Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Sažajte, i vyrastet di Andrej Rubanov: ritratto di un eroe degli Anni Novanta

Mario Alessandro CURLETTO


Abstract

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La mattina del 15 agosto 1996 viene arrestato per riciclaggio di denaro sporco il ventisettenne Andrej Rubanov, comproprietario di un piccolo istituto bancario semiclandestino. Verrà rilasciato il 28 aprile 1999, dopo due anni, otto mesi e tredici giorni di detenzione. Privato del denaro, unico e supremo valore riconosciuto nella Russia el’ciniana, il detenuto Andrej Rubanov non può contare su nessun tipo di aiuto esterno. Nel suo costante sforzo di resistenza al carcere non trova neppure conforto nel mito del radioso avvenire da cui attingevano energie morali gli eroi sovietici e nulla, nel romanzo autobiografico, autorizza a pensare che possieda il dono della fede religiosa. Andrjucha l’Affarista (così viene ribattezzato dai detenuti) riesce a non farsi annientare dal carcere sostanzialmente grazie a doti personali quali ostinazione, autocontrollo e senso della propria dignità. Ed è così onesto da non millantare il minimo disagio interiore per il fatto di avere infranto la legge. Per questo il personaggio Andrej Rubanov merita l’appellativo di eroe di un’epoca ostentatamente amorale come gli Anni Novanta della Russia.




Chi cercasse nella letteratura russa, tradizionalmente attenta alla realtà politica e sociale del proprio paese, una narrazione sui Lichie Devjanostnye, i Ruggenti Anni Novanta (come vengono oggi definiti con un pallido eufemismo), si troverebbe in seria difficoltà.

Quell’improvvisa eclissi dell’interesse degli scrittori russi per il presente può essere collegata a una crisi di rigetto nei confronti del realismo, per un sessantennio «metodo»1 letterario totalizzante, da un lato imposto, almeno in teoria, dal potere sovietico a scopi autocelebrativi, dall’altro adottato dai dissidenti, spesso emigrati, come arma per controbattere la propaganda governativa e descrivere, a uso e consumo del mercato librario occidentale, gli orrori dell’URSS. È possibile che, finalmente liberati dall’obbligo (nell’Ottocento solo morale, per larga parte del Novecento anche istituzionale) di rappresentare realisticamente le dinamiche dalla società loro contemporanea, e da quella sorta di magistero etico che ne conseguiva, negli Anni Novanta gli scrittori russi rifiutassero insieme con la forma (il realismo), anche il contenuto, ovvero il presente del loro paese. Di fatto, il postmodernismo tardivo che dominò la letteratura russa ‘alta’ nell’ultimo decennio del XX secolo, sostanzialmente ignorò la tumultuosa (altro eufemismo) quotidianità, preferendo giocare all’allegro chirurgo sul cadavere del passato sovietico, più o meno recente.

Non si può affermare che questo sguardo retrospettivo fosse imposto agli autori altolocati (nella scala gerarchica della narrativa) dalle ferree leggi di mercato, tornate a governare l’industria editoriale russa dopo la lunga parentesi sovietica. Il detektiv nazionale infatti, che nelle sue varietà tipologiche (romanzo poliziesco, romanzo criminale, thriller ecc.) dalla metà degli Anni Novanta occupò saldamente le vette delle classifiche di vendita, conquistando, tra gli altri, anche milioni di lettori colti, tranne rarissime eccezioni, attingeva le sue storie, i suoi personaggi, le sue ambientazioni dalla realtà quotidiana. (cfr. KUPINA, LITOVSKAJA, NIKOLINA 2009: 116). Non a caso Aleksandra Marinina (pseudonimo di Marina Alekseeva, 1957), laureata in giurisprudenza, analista della milicija (polizia) di Mosca e principale fenomeno editoriale della Russia del primo decennio postsovietico con i suoi gialli ‘d’atmosfera’, ispirati (con le dovute proporzioni) a Georges Simenon, a un giornalista italiano stupito dal fatto che la nuova realtà russa, «perfetta per la penna di un novello Dickens: ricchi e poveri, lusso sfrenato e ingiustizie...» (FRANCESCHINI 1997: 43), non trovasse rappresentazioni letterarie, replicava:

Bisognerà aspettare un novello Dickens russo, non nascono mica tutti i giorni. Ma mi permetto di far notare che qualche scrittore impegnato a descrivere la Russia d’oggi c’ è: gli autori di gialli. Lì di realtà odierna ne trovate fin che volete (ibidem).

Si potrebbe ipotizzare che gli scrittori intelligentnye, a differenza dei giallisti e dei cultori di altre arti letterarie minori, provassero un certo disagio di fronte alla prospettiva di affondare la penna, con il tradizionale metodo del realismo critico, in una realtà raccapricciante2 al cui avvento, nei limiti dei loro poteri, avevano entusiasticamente collaborato (cfr. MARTINI 2002: 6). L’argomento è approfondito dal più carismatico degli scrittori realisti del secondo millennio, Zachar Prilepin (1975), il quale traccia un quadro per certi aspetti inatteso:

Eppure, per quanto possa sembrare strano, in quegli stessi anni fece la sua comparsa un’intera generazione di giovani scrittori realisti […] Operavano tutti più o meno nel genere del realismo, scrivevano del tempo presente, si mantenevano fedeli alla vituperata tradizione umanitaria e in piccole dosi, con moderazione, tentavano di parlare di cose strane, come fede, sostrato spirituale, Dio.3

