Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Prigionieri politici del Risorgimento: Pellico, Settembrini e Giovanni Ruffini

Francesco DE NICOLA


La letteratura del Risorgimento italiano non comincia, come ci si aspetterebbe, con il racconto dei primi moti insurrezionali o delle attività cospirative, ma è invece inaugurata da un libro a tema detentivo: Le mie prigioni di Silvio Pellico, letterato piemontese giunto a Milano nel 1809 in tempo per conoscere Ugo Foscolo, dal quale apprese quegli ideali patriottici che lo indussero a entrare nella carboneria e a dirigere il periodico antiaustriaco “Il conciliatore” tra il 1818 e il 1819, anno in cui venne soppresso. Arrestato dalla polizia austriaca a Milano il 13 ottobre 1820, Pellico conobbe allora per la prima volta l’esperienza del carcere:

“Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda! Possibile, io qui? E non è ora un sogno il mio? Ieri dunque m’arresatarono? […] L’affanno di tutti i miei cari, e in particolare del padre e della madre, allorché udirebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile”1.

La prima esperienza interiore a seguito dell’incarcerazione è dunque il senso di traumatica separazione dal mondo e dagli affetti ad essa antecedenti.

Nel 1821, con un’ulteriore detenzione non breve a Venezia nei Piombi del palazzo Ducale, dove era guardato a vista da ben nove sbirri, Pellico fu processato e inizialmente condannato a morte per cospirazione; graziato dalla esibita benevolenza dell’imperatore d’Austria, fu allora destinato a quindici anni di carcere duro da scontare nella fortezza dello Spielberg in Moravia, dove erano rinchiusi circa 300 condannati, per lo più assassini e ladri (tra questi Pellico venne iscritto), ai quali a mano a mano si aggiungeranno i ribelli antiaustriaci: dai giacobini ungheresi ai partecipanti della rivolta di Cracovia del 1846. Qui giunto nell’aprile del 1822, Pellico visse la sua terza e più lunga esperienza di prigionia, ricorrendo a ingegnosi stratagemmi per annotare le sue giornate in cattività; adoperava mollìca di pane imbevuta d’acqua al posto della carta e lische di pesce al posto dei pennini, con residui di medicine come inchiostro. Nel 1830 venne liberato e l’anno seguente cominciò a scrivere Le mie prigioni che sarà pubblicato nel 1832 (un’edizione ampliata uscirà nel 1837), ispirato dall’intento di “confortare qualche infelice coll’esponimento dei mali che patii”2; il libro, primo nel suo genere, destò grande interesse ed ebbe tanta risonanza anche all’estero (nel 1833 ne uscì un’edizione in francese), al punto che gli Austriaci lo definirono più dannoso per loro di una battaglia persa, tanto crudele e inumano appariva il trattamento nell’Impero austriaco riservato ai prigionieri sin dalle prime pagine, dove erano definite le pene loro inflitte:

“Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena a’ piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno ai fianchi, e la catena infitta nel muro, in guisa che appena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto; il cibo è lo stesso, quantunque la legge dica: pane ed acqua. Noi, prigionieri di Stato, eravamo condannati al carcere duro”3.

E infatti, a sera, mezz’ora dopo essere stato rinchiuso nella sua cella, il carceriere gli portò una brocca d’acqua preannunciando che la mattina seguente gli avrebbe consegnato la pagnotta, destinata a durare due giorni e avvertendolo che la catena attaccata al muro sarebbe stata usata per lui se non fosse rimasto “quieto”; altrimenti avrebbe avuto solo quella ai piedi, da una gamba all’altra con ceppi fermati da chiodi, che il fabbro stava forgiando per lui; e sarebbe stata da tenere anche di notte rendendo difficile il sonno. E tuttavia, nonostante le apparenze, il carceriere era uomo di buoni sentimenti, tanto da rivelare a Pellico:

“Mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri senza indulgenza, tanto più i prigionieri di Stato. L’Imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli […] Sarò ferreo nei miei doveri, ma il cuore… il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl’infelici. Mi supplicò d’esser quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente”4.

