterno) ma non parlano del carcere. I racconti, di ambientazione angolana, scritti in un portoghese volutamente scollato dal canone e decisamente innovativi sul piano stilistico, creano immediatamente un “caso letterario” nell’ombra della clandestinità e fra le maglie sempre più strette della censura politica. È proprio in quelle contingenze che, nel 1965, l’Associazione portoghese degli Scrittori (SPE) decide di attribuire a Luuanda il Premio della Narrativa: come prima immediata conseguenza, gli agenti della PIDE sciolgono con la violenza l’Associazione, adducendo fra i motivi della loro azione squadrista il fatto che l’autore fosse un prigioniero politico e che, per di più, utilizzando anche la lingua kimbundu nella sua opera e avendola di fatto eletta a lingua letteraria, avesse messo in atto un provocatorio gesto di sovversione. Quel premio, in realtà, trasforma Luuanda in un’opera definitivamente politica. Luciana Stegagno Picchio ricorda così quella pagina della storia della cultura portoghese:

Il 15 maggio 1965, un avvenimento inatteso scuoteva fin dalle fondamenta l’edificio di perbenismo e di grigia accettazione che, da quasi un quarantennio, il dinosauro eccellentissimo Antonio de Oliveira Salazar, dittatore perpetuo e risanatore delle finanze della Repubblica Portoghese, aveva costruito sulle macerie di quella che, fino al 1928, era stata una prodiga e turbolenta democrazia. La Società Portoghese degli Scrittori e cioè l’espressione più alta e qualificata dell’intelligenza nazionale, aveva attribuito il suo Gran Premio per la narrativa ad un volume di racconti di uno sconosciuto scrittore africano: Luuanda di Luandino Vieira. Non passavano cinque giorni ed un telegramma da Londra, raccolto e pubblicato dal quotidiano di Lisbona, il “Diário de Notícias”, informava che Luandino Vieira era pseudonimo di José Vieira Mateus Graca, condannato a Luanda a quattordici anni di detenzione per atti di terrorismo praticati nella provincia d’Angola ed attualmente detenuto nel carcere di Tarrafal, Isole del Capo Verde. Fu il principio della fine. Il dittatore sembrò perdere la testa e sciolse personalmente la Società degli Autori. Il paese parve dividersi, ma l’opposizione, massiccia già dal 1961, quando il potere coloniale aveva cominciato a vacillare (l’Africa era entrata in guerriglia e l’India di Nehru aveva occupato Goa), uscì rafforzata dall’episodio, tanto all’interno quanto sul piano internazionale. (STEGAGNO PICCHIO 1990: 21).

Luuanda è un’opera in cui la parola risulta a volte addirittura inafferrabile, si ripiega su se stessa, si svela per improvvise epifanie richiedendo spesso le coordinate di una faticosa iniziazione. Lo scrittore sembra voler lacerare la lingua per poi ricostruirne i brandelli fino a creare una forma nuova che del modello non sia il simulacro, bensì il prolungamento creativo. L’azione prevede il dispiegamento volutamente intrusivo di un corpus linguistico sovversivo rispetto al padrão (modello) coloniale e composto non soltanto dal vastissimo serbatoio fornito dalla cosiddetta “lingua etnica” ma anche dal socioletto urbano del musseque, ovvero la derelitta periferia urbana di Luanda e, ovviamente, da quel portoghese lingua viaggiatrice, “esportata” in Africa nel Cinquecento e arricchita nel tempo di localismi, che ne costituisce la base. Il risultato è un’evidente trasgressione nei confronti della norma grazie soprattutto alla presenza costante dell’oralità, al frequente ricorso al kimbundu e dunque proprio a quel bilinguismo che la politica culturale estadonovista tanto crudamente aveva tentato di soffocare.

Alla sovversione del canone si affianca un’aspirazione programmatica che affonda le sue motivazioni proprio nello spazio del campo di concentramento dove il racconto angolano ha preso vita: che quel patrimonio di storie resti a futura memoria. I frammenti di Papéis da prisão si aprono con un’epigrafe in lingua kimbundu: kujimbé. Non dimenticare.

Bibliografia

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Note

↑ 1 Movimento Para a Libertação de Angola.