Come rappresentanti della succitata giovane generazione realista degli Anni Novanta, Prilepin nomina undici scrittori, oggi noti in Russia, tradotti in varie lingue straniere (cfr. PRILEPIN 2012a) e tutt’ora attivi, con l’unica tragica eccezione di Oleg Pavlov, scomparso il 7 ottobre 2018. A quanto ci consta, purtroppo solo due di loro, Vladislav Ostrošenko (1959) e il già ricordato Oleg Pavlov (1970-2018), sono accessibili al lettore italiano.4 Questi autori, argomenta Prilepin, si mostravano sostanzialmente osservanti del dogma liberale (noi saremmo più propensi a definirlo liberista) imperante nell’ultimo decennio del XX secolo, deprecavano il passato sovietico e si tenevano ben alla larga da qualsiasi concetto in odore di nazionalismo, primo fra tutti quello di anima russa. Ragione per cui, se non furono amati dai nostalgici del passato, d’altro canto non subirono particolari discriminazioni da parte dell’intelligencija ’democratica’ che monopolizzava la politica culturale. Nel nuovo millennio, precisamente nel 2002, a Pavlov sarebbe stato addirittura attribuito il Russkij Buker (Booker), il più occidentale dei premi letterari della nuova Russia capitalista.5 Negli Anni Novanta tuttavia, quello dei giovani scrittori realisti restò un fenomeno marginale, giudicato epigonico sia dalla critica à la page sia dalla nuova generazione di lettori colti (soprattutto studenti), entrambe ammaliate dagli ‘effetti speciali’ del postmodernismo e psicologicamente poco propense a osservare il presente in una spietata radiografia letteraria.

La bancarotta dello Stato (1998) e l’ingloriosa fine dell’era El’cin, coincisa con l’inizio del nuovo millennio,6 portarono con sé, tra gli inevitabili postumi della sbornia liberale/liberista, una sorta di nostalgia selettiva per alcuni elementi del passato russo-sovietico, a partire dalla concezione vagamente paternalistica di un potere statale tra i cui compiti potesse rientrare la difesa dei cittadini dalla violenza di un’economia capitalistica che nella Russia degli Anni Novanta aveva assunto forme definibili senza enfasi ‘criminali’. In campo letterario tale clima era quasi fatalmente propizio a un tentativo di rinascita del realismo, di un realismo robusto, polemico, visceralmente inconciliabile con la pruderie politically correct. E puntuale, nel dicembre del 2001, su Novyj mir, la più prestigiosa rivista letteraria dell’era sovietica, dopo il 1991 abitualmente schierata nel campo liberale, apparve il saggio «Otricanie traura» («Il rifiuto del lutto») in cui il giovanissimo scrittore moscovita Sergej Šargunov (1980), con gli accenti declamatori del caso, esponeva il manifesto programmatico del cosiddetto nuovo realismo (cfr. ŠARGUNOV 2001), concetto intorno al quale divamparono subito abbondanti discussioni teoriche.

Si dovette però attendere un paio d’anni per leggere la prima opera che di fatto accoglieva, seppure in modo parziale ed eccentrico (anche geograficamente), l’appassionato appello di Šargunov: («Ripeto la formula: nuovo realismo!»)7. Nel 2003 due giovani giornalisti della redazione culturale di Čas, quotidiano in lingua russa di Riga, Aleksandr Garros (1975-2017) e Aleksej Evdokimov (1975) si guadagnarono a Pietroburgo il premio Nacional’nyj bestseller con l’opera prima [Golovo]lomka ([Rompi]capo), scritta a quattro mani.8 I due autori dimostravano di avere tecnicamente assimilato appieno la lezione postmodernista: [Golovo]lomka è un testo composito, impastato di trash, pulp e thriller d’azione, un reticolo stratificato di parodia e stilizzazione a vari livelli. Fittissima è la trama delle citazioni, più o meno esplicite, tratte dagli ambiti più disparati: dai Ljube, popolare gruppo folk-rock militar-patriottico russo, a Diego Maradona, dal film Resident Evil con Milla Jovovich al romanzo Fakul’tet nenužnych veščej (La facoltà di cose inutili, 1978)9 di Jurij Dombrovskij (1909-1978). Dal punto di vista formale, il maggiore pregio del libro consiste nello stupefacente assortimento lessicale e linguistico, capace, tra l’altro, di conferire dignità letteraria a quell’inestricabile groviglio di prestiti e adattamenti da lingue straniere, gerghi e tecnicismi in cui si è trasformata negli ultimi anni la lingua russa dei media e della comunicazione d’impresa.

Ma se la truce vicenda narrata, con le strade di Riga disseminate di cadaveri in un crescendo convulso di stragi sempre più clamorose e paradossalmente impunite, conduce a un triplice scioglimento in cui si rafforza il sospetto che quella carneficina non abbia mai varcato i confini della realtà virtuale, [Golovo]lomka è un romanzo dai contenuti saldamente ancorati alla realtà e intensamente polemici, dove i bersagli hanno nomi e cognomi ben riconoscibili dietro un labilissimo camuffamento: la banca Parex, per esempio, una potenza sulle rive ex sovietiche del Baltico, o l’ex premier lettone Einars Repše10, di cui vengono addirittura citati alcuni ‘memorabili’ passi di un discorso televisivo di fine anno. D’altra parte non occorre essere al corrente delle vicende politico-economiche della Lettonia contemporanea per avvertire nel libro uno sfacciato, irriconoscente disgusto verso la trionfale ‘bonifica’ operata dalla civiltà dei consumi nelle lande più occidentali della defunta Unione Sovietica.

Il 2005 fu decisivo per quella che potremmo definire la rinascita realista, con l’apparizione sulla scena della letteratura russa del già citato Zachar Prilepin, di German Sadulaev (1973) e di Denis Gucko (1969), che vinse il premio Buker con la dilogia Russkogovorjaščij (Russofono), dedicata all’identità e alla sorte dei russi nati e residenti in altre repubbliche sovietiche, diventate stati indipendenti dopo il 1991. A questo riguardo merita di essere ricordato, per la sua indubbia valenza simbolica, un incidente accaduto in occasione della premiazione: il presidente della giuria, lo scrittore Vasilij Aksënov (1932-2009), uno dei più noti esponenti della inossidabile generazione letteraria degli Anni Sessanta, si rifiutò platealmente di consegnare il premio a Gucko, che aveva ottenuto i voti degli altri quattro giurati, e in conferenza stampa dichiarò che a suo parere l’opera più meritevole era quella di Anatolij Najman (1936), letterato, poeta e prosatore di lungo corso (cfr. BASINSKIJ-BROVKINA 2005).