E tuttavia le regole erano rigidissime: “Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera e una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia”5. Poi vennero i vestiti da prigioniero di ruvido panno di due colori: grigio e marroncino; e l’ordine tassativo del più totale silenzio che spegneva le velleità di chi voleva intonare qualche canto italiano; unica consolazione fu poter disporre per qualche tempo di alcuni libri, tra i quali la Divina Commedia (Pellico aveva scritto la tragedia Francesca da Rimini) ma quando si annunciò l’arrivo di nuovi prigionieri dall’Italia dal 1824 al 1827 i rigori aumentarono: “Il carcere divenneci una vera tomba, nella quale neppure la tranquillità della tomba c’era lasciata. Ogni mese veniva in giorno indeterminato a farvi una diligente perquisizione il direttore di polizia. Ci spogliavano nudi, esaminavano tutte le cuciture dei vestiti nel dubbio che vi si tenesse celata qualche carta, si scucivano i pagliericci per frugarvi dentro”6. E tuttavia “tre volte vennero di Vienna personaggi d’altro grado a visitare le nostre carceri per assicurarsi che non ci fossero abusi di disciplina”. E giunse infine il I agosto del 1830: “volgeano dieci anni ch’io avea perduta la libertà; ott’anni e mezzo che scontava il carcere duro. […] Il direttore di polizia prese una carta in mano e disse con voci tronche, forse temendo di produrci troppo forte sorpresa se si esprimeva più nettamente: - Signori…. Ho il piacere … ho l’onore … di significar loro…che S.M. l’Imperatore ha fatto ancora … una grazia… E’ la libertà”7

Se dunque Silvio Pellico aveva dedicato un libro intero alle sue tre diverse esperienze carcerarie, da Milano a Venezia e allo Spielberg, altri scrittori italiani del Risorgimento, in opere non altrettanto monotematiche, avevano raccontato la dura esperienza del carcere che, come repressione ed al tempo stesso esempio, era stata subita da numerosi patrioti. Non poche pagine Luigi Settembrini dedicherà nelle Ricordanze (uscite nel 1879) alla sua detenzione avvenuta nel 1839 nella prigione napoletana di Santa Maria Apparente. Egli, nel periodo più feroce della dominazione borbonica, venendo spesso a contatto con i giovani calabresi dei quali era professore, svolse appassionata e intensa attività di proselitismo in favore della Giovine Italia. Per questa ragione, vittima di una spia, nel maggio del 1839 egli venne arrestato:

“Mentre io dormivo mi fu accerchiata la casa da gendarmi e poliziotti, i quali in nome della legge entrarono, messero in disordine carte libri masserizie, mi rubarono parecchie cose e fra le altre un paio di orecchini di mia moglie che parevano di diamanti. [...] Io rimasi nel quartiere otto dì, guardato a vista da gendarmi che non mi lasciavano mai solo né la notte né il giorno. Tra quei gendarmi era un giovane bello di aspetto e di umore piacevole, il quale mi disse: “Voi siete professore, ed io voglio insegnare a voi una cosa, e ricordatevela: i nemici dell’uomo sono tre, carta, calamaio, e penna”8.

Con quest’affermazione il gendarme voleva far intendere a Settembrini che chi opera in clandestinità non dovrebbe mai scrivere nulla e infatti erano state alcune sue lettere a farlo accusare. Giunto a Napoli venne condotto in Santa Maria Apparente, prigione dei ladri e dei rei di stato e il carceriere lo assegnò a “una di quelle stanze che si dicono criminali, e questo criminale aveva nome secondo trapasso, perché di lì si passava per entrare nei criminali interni. Questo trapasso illuminato da una finestra alta dal suolo era umido e freddo, con le mura ingrommate di muffa; aveva due poggiuoli di pietra, e non altri arnesi che un vaso immondissimo, una lucerna di creta, un piattello, ed una brocca d’acqua”9; ma non c’era alcun materasso per dormire tanto che il giorno dopo Settembrini riuscì ad ottenere dal custode un “farto” e cioè un sacco con dentro scarti di lana da pagarsi due soldi al giorno; né migliore era il trattamento alimentare che ebbe sin dal primo giorno (né i seguenti sarebbero stati migliori) quando il “porco”, così il custode chiamava il prigioniero addetto ai servizi, gli versò nella lorda scodella una porzione di fave e un tozzo di pane nero. E intanto dovette consegnare le bretelle e i lacci delle calze perché “una volta un carcerato si strangolò”. Questa precauzione rientrava nella strategia della polizia, che intendeva mettere a dura prova i prigionieri con le peggiori privazioni e angherie per indurli poi, così sfiniti, a rispondere e rivelare ciò che interessava al momento dell’interrogatorio; perché questo avvenisse occorreva però impedire ai più risoluti di togliersi la vita pur di non parlare, soluzione che non pochi patrioti, come vedremo, adottarono per non tradire i compagni. E questo era il pensiero ricorrente per Settembrini che cercava di prepararsi all’evenienza:

“Se verranno stasera a darmi la tortura per farmi parlare? Se mi legheranno, mi batteranno, mi getteranno acqua addosso? Ebbene vengano a straziarmi, a lacerarmi il corpo: io non farò motto. Giacché ci sono, bisogna starci da uomo. E la mia Gigia che fa in questo momento? Da quella notte dell’arresto io non ho saputo nulla di lei, e del figlio mio. E Raffaele quando lo rivedrò il mio bimbo? Dove saranno? E se qualcuno li insultasse? Oh che dolore è questo che mi squarcia il petto! Questa è tortura vera”10.

La detenzione era così non solo sofferenza fisica, ma anche tormento al pensiero dei cari.

“Tra questi angosciosi pensieri passeggiai lungamente nella stanza, leggendo a quando a quando su per le pareti nomi e bestemmie scritte col carbone. Sentii la molestia della fame, e guardai le fave, ma non potei toccarle per lo schifo di quel piattello: tolsi il pane e ne mangiai la sola crosta, perché la midolla era proprio fango: la notte se la mangiarono i topi che vennero a schiere, e portarono via anche le fave”11.

Finalmente dopo diciassette giorni Settembrini fu condotto per l’interrogatorio dal commessario inquisitore di stato cavalier Vincenzo Marchese

“vecchio, guercio, lindo, tutto parole melate e cortesie; e con lui un cancelliere con la penna in mano e pronto a mettere su la carta quante parole mi dovevano uscire di bocca. Il commessario incominciò un fervorino, che egli era stato amico di mio padre, che gli doleva di vedermi in carcere, che fidassi in lui, gli dicessi ogni cosa; che gli erano errori giovanili scusabili, che forse altri mi aveva ingannato, che egli mi aiuterebbe, e tante altre dolcezze. Io l’interruppi a mezzo: “Ma posso sapere finalmente perché sono arrestato?” Allora egli mutando tuono: “Voi siete accusato di appartenere alla setta la giovane Italia.” “Non ne so nulla: è una falsa accusa.”
“Avete scritte voi queste lettere?” “Non mi appartengono.” “Eppure sono di vostro carattere.” “Forse paiono, ma non sono, né io le ho scritte mai”. E il cancelliere scriveva, e io gli guardavo la penna. Rispondevo secco, e pesavo le parole. “Voi siete negativo in tutto; ma il negare non giova quando ci sono molte pruove e questi documenti.” “Io le vorrò vedere queste pruove.” “A suo tempo lo saprete.” “Potrei scrivere una lettera a mia moglie, e farmi comperare coi miei denari un po’ di cibo?” Egli chiamò il custode maggiore, e dettogli non so che all’orecchio, si volse a me. “Potete scrivere la lettera ed avere il cibo: anzi andrete in una stanza migliore, ma ripensate a ciò che vi ho detto.”
Fui condotto in uno dei criminali interni al numero 6, ebbi carta e calamaio, ed in presenza del custode scrissi la lettera, che non fu mandata, ed io poi la vidi nel processo dove la misere per paragonare i caratteri. Mi fu dato del cibo comperato da una taverna, e per mangiarlo ebbi un cucchiaio di legno; potei avere la biancheria, e mutarmi la camicia. La nuova stanza era piccola, coi soliti due poggiuoli, e i soliti arnesi; ma aveva una finestrella cui si montava per una scala di fabbrica, e su cui si poteva sedere con la persona ricurva, sporgeva su la chiesa, e guardava tutto il bel golfo di Napoli”12.