↑ 2 cfr. D. WHEELER e R. PÉLISSIER 2011 e F. TAVARES PIMENTA 2011.

↑ 3 Si vedano in particolare i seguenti contributi inclusi in AA.VV., Leggere la cenere – Saggi su Letteratura e censura, a cura di R. Francavilla, Roma, Artemide, 2009: C. Pero, “Censura e discorso ideologico dell’Estado Novo”; C. Bettini, “Propaganda e censura nel Portogallo dell’Estado Novo. Nascita e sviluppo di un paese virtuale” e R. Francavilla, “Dinosauri, delfini e polizia del pensiero”.

↑ 4 Per quanto concerne il lato portoghese, si stima che sui tre fronti di guerra (quello angolano, quello guineense e quello mozambicano) perirono quasi 9000 soldati (ai quali va aggiunto l’enorme numero di feriti e di coloro che – a causa dei traumi psicologici – non riuscirono mai a riprendere la loro vita normale). Più del 90% della gioventù portoghese fu in qualche modo coinvolta nel conflitto.

↑ 5 Il titolo fa ovvio riferimento alla capitale dell’Angola, Luanda: la doppia u non fa che riprodurre fonicamente la sequenza vocale-semivocale di molti toponimi africani (luwanda) semplificata nella trascrizione della norma europea (in questo caso portoghese).

↑ 6 cfr. AGAMBEN 2003.

↑ 7 «um rectângulo de arame farpado exteriormente contornato por uma vala de quatro metros de largura e três de profundidade». (Ove non segnalato diversamente, le traduzioni dal portoghese sono mie).

↑ 8 cfr. VIEIRA 2015.

↑ 9 cfr. in particolare G. DE OLIVEIRA: 1987.

↑ 10 L’edizione italiana, tradotta da Vincenzo Barca, esce nel 2004 per Tullio Pironti di Napoli (La vita vera diDomingos Xavier). Luuanda, esce in Italia, con l’omonimo titolo, per Feltrinelli nel 1990 nella traduzione di Rita Desti. Sempre in Italia, nel 1987, viene attribuito allo scrittore il Premio internazionale Enrico Mattei istituito dall' Eni. De rios velhos e guerrilheirosè tradotto da Daniele Petruccioli per Albatros di Roma nel 2010. In precedenza, il racconto “Dina” era stato incluso nell’antologia Africana – Racconti dall’Africa che scrive in portoghese (Feltrinelli, 1999, a cura di Vincenzo Barca e Roberto Francavilla).

↑ 11 «Convertido em palavra de ordem já no final dos anos 1940, o grito ‘Vamos Descobrir Angola’, permanecia orientando os militantes que, para a atividade artística, traziam o desejo nucleador e a vontade de resistir ao processo de diluição da identidade».

↑ 12 Sulla sede della PIDE come lieu de mémoire si veda l’interessante graphic novelMemoria elefante di Giorgio Frattini (Milano, Becco Giallo, 2008).

↑ 13 «Ao chegar preso a Luanda (…), percebi imediatamente que tinha a vida hipotecada por vários anos. Seria necessário que a memória, dai em diante, a substituisse».

↑ 14 «o campo de detenção funciona com uma legislação de tempo própria e irredutível».

↑ 15 «tem as coisas que existem, tem as coisas que não existem e tem as coisas que existem e não existem: como nas estórias».

↑ 16 cfr. AA.VV 1999.

↑ 17 O meu amor à minha terra, Angola, é apenas a forma do meu amor pela humanidade. Nunca serei um mau nacionalista.

↑ 18 C. D. BERK, On Prison Democracy:The politics of Participation in Maximum Security Prison (“Critical Inquiry”, winter 2018, Vol. 44, n. 2, pp. 275-302). L’articolo esamina la situazione e i disordini nel carcere di massima sicurezza di Walpole (Massachusetts) risalenti al 1973 operando una netta cesura fra due tipi diinterventi descrittivi definiti rispettivamente liberal narrative e radical narrative. La differenza sostanziale fra i due approcci risiede sostanzialmente nel fatto che per il secondo (e a differenza del primo) «the street and the prison occupy the same political and moral space. A community is a community, whether or not its inhabitants are walled in. And every group in a community deserves a say in how it’s governed. Moreover, participation in prison life is a kind of political education» (p. 295).

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482