Il 2005 vide anche il brillante debutto di Andrej Rubanov (1969). In realtà il suo nome era già salito agli onori della cronaca (nera) nel 1997, quando era iniziato a Mosca il processo al sindaco di Groznyj Bislan Gantamirov (1963) per appropriazione indebita di colossali risorse provenienti dal bilancio federale e destinate alla ricostruzione della Cecenia. Rubanov in particolare era stato accusato di aver riciclato una somma equivalente a circa un milione e mezzo di dollari, di cui nega tutt’oggi di aver conosciuto la provenienza. Dopo un lungo iter giudiziario, il 28 aprile 1999 era stato condannato a tre anni di reclusione e immediatamente rimesso in libertà, essendo già stato detenuto, considerando gli sconti di pena, per un tempo superiore a quello stabilito dal tribunale.

Nel 2005 Rubanov pubblicò a proprie spese Sažajte, i vyrastet, romanzo autobiografico sulla propria esperienza carceraria. Sažajte, i vyrastet significa letteralmente Piantate, e crescerà, un’espressione normalmente traducibile con «Seminate, e raccoglierete», ma poiché «sažat’ v tjur’mu» (e in contesti in cui non occorra specificare, semplicemente «sažat’») significa «mettere in prigione», il titolo allude alla crescita interiore che il protagonista, matura durante i quasi tre anni di detenzione. Nel romanzo sono rispettati i principali dati identificativi della vicenda realmente accaduta: nome e cognome del protagonista (che narra in prima persona), date dell’arresto e del rilascio, capi di imputazione, luoghi di detenzione ecc.

Trama

Il 15 agosto 1996, di prima mattina, viene arrestato nel suo ufficio nel centro di Mosca il ventisettenne Andrej Rubanov, comproprietario di un piccolo istituto bancario semiclandestino (non ha neppure un’insegna sulla strada). Il fatto non lo coglie di sorpresa: si è al corrente, in certi ambienti affaristici, di un’inchiesta giudiziaria in corso su una grande truffa messa in atto da un alto funzionario di una repubblica autonoma della Federazione Russa, che ha sottratto allo stato una ingente somma, attraverso un acquisto truccato di medicinali. La banca di cui Andrej Rubanov è comproprietario ha riciclato questo denaro, lo ha in parte convertito in dollari e accreditato su conti correnti di banche estere. Al momento dell’arresto Andrej ha ben chiaro (almeno così crede) il futuro sviluppo degli eventi. Michail Moroz, suo socio, amico e soprattutto capo, ha programmato ogni cosa: da tutti i documenti risulta unico proprietario della banca, e dunque responsabile del suo operato, il solo Rubanov. Moroz il vero padrone, la mente di ogni affare sin dal momento della fondazione della società, compare come semplice dipendente. Dunque le colpe ricadono interamente su Rubanov, che comunque dovrebbe cavarsela con un mese di carcere, il tempo, per Moroz, di mettere in moto uno stuolo di agguerriti avvocati e pagare chi di dovere. Naturalmente Rubanov non dovrà in alcun modo collaborare con gli inquirenti e, una volta rimesso in libertà, si potrà godere il suo tesoro. Rubanov viene condotto a Lefortovo, carcere dell’FSB (ex KGB), di norma riservato a detenuti di alto livello, di ‘interesse nazionale’ (terroristi compresi). Passa qualche settimana in isolamento, poi viene sistemato in una cella insieme con due compagni: Frol, vecchio malavitoso dal corpo ossuto coperto di tatuaggi, e Vadim, detto il Grassone, costruttore edile, teorico dell’indispensabilità dello strato di grasso sottocutaneo e delle alte proprietà salutari del salame. Andrej inizia sin dal primo giorno una accanita resistenza. Non lotta per la sopravvivenza, infatti le condizioni di comfort a Lefortovo sono quasi alberghiere rispetto a quelle delle altre prigioni: piccole celle, pulizia, niente sovraffollamento, vitto discreto ecc. Andrej lotta per non cedere psicologicamente al carcere, per mantenere la propria personalità individuale. Corre e fa ginnastica nel cortile durante l’ora d’aria, in cella legge libri ‘seri’, soprattutto di filosofia e, visto che ne ha finalmente il tempo, ripensa ai radicali e subitanei cambiamenti di condizione sociale che ha conosciuto nel giro di una decina d’anni (ne ha solo 27): adolescente di provincia, ciclista e scrittore in erba, studente di giornalismo a Mosca, nella «migliore università del mondo»11 con la prospettiva di un radioso avvenire, studente spiantato e senza futuro (dopo la fine dell’URSS), giovanissimo, intraprendente uomo d’affari, ricco banchiere in grado di concedersi tutti gli status symbol dei ‘nuovi russi’ e da ultimo (per il momento) detenuto, ma pur sempre ricco, con tutti i vantaggi connessi. I compagni di cella non apprezzano i suoi tentativi di resistenza al carcere, il suo habitus mentale: «Il fatto che tu non accetti la prigione va molto bene. […] Ma non dimenticare, fratello – lo ammonisce Frol –, che così anche la prigione comincerà a odiarti. A odiarti ferocemente…».12

Agli inquirenti che lo interrogano – il giudice istruttore Chvatov, un provinciale stressato dalla vita frenetica di Mosca, e il capitano della polizia Svinec, un colosso dalla voce tonante, che veste impeccabili abiti firmati ‘sequestrati’ ai ricchi arrestati – Rubanov non offre alcuna collaborazione, e soprattutto bada a non far cadere alcuna responsabilità sul suo capo, Moroz, anch’egli in carcere (ma vi resterà per poco). All’avvocato Maksim Štejn chiede di mobilitarsi per fargli ottenere la libertà nel giro di un mese, come gli aveva promesso Moroz. Ma il mese passa senza che nulla accada.