Ma le strategie poliziesche non si limitavano alle privazioni e ai subdoli ricatti: dopo un mese di prigionia, la moglie e il figlio di Settembrini ebbero il permesso di visitarlo, ma il commissario che avrebbe dovuto consentire l’incontro non si presentò e così la sofferenza del carcerato crebbe ancor più

“Guardai fiso fiso per tre ore con un’angoscia mortale, e non iscorsi mai persona che paresse il commessario: dopo tre ore vidi una donna con un bambino, che andando via levarono gli occhi in alto. Li riconobbi, cacciai la mano fuori i cancelli, e li salutai: ella mi salutò con la mano, il bimbo andava guardando e salutava con la manina: la sentinella si avanzò; essi andarono via. Io mi gettai sul farto e piansi amaramente. È meglio che ella non venga più a vedermi, che io non la vegga insultare, se no io mi perdo”. Pensai di scriverle che non cercasse di vedermi. Avevo della cartaccia nella quale mi avevano portato del tabacco: ruppi una vecchia cannuccia di pipa, e fatto uno stecco l’aguzzai con la pietra focaia: con le dita e coi denti tolsi un po’ di legno dalla porta, lo bruciai su la lucerna, e fattone carbone lo sciolsi con un po’ d’acqua, ed ebbi l’inchiostro. Scrissi, e serbai la carta in tasca, e la penna cioè lo stecco nel farto. Il giorno appresso mi fu portata la biancheria netta mandatami da mia moglie, ed io dando la lorda a la presenza del custode, messi la carta in un calzetta. Mia moglie trovò la carta, ma non fece quello che io avevo scritto, perché il terzo giorno venne con l’ispettore del carcere.
Dopo sessantasei giorni di criminale inferiore, passai in un sottochiave cioè in una stanza superiore, larga, ariosa, con una grande finestra che stava sul primo trapasso, ed affacciava sul giardino, e vedeva molte ville e case lontane. Come io vi entrai e vidi il sole nella stanza, mi messi a quel sole, tutto che fosse sul fine di luglio, e mi riscaldai tutta la persona, ché nel trapasso e nell’Immacolata avevo sempre freddo. Mi parve così bello quel sole, quella luce, e quel verde che sentii un ristoro per tutta la vita; allora non mi accorsi che l’aria di quella stanza era avvelenata dalla latrina del carcere che le stava da presso. In quella stanza stetti sedici mesi ed otto giorni”13.

E passiamo ora a Giovanni Ruffini, il patriota amico di Mazzini, che nel Lorenzo Benoni, scene della vita di un italiano (1853) raccontò la sua formazione culturale e politica fino al 1833, alla vigilia della fondazione della Giovine Italia, quando fervevano i preparativi per la sua nascita.

“Le cose andarono tranquillamente per qualche settimana quando una notte, verso le dodici, s’udì una violenta scampanellata alla nostra porta. Non era alzato alcuno della famiglia eccetto Cesare ed io, e andammo ad aprire. Entrò un picchetto di carabinieri, che ci presentò il mandato d’arrestare Cesare Benoni e di perquisire le sue carte. Fu un colpo di fulmine. […] Vennero sequestrate alcune carte: un ultimo addio, una stratta di mano, e Cesare fu condotto via”14. Col nome di Cesare lo scrittore si riferisce al fratello Jacopo che sarà imprigionato nei sotterranei della torre Grimaldina di palazzo Ducale. Intanto si era sparsa la notizia che “gl’imprigionamenti, non che diminuire, addivenivano ogni giorno più spessi […] e la diffidenza cominciò ad entrare nel seno dell’Associazione, quindi lo scoraggiamento e finalmente il terrore”15.

Ma l’incarcerazione era solo il primo atto di una sottile strategia volta a estorcere le confessioni dei nomi dei complici e i loro progetti cospirativi.