Passa anche tutto l’autunno e viene l’inverno: Andrej ormai sa che il suo capo e presunto amico è già uscito di prigione da tempo e capisce che da lui non avrà più alcun aiuto. Moroz infatti si è rifugiato con tutto il tesoro nella natia Bielorussia, e là ha aperto un grande salone di parrucchiere. L’avvocato ogni tanto passa a far visita ad Andrej per cortesia, ma ormai nessuno lo paga più. L’unico aiuto al detenuto viene dalla moglie, che deve anche provvedere al mantenimento del figlio amministrando la somma lasciatale da Andrej.

Dopo 240 giorni passati a Lefortovo, Andrej Rubanov viene trasferito alla Matrosskaja Tišina, altra prigione moscovita, nota tra i detenuti come ‘l’inferno degli scemi’. Nell’ottocentesco ospedale militare della marina trasformato in carcere la plebe dei detenuti in attesa di giudizio vive ammassata in camerate affollate all’inverosimile. In quella dove capita Andrej, concepita per 30 persone (tanti sono i giacigli in brande a castello), sono rinchiusi 137 uomini, in sostanza rifiuti della società raccattati nelle strade della megalopoli: ladri, rapinatori, assassini, semplici vagabondi, drogati, piccoli spacciatori, russi, uzbeki, tagiki, armeni, azeri, qualche africano, qualche sudamericano, ucraini, moldavi e così via. La scena del primo ingresso di Andrej in quella galleria buia, brulicante di corpi seminudi, sudati, coperti di piaghe è fortissima, rabbrividente. In realtà, si apprende, anche in quel carnaio soffocante, per quanto possa sembrare strano, regna un ordine: a presiedervi, in ogni camerata, è lo smotrjaščij (letteralmente: «il guardante»), un detenuto che gode del rispetto generale e amministra la complicata vita sociale dei galeotti mantenendo un delicatissimo, miracoloso equilibrio, unica alternativa a terribili esplosioni di violenza. Nella camerata di Rubanov lo smotrjaščij è Slava, ventitreenne rapinatore devotissimo, che ha dipinto sulle pareti del suo ‘scompartimento privato’ (in fondo alla camerata) una serie di immagini sacre. Slava prende subito in simpatia Andrej, lo accoglie nella ristrettissima cerchia dei propri fidi collaboratori, lo protegge dalla malevolenza di Dima Slon (Elefante), eroinomane aggressivo (quando non è sotto l’effetto della droga), e gli affida un compito della massima responsabilità: partecipare alla Doroga (Strada), un incredibile sistema postale clandestino attraverso il quale qualsiasi detenuto della Matrosskaja Tišina può fare pervenire a qualsiasi altro messaggi scritti, qualche sigaretta, una piccola quantità di tè, di hashish, di eroina, soldi ecc. Ogni plico è sacro, indipendentemente dal contenuto e se, per qualsiasi motivo, va perso, i detenuti (tre per turno) responsabili del tratto della Doroga dov’è sparito, ne dovranno rispondere personalmente. Va da sé che gli uomini impegnati nella Doroga sono considerati gente seria e affidabile, una sorta di aristocrazia della galera, degna di privilegi commisurati agli oneri assunti.

In questa polveriera sempre sul punto di esplodere, dove sotto una quiete apparente, frutto di continue mediazioni, covano tensioni fortissime, protetto da Slava e dai suoi amici, Rubanov riesce ad arrivare, con alterne fortune, sino al momento del processo, che si conclude con la condanna e, come detto, la successiva immediata liberazione. Anche il giorno del rilascio corrisponde in pieno al dato reale: 28 aprile 1999, dopo due anni, otto mesi e tredici giorni di detenzione.

A casa Andrej ritrova il figlio che aveva lasciato piccolissimo, di pochi mesi, e la moglie che gli è rimasta fedele e lo ha sempre aiutato per quanto poteva. Lavora per qualche tempo come saldatore per pagare un debito contratto in carcere con Vadim il Grassone, suo compagno di cella a Lefortovo. Quindi si dedica a quella che da adolescente sentiva essere la sua vocazione: scrivere romanzi. Il materiale, adesso, non gli manca.

Una recensione largamente positiva del noto scrittore e critico letterario Lev Danilkin (1974) sulla rivista Afiša (7 febbraio 2006) ebbe il grande merito di attrarre l’attenzione degli addetti ai lavori sull’opera prima pubblicata (ripetiamo, a spese dell’autore) in tiratura limitata e senza alcun lancio pubblicitario. Da quel momento la strada si fece in discesa: il romanzo trovò una casa editrice di primo piano ed entrò nei finalisti del premio Nacional’nyj bestseller. Per Andrej Rubanov iniziò la carriera di scrittore: a oggi ha pubblicato undici romanzi, un romanzo breve, quattro raccolte di racconti e firmato sei sceneggiature cinematografiche.13 Malgrado si sia cimentato anche nella narrativa fantascientifica e nel fantasy, è ritenuto uno dei principali esponenti del cosiddetto nuovo realismo, concetto che egli peraltro rifiuta, considerando il realismo un genere né nuovo né vecchio, ma inesauribile e in continua evoluzione, come la realtà stessa (cfr. PRILEPIN 2012b).

Riportiamo il passo conclusivo della citata recensione di Danilkin, inerente al tema del presente articolo:

Nel sistema periodico della letteratura russa, proprio al centro, si era conservata una casella libera: quella del romanzo su un Eroe. C’erano sì dei facenti funzione: il sintetico Fandorin di Boris Akunin,14 piacevoli intellettuali di vario genere, simpatici furfanti e desperados. Ma erano tutti là in mancanza di meglio, mentre Rubanov – sbalorditiva combinazione di sentimento di dignità personale, scetticismo europeo, sanissimo patriottismo, esperienza eccezionale, tensione drammatica e abilità linguistica – è un eroe autentico.15

Aggiungiamo un elemento a nostro modo di vedere essenziale, grazie al quale lo scrittore Andrej Rubanov permette al protagonista-narratore Andrej Rubanov di emergere dalle 571 pagine del romanzo16 come un eroe autentico: la sobrietà.

La fabula è semplice, l’intreccio sostanzialmente lineare, se si eccettuano alcuni casi di analessi e prolessi (riferiti a episodi della vita precedente all’arresto o di quella successiva alla liberazione) sempre funzionali all’economia della narrazione. Come facilmente intuibile, sono del tutto assenti gli ‘effetti speciali’ del fantasy e le trovate ‘interattive’ del postmodernismo. D’altra parte, malgrado l’ambientazione possa giustificarne la presenza, mancano anche scene di violenza, perversione ecc. Intorno al protagonista, Andrjucha Aferist (l’Affarista), com’è conosciuto alla Matrosskaja Tišina, ruota un numero limitato di personaggi, ognuno caratterizzato in maniera magistrale, attraverso un tic verbale (per esempio, il capitano Svinec usa in ogni frase, quasi sempre a sproposito, l’espressione: «čto charakterno», «fatto caratteristico»), una piccola mania, un pensiero ricorrente (sempre piuttosto curioso) che non gli dà pace, una maniera particolare di sviluppare i ragionamenti. Anche in questo si nota come, oltre al talento, l’autore, nonostante sia un esordiente, possieda già una solida padronanza della tecnica narrativa. In un’intervista Andrej Rubanov ha affermato che nove dei dieci personaggi del suo romanzo hanno precisi prototipi reali: secondo una nostra personale supposizione, l’unico frutto della fantasia dell’autore dovrebbe essere Slava, lo smotrjaščij della camerata, che pare modellato intorno alla considerazione di Fëdor Dostoevskij secondo la quale la Russia sperperava nelle prigioni la sua gente migliore (cfr. DOSTOEVSKIJ 2018: 657). Come personaggio letterario Slava è in ogni caso memorabile. Giovanissimo (23 anni) ma posato, saggio e carismatico come un vecchio capotribù, fisicamente estenuato, ma dotato di un’intelligenza pronta e brillante, capace di penetrare ogni dettaglio, ogni sfumatura della vita della galera, di comprendere in pochi minuti la psicologia di ogni nuovo arrivato, lo smotrjaščij è animato da un senso altissimo di quella che egli evidentemente considera la propria missione: garantire che la camerata sia un microcosmo ordinato, secondo le norme non scritte dell’Obščij Chod (Cammino Comune), il codice di reciproca assistenza dei galeotti, la cui osservanza è in definitiva la condizione irrinunciabile per provare a salvare la vita, l’unico bene rimasto.

Evocato Dostoevskij, è forse opportuno precisare come Rubanov, manifestamente, non intenda dipingere un vasto affresco della vita del carcere né procedere a una classificazione dei detenuti secondo qualsivoglia criterio (psicologico, sociologico, morale ecc.). In Sažajte, i vyrastet l’ambiente e la popolazione carceraria, così come gli inquirenti e l’avvocato, esistono solo in quanto interagiscono con il protagonista. La vera materia della narrazione e delle riflessioni proposte al lettore è il tentativo di Andrej Rubanov di non crollare psicologicamente in un ambiente così diverso da quelli da lui conosciuti fino ad allora, il suo progressivo, salutare, piegarsi per non spezzarsi, la sua faticosa rinuncia a determinati pregiudizi (uno fra tutti: il valore commerciale dei capi di abbigliamento indossati) in base ai quali inizialmente valutava il prossimo, e il lento passaggio a parametri diversi, certo più adatti a quel particolare contesto, ma in ultima analisi anche essenziali e universali. Impietoso nei confronti di se stesso, della propria debolezza, della propria paura, della sopravvalutazione dei propri mezzi, Rubanov si compiace, con umana sincerità, ogni volta in cui dà prova di capacità di resistenza e prontezza di reazione. La scrittura precisa e incisiva, capace di sviscerare in modo chiaro e puntuale gli argomenti che stanno a cuore all’autore, senza indulgere in particolari truculenti, immerge quasi fisicamente il lettore nell’atmosfera di tensione al limite del sopportabile in cui il protagonista vive ogni momento del giorno e della notte in camerata. Tuttavia, per quanto possa apparire poco verosimile, la narrazione, serrata e capace di mantenere una costante carica emotiva, è percorsa da una corrente sotterranea di autoironia, che non si esprime nel linguaggio, ma nel succedersi degli eventi, paragonabile al mito di Sisifo. Tale meccanismo è stato notato dal compianto Aleksandr Garros, che così lo ha descritto:

L’intero testo consiste in una successione di situazioni in cui un eroe forte, energico, persino autocompiaciuto, si sforza di prendere il sopravvento sul mondo della prigione, che tende a spingerlo sul fondo. E ogni volta, proprio quando crede di esserci riuscito, – zac! – fulminea come il gesto di un esperto prestigiatore, una svolta della trama lo fa scendere di un altro livello, e l’eroe appare manifestamente goffo e ridicolo nella sua posa.17

Tuttavia, per quanto beffato ancora una volta dal destino, l’eroe ha la forza di incassare il colpo senza arrendersi. E, come nota il critico letterario Sergej Knjazev (1974):

Il lettore si identifica volentieri e senza fatica con il protagonista, simpatizza per lui, si preoccupa, soffre per lui […] Andrjucha è un ragazzo normale, come voi e me, come tutti […] un imbroglione, ma non un tagliagole […] come padre di famiglia non è granché, però quando finisce in carcere si preoccupa soprattutto per la moglie senza lavoro e per il figlio di un anno; in fin dei conti, tutti i suoi difetti ai nostri occhi sono scusabili e i suoi pregi affascinanti.18

Le citate osservazioni di Knjazev richiamano alla nostra memoria il fatto che il protagonista-narratore in nessuna circostanza e in nessun modo mostra di considerare il proprio status di carcerato come legittima conseguenza di un comportamento eticamente scorretto. Tale atteggiamento è del tutto congruo all’atmosfera di profonda e ostentata amoralità caratteristica della società russa degli Anni Novanta. Nessun ripensamento è peraltro rilevabile in un’intervista del 2013, in cui Rubanov rievoca quel particolare periodo:

Vedevamo che stavamo cogliendo un’opportunità; se si fossero verificate determinate circostanze, oggi saremmo miliardari. Eravamo cresciuti troppo alla svelta con quel giro di soldi, avevamo perso la testa. E sono contento che sia finita: se non mi avessero messo in prigione, probabilmente avrei smarrito ogni contatto con la realtà, me ne starei a Londra e penserei di avere preso per il culo dio.19

Piuttosto significativo, a nostro modo di vedere, è anche l’essenziale preambolo con cui l’autrice dell’articolo introduce la sua intervista, in cui non si fa alcun cenno alla carriera letteraria di Rubanov:

L’uomo d’affari Andrej Rubanov fu arrestato […] in strada, mentre stava uscendo dal suo ufficio nel centro di Mosca. Nel caso specifico si trattava di un’agenzia clandestina per il riciclaggio di denaro di dubbia provenienza. Occupazione tipica per un imprenditore degli Anni Novanta, quando il mondo degli affari in Russia era appena agli inizi.20

In definitiva, si può osservare un fatto paradossale: i reati finanziari commessi da Rubanov, giudicati severamente (Aferist è nomignolo dispregiativo) nell’ambiente dei detenuti, dove un’etica, per quanto rovesciata, esiste, al di là delle conseguenze giuridiche, da un punto di vista strettamente morale sono ampiamente tollerati oltre le mura della prigione, nel mondo esterno, dove riguardo alla realtà della Russia degli Anni Novanta vige un’implicita rinuncia all’applicazione di qualsiasi categoria etica.

Così come non dà segni di ‘ravvedimento’ e non recrimina sulle scelte fatte al momento della dissoluzione del mondo dove era cresciuto e ai cui valori era stato educato, l’io narrante Andrej Rubanov non stila un atto di denuncia contro le crudeltà del carcere e contro un sistema giudiziario profondamente corrotto, specchio di uno stato in mano a poteri criminali. E, come abbiamo già rimarcato, neppure ambisce a raccontare la vita del popolo russo in quell’universo parallelo che sono i luoghi di detenzione. A nostro avviso sarebbe dunque una forzatura fare rientrare per discendenza diretta Sažajte, i vyrastet in una secolare tradizione che ha avuto come rappresentanti, tra gli altri, Dostoevskij, Čechov, Solženicyn, Šalamov.

La parentela letteraria quasi automaticamente attribuita al romanzo dell’esordiente Rubanov al momento della pubblicazione è stata quella con i torrenziali ‘scritti dal carcere’ di Eduard Limonov (1943), e in particolare con Toržestvo metafiziki (Il trionfo della metafisica, 2005).21 Lo stesso Rubanov non nasconde la sua ammirazione per Limonov in quanto «grande maestro della parola»22. A nostro modo di vedere, a parte l’ambientazione carceraria e la tenacia del protagonista-narratore, si possono individuare affinità tra i testi di Limonov a cui si è accennato e Sažajte, i vyrastet nella forma memorialistica, nello stile plastico e lapidario della scrittura, nella lingua vigorosa, nella sicura padronanza delle tecniche narrative, tanto più sorprendente in Rubanov, tenendo conto del fatto che si tratta di un esordiente. Tuttavia gli orizzonti esistenziali dei due protagonisti-narratori e dei due autori di cui costituiscono la proiezione letteraria non potrebbero essere più diversi. Per lo scandaloso, famigerato Limonov la prigione e la febbrile attività di scrittura in stato di detenzione rappresentano probabilmente il coronamento di un processo di costruzione del proprio mito letterario ed extra-letterario iniziato fino dalla prima giovinezza. Per Rubanov ripercorrere attraverso la scrittura l’esperienza del carcere significa rivivere la propria graduale, definitiva maturazione come individuo e, nel contempo, inseguire l’antico sogno adolescenziale di diventare uno scrittore famoso (cfr. RUBANOV 2006: 48-49). Tale disparità di status, a nostro avviso, al confronto con la narcisistica auto-fiction di Limonov, gioca a favore del misurato testo di Rubanov, dove l’autocompiacimento è compensato dall’autoironia ‘sotterranea’ di cui si è detto. A questo proposito condividiamo pienamente la seguente considerazione di Aleksandr Garros:

Il personaggio Limonov basa la propria fermezza sull’ideologia, sulla riserva aurea del proprio mito personale, che in precedenza ha amorevolmente costruito e al quale deve restare fedele. Il personaggio Rubanov non ha nessun asso nella manica, ha solo il proprio ‘io’ individuale […]. Per questo risulta tanto più affascinante dal punto di vista umano e tanto più convincente sul piano letterario la sua guerra personale, nella quale già non perdere significa uscire vincitore. 23

Zachar Prilepin scopre in Rubanov un’ascendenza a prima vista (ma solo a prima vista) più opinabile, definendolo «il più sovietico, nel senso migliore, tra tutti gli scrittori oggi esistenti».24 Prilepin si riferisce a una posizione etica, idealistica, dalla quale fa derivare anche le scelte estetiche:

Rubanov, malgrado scriva una prosa molto individualistica (viene dagli Anni Novanta, da un ambiente dove tutti vendevano tutti), ha ereditato questo idealismo dello scrittore sovietico […]. La morale è al di sopra della convenienza. La verità è al di sopra dell’ironia.25