“Alcuni nostri amici non avevano potuto resistere alle torture che loro si davano. Onore a quelli che seppero rimaner saldi! Ma non siamo troppo severi verso coloro che cedettero. Volgiamo piuttosto tutta la nostra indignazione contro un governo immorale, i cui agenti non esitavano a far la parte d’inquisitori e a mettere alla tortura creature simili a loro. I poveri prigionieri solevano essere indeboliti con un nutrimento insufficiente e malsano. Nella notte erano loro rotti improvvisamente i sonni con spaventosi e lugubri rumori. Voci sinistre gridavano sotto le finestre della loro prigione: «Uno de’ vostri compagni è stato fucilato oggi; domani toccherà a voi». Quando le loro forze erano state così abbattute e la loro immaginazione fortemente esaltata, erano subito condotti all’esame, oppure si faceva entrare da essi una figliuola, una sorella od una madre piangente. Qualche volta due amici erano messi in due celle contigue, permettendo loro di comunicare tra sé. Si lasciavano passare molti giorni, e intanto certi cenni di sinistro augurio sul destino, che sovrastava all’amico o al compagno di prigione, si lasciavano sfuggire con quello, nel quale si voleva far colpo. Qualche tempo dopo, la porta della cella vicina s’apriva con molto fracasso, si udiva un confuso calpestio seguito da un silenzio sepolcrale, e dopo qualche minuto una scarica di moschetti nel cortile delle prigioni. Con questi artifizi si estorcevano confessioni e rivelazioni spesso false”16.

Questa osservazione rivela che dunque la polizia metteva in atto strategie crudeli ben sudiate e collaudate per torturare i prigionieri, polizia che, occorre sottolinearlo, svolgeva i suoi compiti negli stati tirannici che allora dividevano l’Italia unicamente a servizio del potere, ben lontana dunque da quei compiti di tutela dei cittadini che solo nella civilmente più evoluta Francia e nella monarchia illuminata inglese aveva portato prima (nel 1812) a costituire a Parigi la “surete nationale” e poi nel 1829 a Londra aveva fatto nascere la “polizia metropolitana” che in seguito, dal nome della sua sede, avrebbe preso il nome di Scotland Yard. Ma tornando a Jacopo Ruffini, egli non aveva ceduto alle angherie dei suoi aguzzini e dopo un mese di torture e ormai condannato all’impiccagione, ligio al giuramento di non rivelare nulla, si tagliò la gola e morì dissanguato; alcuni storici però non escludono che si sia trattato di un omicidio mascherato da suicidio, ma di questa vicenda nulla racconta il fratello Giovanni che nell’ultima pagina del Lorenzo Benoni, dopo che il protagonista è riuscito a raggiungere Marsiglia e si è incontrato con Mazzini, vedendo il volto di lui afflitto conclude: “Compresi tutto. Gran Dio! Cesare non era più”17.

Il grande interesse suscitato dal Lorenzo Benoni indusse l’editore Constable di Edimburgo che l’aveva pubblicato a chiedere a Ruffini di scrivere il seguito della sua avvincente autobiografia; ma il patriota, allora esule volontario a Parigi, preferì dar vita a un romanzo d’invenzione, sia pure su solide basi storiche. E così scrisse Il dottor Antonio, nel quale la storia d’amore – collocata nel 1840 - tra un esule siciliano medico condotto a Bordighera e l’inglesina Lucy di passaggio per la Liguria costituisce la premessa per narrare i moti del 1848 in Sicilia e poi a Napoli, dando vita così al primo romanzo risorgimentale della letteratura italiana, segnato da un successo popolare che si protrarrà per quasi un secolo e nel quale ancora una volta l’esperienza della prigionia è centrale. Antonio verrà poi catturato dalla polizia borbonica nel 1850, processato a Napoli dalla Gran Corte Criminale e condannato nel gennaio del 1851, fu rinchiuso nel carcere di Ischia dove, vestito come un delinquente volgare, strascinava la sua grave catena. Ma la fragile eppur determinata Lucy aveva organizzato un piano accurato per farlo evadere:

“La notte è scura quanto amanti e contrabbandieri potrebbero desiderare e i neri contorni del torreggiante castello si distinguono appena nel tetro fondo di un cielo nuvoloso. Un battello avanza cautamente, con remi ravvolti di panno, fino al piede del massiccio edifizio, e prende posizione proprio dove lo scoglio cade perpendicolarmente nel mare.. Ogni orologio della città suona mezzanotte e i due uomini nel battello tengono i loro occhi fissi in alto: non un movimento, non un suono. Anche un’altr’ora, un secolo, è passata e regna pure la stessa quiete di morte. Che vuol dir mai questo ritardo? Mezzanotte era l’ora convenuta; la limatura delle catene del prigioniero e delle sbarre di ferro della finestra, dalla quale deve tentare la fuga, doveva occupare solo venti minuti. Possibile che tutto sia stato scoperto? Ma se ciò fosse, si sarebbe udito qualche allarme, qualche colpo di fucile, qualche suono di voce – almeno si sarebbero veduti dei lumi – eppure tutto rimane scuro e quieto come la morte. O fosse mai che al momento decisivo, a faccia a faccia col sottoposto abisso, sia venuto meno il coraggio al prigioniero? Tre anni di tortura, quale si pratica sul fisico e sul morale nelle prigioni di Napoli, si sapeva che avevano indebolito altri cuori nobili e intrepidi come quello di Antonio. [...] La vasta massa del castello diveniva ogni momento più distinta per il progressivo albeggiare dell’orizzonte. Altri dieci minuti e sarebbe troppo tardi per il battello il ritirarsi senza destar sospetti”18.

E infine dalla guardia della prigione che doveva aiutare Antonio giunse la rivelazione:

“Egli non vuol uscire!” gemette il poverino stracciandosi i capelli e battendosi le mani. “Egli non vuole uscire”. Antonio aveva rifiutato di fuggire e il negativo esito della notte passata era stato opera sua e così dicendo il servitore passò a Lucy un sudicio pezzo di carta. O gioia! Era suo, benché potesse dirsi appena di sua mano. Le lettere erano formate di piccoli forellini nella carta. Queste poche parole, tracciate interamente all’oscuro, erano costate al prigioniero un’intera notte di lavoro. Eccone il senso:
“Sono qui con me cinque altre nobili persone, la minima delle quali vale dieci volte me. Non posso abbandonarle. Voi non potete salvarci tutti, lasciatemi dunque al mio fato. La Provvidenza mi ha assegnato il posto fra quelli che soffrono. Forse le nostre pene saranno contate a salvezza del nostro paese. Pregate che sia così. Pregate per l’Italia! Dio vi benedica!
Il vostro A.”19

La solidarietà tra patrioti era stata dunque più forte dell’opportunità di evadere dall’ennesima disumana prigione che abbiamo incontrato per raccontare le sorti spesso dolorose dei fautori del nostro Risorgimento.


Note

↑ 1 Silvio Pellico, Le mie prigioni. Torino, SEI, 1934, p. 12.

↑ 2 Ibidem, p. 9.

↑ 3 Ibidem, p. 94.

↑ 4 Ibidem, p.. 98.

↑ 5 Ivi.

↑ 6 Ibidem, p. 129.

↑ 7 Ibidem, pp. 144-5.

↑ 8 Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, a cura di Adolfo Omodeo, I, Bari, Laterza, 1934, p. 13.

↑ 9 Ibidem, p. 34.

↑ 10 Ibidem, p. 51.

↑ 11 Ibidem, p. 63.

↑ 12 Ibidem, pp. 78-9.

↑ 13 Ibidem, p. 97.

↑ 14 Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni, scene della vita di un italiano, a cura di Martino Marazzi, Genova, De Ferrari, 2006, pp. 340-1.

↑ 15 Ibidem, p. 344.

↑ 16 Ibidem, pp. 344-5.

↑ 17 Ibidem, p. 413.

↑ 18 Giovanni Ruffini, Il dottor Antonio, a cura di Francesco De Nicola, Genova, De Ferrari, 2000, pp. 234-5.

↑ 19 Ibidem, p. 235.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482