Zachar Prilepin che, al pari di Sergej Knjazev (cfr. KNJAZEV 2006: 173) definisce (fondatamente, secondo il nostro parere) Sažajte, i vyrastet il miglior libro sugli Anni Novanta, lo paragona, tra l’altro, a capisaldi della letteratura realsocialista quali Kak zakaljalas’ stal’ (Come fu temprato l’acciaio, 1934) di Nikolaj Ostrovskij (1904-1936) e Povest’ o nastojaščem čeloveke (Storia di un vero uomo, 1946) di Boris Polevoj (1908-1981). E, come a difendere l’ardito paragone tra la biografia di Andrjucha Aferist e quelle dei due fulgidi eroi (anche loro realmente esistiti) proposti per decenni come modello a milioni e milioni di giovani sovietici, conclude: «Quanto al fatto che il vero uomo sia cresciuto nel fango […] e l’acciaio sia stato temprato nella, scusate la parola, merda – cosa ci volete fare? Ogni persona vive nell’epoca che gli è toccata in sorte».26

La constatazione di Prilepin circa la natura «molto individualistica» della prosa di Rubanov è certamente condivisibile; aggiungeremmo però che, almeno per quanto riguarda Sažajte, i vyrastet, sarebbe difficile immaginare il contrario. Indipendentemente da quelle che possono essere le sue intenzioni, l’individualismo del protagonista-narratore risponde a un obiettivo stato di necessità. Il detenuto Andrej Rubanov è infatti completamente solo, non può contare su nessun tipo di aiuto esterno: abbandonato dal complice-capo, che lui considerava anche un amico, nel suo costante sforzo di resistenza al carcere non trova neppure il conforto dell’ideologia comunista e del mito del radioso avvenire, da cui attingevano energie morali gli eroi sovietici. E nulla, nel romanzo, autorizza a pensare che Andrjucha Aferist possieda il dono della fede religiosa, componente non secondaria, per esempio, della ieratica saggezza di Slava, lo smotrjaščij. L’eroe degli Anni Novanta riesce a non farsi annientare dal carcere sostanzialmente grazie a doti personali quali ostinazione, autocontrollo e senso della propria dignità. Con il concorso, in determinati frangenti, di una certa dose di fortuna.

E una volta riacquistata la libertà, per l’ex banchiere clandestino ed ex galeotto la soluzione più naturale sarebbe quella di fondersi completamente con l’epoca che gli è toccata in sorte, inseguendo il nuovo mito, quello dell’arricchimento rapido a ogni costo. Le significative esperienze maturate nel mondo degli affari e in quello della malavita (così contigui da sovrapporsi spesso e volentieri), unite all’intelligenza pronta, ne fanno un serio candidato alla posizione di miliardario. Ma probabilmente un concorso di fattori, quali il sogno adolescenziale di diventare un celebre scrittore, il senso della propria dignità personale sviluppato oltremodo in carcere, e forse persino qualche residuo di rigida morale sovietica, lo induce a cercare la propria identità e la propria realizzazione per altre, incerte e faticose vie, con un gusto della sfida che supera ogni esitazione:

Banchiere o saldatore; alcolista o astemio; scrittore o falsificatore di titoli di credito –
dal mio balcone guardo tutto intorno e in basso.
E davanti a me vedo l’Europa o l’Asia, la prigione o la libertà, la Sovdepija27 morta o la Russia viva.
Il libro è finito, signori.
Liberi tutti.28

Bibliografia

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Note

↑ 1 La definizione del realismo socialista quale metodo (metod) basilare della letteratura e della critica letteraria sovietica è contenuta nello statuto dell’Unione degli Scrittori Sovietici, approvato nel corso del Primo Congresso Pansovietico degli Scrittori Sovietici, tenutosi a Mosca dal 17 agosto al 1° settembre 1934. Cfr. Pervyj Vsesojuznyj s’’ezd sovetskich pisatelej. 1934, Stenografičeskij otčët, Moskva, 1934, p. 716.

↑ 2 A titolo esemplificativo, riportiamo alcuni semplici dati. La percentuale di popolazione vivente sotto il livello di povertà, passò dall’1,5% del 1988 al 49,7% del 1993 (Milanovic 1998: 186). La vita media, che nel 1990 era di 66 anni per gli uomini e 74,4 anni per le donne, nel 1993 scese rispettivamente a 62 e 69 anni. La popolazione della Federazione Russa, che nel 1991 ammontava a 148 milioni e 704 mila, alla fine del 1993 era già calata di oltre 500 mila unità. Nello stesso anno il numero dei bambini abbandonati fu stimato in 150 mila a Mosca e in oltre due milioni in tutta la Russia (RUBBI 2002: 174-175).

↑ 3 Однако, как ни странно, в те же годы появилась и целая генерация молодых реалистов […] Все они работали в жанре плюс-минус реализма, писали о современности, хранили верность поруганной гуманистической традиции и понемногу, исподволь, пытались говорить о таких странных вещах, как вера, почва, Бог (PRILEPIN 2012a). Le traduzioni in italiano sono dell’autore dell’articolo.

↑ 4 Di V. Ostrošenko sono stati pubblicati in Italia Testimonianze inattendibili, Roma, Voland, 1997 e Didascalie a foto d’epoca, Roma, Voland, 2004; di O. Pavlov Il caso Matjušin, Bologna, Meridiano Zero, 2014, Capitano della steppa, Bologna, Meridiano Zero, 2016 e Requiem per un soldato, Bologna, Meridiano Zero, 2017.

↑ 5 Il premio Russkij Buker (Booker), diretta emanazione del Booker Prize inglese, fu il primo premio letterario istituito da privati in Russia dopo il 1917. La prima edizione (1992) fu vinta da Mark Charitonov (1937).

↑ 6 Boris El’cin (1931-2007) annunciò le sue dimissioni in anticipo di pochi mesi sulla scadenza del mandato, e nella stessa occasione nominò Primo Ministro il direttore dei servizi di sicurezza, Vladimir Putin (1952), il quale sarebbe anche stato il suo candidato alle presidenziali del 2000. Putin diventò così Primo Ministro della Russia e, a causa del vuoto lasciato da El’cin, Presidente ad interim. Assunta questa carica, Putin garantì a El’cin, alla sua famiglia e al suo entourage una completa amnistia per i reati compiuti negli otto anni di presidenza.

↑ 7 Я повторяю заклинание: новый реализм! (ŠARGUNOV 2001).

↑ 8 A. GARROS-A. E. EVDOKIMOV, [Golovo]lomka, Sankt-Peterburg, Limbus Press, 2003. Il romanzo è stato pubblicato in italiano con il titolo Russian Psycho, Milano, Mondadori, 2005.

↑ 9 Traduzione italiana: La facoltà di cose inutili, Torino, Einaudi, 1979.

↑ 10 Einars Repše (1961) è stato Primo Ministro della Lettonia tra il 2002 e il 2004.

↑ 11 лучшего в мире университета (RUBANOV 2006: 25).

↑ 12 То что ты отрицаешь тюрьму – это очень хорошо. […] Но не забудь, братан, что тюрьма, в ответ, тоже станет тебя ненавидеть. Люто... (RUBANOV 2006: 228).

↑ 13 Di A. Rubanov sono stati pubblicati in Italia Lo psicoagente, Bologna, Meridiano Zero, 2014 e Clorofilia, Bologna, Meridiano Zero, 2015.

↑ 14 Erast Fandorin è una figura di investigatore ottocentesco creata da Boris Akunin, pseudonimo di Grigorij Čkartišvili (1956). I gialli colti che hanno come protagonista Erast Fandorin sono stati tradotti in molte lingue, tra cui l’italiano, pubblicati per i tipi di Frassinelli.

↑ 15 В периодической системе русской литературы прямо в центре сохранялась одна вакантная клетка – роман про Героя. На эту позицию находились местоблюстители – синтезированный акунинский Фандорин, разного рода приятные интеллигенты, симпатичные плуты и десперадо. Но все это было за неимением лучшего; тогда как Рубанов – это удивительное сочетание чувства собственного достоинства, европейского спептицизма, крайне здравого патриотизма, фантастического опыта, драматической напряженности и лингвистической компетентности – настоящий. (DANILKIN 2007: 14).

↑ 16 Andrej Rubanov, Sažajte, i vyrastet, Sankt-Peterburg, Limbus Press, 2006.

↑ 17 Весь текст – череда ситуаций, когда сильный, энергичный, целенаправленный, в полне даже любующийся собой герой пытается взять верх над утаптывающим его тюремным миром. Каждый раз ему кажется, что у него это получилось. И тут – щелк! – незаметный, как жест матерого фокусника, фабульный поворот опускает его еще на один уровень, и герой становится отчетливо смешон и нелеп в своей позе (GARROS 2006).

↑ 18 Читатель охотно и без труда идентифицирует себя с героем, сочувствует ему, беспокоится, переживает за него […] Андрюха — обычный парень, как вы, да я, да целый свет […] жулик — но не душегуб […] семьянин так себе — но, сев, в первую очередь волнуется о неработающей жене и годовалом ребенке; в общем, все его пороки в наших глазах извинительны, а достоинства привлекательны (KNJAZEV 2006: 173).

↑ 19 Видели, что ловим шанс, при определенных обстоятельствах сейчас были бы миллиардерами. Мы слишком быстро выросли на тех бешеных деньгах, потеряли голову. И я счастлив, что это прекратилось: если бы меня не посадили, то я, наверное, совершенно оторвался бы от реальности, сидел в Лондоне и считал, что поймал бога за жопу (REJTER 2013).

↑ 20 Бизнесмена Андрея Рубанова задержали […] на улице, когда он выходил из своего рабочего офиса в центре Москвы — а именно из подпольной конторы для обналичивания денег неясного происхождения. Типичное занятие для предпринимателя родом из девяностых, когда российский бизнес только начиналс (ibidem).

↑ 21 Nei poco più di due anni (2001-2003) di detenzione trascorsi in carceri (tra cui quello moscovita di Lefortovo, lo stesso in cui è stato detenuto Rubanov) e colonie penali russe in seguito a una condanna per possesso illegale di armi, Eduard Limonov (pseudonimo di Eduard Savenko) ha scritto migliaia di pagine, di cui sono disponibili in lingua italiana Libro dell'acqua, Padova, Alet, 2004 e Il trionfo della metafisica, Milano, Salani, 2013, opere entrambe riconducibili al genere più congeniale all’autore, quello della cosiddetta auto-fiction.

↑ 22 крупный мастер слова (PRILEPIN 2009: 63).

↑ 23 Лимонов-герой свою стойкость подпирает идеологией, золотым запасом любовно и загодя сконструированного личного мифа, которому надо соответствовать– герой-Рубанов ничего, кроме собственного ‘я’, в рукаве не держит […] Тем человечески обаятельнее и литературно убедительнее его личная война, в которой не проиграть -- значит уже победить (GARROS 2006).

↑ 24 «самый – влучшемсмысле – советскийписательизвсехнынесуществующих (PRILEPIN 2012a).

↑ 25 Рубанов при всем том, что пишет очень индивидуалистическую прозу (он из девяностых, я ж говорю, он из среды, где все друг друга продали), этот идеализм советского писателя унаследовал […] Мораль превыше целесообразности. Правд апревыше иронии (Ibidem).

↑ 26 А то, что настоящий [br] человек взрастал вмерзости […] а сталь закалялась в [br] каком-то, простите, дерьме – [br] ну так что поделаешь. В какое время человек попал – там и жил (ibidem).

↑ 27 Sovdepija; denominazione spregiativa coniata negli Anni Venti negli ambienti dell’emigrazione per indicare la Russia sovietica prendendo spunto dal neologismo «sovdep», abbreviazione di «sovet deputatov» («consiglio dei deputati»), uno degli organismi di governo locale creati nei primi anni del potere sovietico.

↑ 28 То ли банкир, то ли сварщик; то ли алкоголик, то ли трезвенник; то ли писатель, то ли фальсификатор коммерческих бумажек – я смотрю со своего балкона по сторонам и вниз.  И вижу перед собой – то ли Европу, то ли Азию; то ли тюрьму, то ли свободу; то ли мертвую Совдепию, то ли живую Россию. Книга окончена, господа. Все свободны (RUBANOV 2006: 571).

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482