Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Cura di sé e filosofia nelle lettere dal carcere di Václav Havel

Marco DAMONTE



Abstract

Italiano  | Inglese 

La traduzione in italiano dell'epistolario completo scritto in carcere dal dissidente cecoslovacco Václav Havel offre l'occasione per una valutazione del suo pensiero. Dopo aver discusso la ricezione dell'epistolario, se ne proporrà una adeguata contestualizzazione storica e filosofica, necessaria per una sua lettura. Il valore dell'epistolario non consiste nella formulazione di un pensiero filosofico originale. Piuttosto, nel linguaggio tipico della fenomenologia di Levinas, esso testimonia l'importanza della responsabilità che, assunta quale categoria antropologica fondamentale, permette il passaggio dal prendersi cura di sé al prendersi cura del mondo.




Nel 1983 vennero tradotte in italiano e pubblicate 16 lettere scritte dal dissidente cecoslovacco Václav Havel alla moglie Olga, durante il suo internamento in un istituto correzionale di primo livello. A quasi vent’anni di distanza, nel 2010, è stato edito l’epistolario completo composto da 144 lettere. In questo lasso di tempo, nel quale Havel è diventato presidente della Cecoslovacchia a seguito della Rivoluzione di Velluto (cfr. ZANTOVSKY 2014 e GELLNER 1992), sono usciti numerosi studi che permettono una adeguata contestualizzazione dell’intera corrispondenza. Il presente contributo intende rileggerle alla luce delle condizioni in cui sono state scritte, con l’obiettivo di farne emergere il valore filosofico. A differenza di quanto può apparire da una lettura frammentaria, Havel, negli anni del carcere, non matura un pensiero speculativo originale, ma, come vedremo in seguito, attinge dalla tradizione fenomenologica propria della cultura ceca e si serve della fenomenologia levinasiana per migliorare la sua condizione di persona, offrendo al lettore una guida alla cura di sé valida nei momenti di crisi, sia esistenziale, sia storica.

1. La ricezione del testo

Václav Havel nacque a Praga nel 1936 da una famiglia borghese e agiata, che, in seguito al colpo di Stato appoggiato dall’Unione Sovietica nel 1948, fu accusata dal partito Comunista di simpatie filo-tedesche e di collaborazionismo.1 Il dodicenne Václav incontrò difficoltà a proseguire gli studi liceali, e vide rigettata la domanda di accesso alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Praga, ma riuscì a seguire i corsi serali dell’Università Tecnica Ceca fino al 1957, che gli permisero di lavorare come macchinista in alcuni teatri, tra cui il Divadlo Na zábradlí dove rappresentò alcune delle sue prime opere, scritte dopo aver studiato drammaturgia per corrispondenza.2 A ventotto anni sposò Olga Šplíchalová (cfr. KRISEOVA 1993: 10-11), ragazza di origini proletarie. A causa della repressione seguita alla primavera di Praga, nel 1968 fu bandito dal teatro e iniziò un’intensa attività politica, culminata con l’adesione al manifesto Charta 77. Il suo attivismo gli costò controlli serrati da parte della polizia che culminarono nell’accusa di sovversione e nella relativa condanna a una pena di quattro anni e mezzo di reclusione da scontare in un istituto correzionale di primo livello. Tale pena fu comminata nell’ottobre 1979 dal Tribunale cittadino di Praga al termine di un processo penale che vedeva tra gli imputati sei firmatari di Charta 77 membri del Comitato per la difesa delle persone perseguite ingiustamente.3 Dal 4 giugno 1979, inizio della carcerazione preventiva, al 4 settembre 1982 (con trascrizione del 23 settembre), Havel scrisse 144 lettere tutte indirizzate alla moglie Olga, che furono prima diffuse attraverso samizdat, poi pubblicate in lingua originale nel 1985 dalla casa editrice Sixty-Eight Publishers di Toronto e infine tradotte nelle principali lingue europee (cfr. GOETZ-STANKIEWICZ 1992). In Cecoslovacchia, oltre a due edizioni dattiloscritte clandestine (Edice Expedice e Petlice), vennero pubblicate altre due edizioni (Atlantis, Brno 1990 e 1992; Torst, Praga 1999). Numerose furono le pubblicazioni parziali dell’epistolario (cfr. KRISEOVA 1993: 194-197), tra cui quella diffusa con il titolo di Meditazioni da Heřmanice, curata da Ivan, fratello di Havel, nel 1981, quando il suo autore era ancora detenuto e che conteneva brani dalle lettere dalla 1 alla 100. Degna di nota la curatela inglese del critico letterario dissidente Jan Lopatka,4 il quale, nella selezione del materiale da pubblicare, seguì il suo criterio di autenticità letteraria (TUCKER 2000: 131), il che permise di conoscere gli aspetti più umani del detenuto Havel, compresi i suoi dolori per le emorroidi, con grande sconcerto dei recensori dell’opera, concentrati unicamente sugli aspetti socio-politici. In Italia, il Centro di Studi Europa Orientale, con sede a Bologna, nel 1983 editò le lettere dalla 129 alla 144,5 le quali formano un insieme piuttosto unitario, sia dal punto di vista stilistico che tematico, chiamato ciclo meditativo. La prefazione a questa edizione fu scritta da Sidonius, pseudonimo dietro il quale si cela un dissidente di cui non viene rivelato il nome. Fin dal titolo, Consolatio philosophiae hodierna, egli presenta il ciclo meditativo come una versione contemporanea dell’opera di Boezio De consolatione philosophiae. L’analogia più evidente consisterebbe nel fatto che entrambi i testi, scritti in carcere, non sono tanto la testimonianza di una esperienza dei loro rispettivi autori, quanto un rendersi manifesta della Filosofia stessa. In ambedue i casi il lettore sarebbe testimone «di un vero ortus philosophiae, di una nascita e origine dell’amore alla sapienza» (HAVEL 1983: 13). Havel pertanto proporrebbe un cammino dal carattere redentivo e dagli esiti religiosi:

l’educazione dell’anima a cui la Filosofia conduce ci libera dai lacci delle visioni del mondo, delle teorie e ideologie, e ci volge alla verità, che solo Dio può rivelarci fino in fondo. E questa è davvero una grande speranza, che la Filosofia-Consolatrice ci infonde, rendendoci, nella prigione di questo mondo, testimoni dei misteri divini, testimoni della verità che ci fa liberi (HAVEL 1983: 38).

Nel 2010, con l’intento di ricordare il ventennale della Rivoluzione di Velluto, l’editore Santi Quaranta ha proposto una traduzione del testo ceco più completo, intitolato Dopisy Olze, che fa riferimento alle edizioni del 1985, 1990, 1992 e 1999. L’epistolario di 144 missive è seguito dalla trascrizione dell’art. 12 della Legge n. 59 del Codice di esecuzione della pena in reclusione che regolamenta la corrispondenza e le visite in un istituto detentivo ceco, dalla testimonianza di Jiří Dienstbier, suo compagno di prigionia poi Ministro degli Esteri (cfr. WHIPPLE 1991), e da alcuni documenti, tra cui le informazioni sull’arresto e sul processo a Havel compreso il testo della sua stessa difesa.6 Pur non essendo un’edizione critica, l’accesso all’intero carteggio ri-orienta la lettura del ciclo meditativo. Le recensioni di quest’opera si sono soffermate su due aspetti. Il primo riguarda una presunta religiosità di Havel, e comporta l’interrogarsi circa la possibilità di conciliare il suo essere agnostico, non credente, anticomunista, con i puntuali riferimenti al cristianesimo (SCAVO 2010), oppure suggerendo come tali aspetti religiosi del suo pensiero siano da intendersi in maniera generica come una ricerca del significato dell’esistenza (BONAGURO 2010). In entrambi i casi si insiste sulla richiesta di Havel alla moglie di fargli avere Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger, in realtà annoverato tra i filosofi moderni insieme a Martin Heidegger (HAVEL 2010, n. 122 del 3 aprile 1982: 358), trascurando invece il valore di archetipo che Havel attribuisce esplicitamente ai simboli religiosi cristiani (HAVEL 2010, n. 144 del 4 settembre 1982: 434). Il secondo suggerimento di lettura propone una chiave antropologica secondo la quale «Havel cerca di far emergere – da filosofo dilettante ma talentuoso qual è – la sua concezione filosofica, in cui emerge con chiarezza una formazione fenomenologica filtrata dalla lettura di Heidegger e di Levinas e collocata all’interno di un orizzonte umanistico-cristiano» (MALETTA 2010: 1), il che avrebbe un esito politico nella misura in cui, attraverso la figura del fanatico, sarebbe in grado di individuare quella «genealogia antropologica del totalitarismo in cui è centrale il legame tra entusiasmo, razionalismo e violenza» (MALETTA 2010: 7). Avere accesso alle 144 lettere permette un studio diacronico delle riflessioni di Havel, ma soprattutto ne rispetta l’intento:

le mie meditazioni non sono, né devono intendersi come riflessioni filosofiche, né tanto meno come un sistema filosofico, volto ad arricchire il patrimonio del genere umano in questo ambito. È piuttosto la testimonianza di un uomo, me stesso, in una determinata situazione, la testimonianza della peculiarità e della direzione delle sue rimuginazioni interiori. È piuttosto e soltanto (forse) un documento esistenziale (in forma poetica), un’impronta in divenire del flusso della mia vita interiore. Sono garante di me stesso come persona che è soggetta a certe forme di afflizione, ma non per le mie formulazioni come tali; sono pronto in ogni momento a ritirare o modificate qualunque parte di esse, senza tormentarmi e in piena coscienza (HAVEL 2010, n. 110 del 9 gennaio 1982: 310-1).

2. Il contesto storico-filosofico

Non è semplice determinare quali siano i pensatori a cui si riferisce Havel: gli echi presenti nelle lettere rimandano, tra gli altri, a Ernst Cassirer (HAVEL 2010, n. 5 del 21 luglio 1979: 19), Jean-Paul Sartre (HAVEL 2010, n. 9 e 134, rispettivamente del 8 settembre 1979 e del 26 giugno 1982: 26 e 394), Thomas Mann (HAVEL 2010, n. 10 del 22 settembre 1979: 28), Joris-KarlHuysmans (HAVEL 2010, n. 11 del 6 ottobre 1979: 35), Franz Kafka (HAVEL 2010, n. 13 e 55, rispettivamente del 3 novembre 1979 e del 15 novembre 1980: 46 e 144), il filosofo ceco Milan Machovec (HAVEL 2010, n. 17 del Capodanno 1979: 65), Fëdor Dostojevskij (HAVEL 2010, n. 25 del 8 marzo 1980: 79), Albert Camus (HAVEL 2010, n. 51 del 19 ottobre 1980: 132), Werner Karl Heisenberg (HAVEL 2010, n. 67 del 13 febbraio 1981: 184), Martin Heidegger (HAVEL 2010, n. 92, 121 e 139 rispettivamente del 6 settembre 1981, del 27 marzo 1982 e del 31 luglio 1982: 260; 354-5; 413), Immanuel Kant (HAVEL 2010, n. 95 e 110 rispettivamente del 26 settembre 1981 e del 9 gennaio 1982: 268; 309), Georg Hegel (HAVEL 2010, n. 108 del 26 dicembre 1981: 304), Aristotele (HAVEL 2010, n. 115 del 13 febbraio 1982: 333), il personaggio biblico Giobbe (HAVEL 2010, n. 115 del 13 febbraio 1982: 334), Emmanuel Levinas (HAVEL 2010, nn. 122-142 dal 3 aprile al 21 agosto 1982: 356-428), Edith Stein (HAVEL 2010, n. 126 del 1 maggio 1982: 364) e forse un rimando implicito ad Arthur Schopenhauer (HAVEL 2010, n. 120 del 20 marzo 1982: 351-4).7 In sintesi:

molti pensatori – da Klíma a Husserl, da Kant a Camus, da Hegel a Šfařík – mi piacciono e mi dicono qualcosa (chi più, chi meno), cosa del tutto accidentale, naturalmente; se ciò avesse un senso (e nel complesso non ne ha), si potrebbe verificare con relativa precisione la ragione per la quale alcune idee mi sono più vicine di altre, perché su alcune cose ho un’opinione molto precisa e nessuna opinione su altre, e perché molte cose mi lasciano totalmente indifferente. Tale analisi rivelerebbe di sicuro qualcosa del mio orientamento interiore generale e certamente della mia “identità”, ma difficilmente potrebbe definire il mio credo ideologico, o inquadrarmi in una posizione precisa (se qualcuno poi, riesce a inquadrarmi, nonostante tutto, questo è affar suo). L’avversione per strutture di opinioni preconfezionate (o meglio, per la loro passiva accettazione) è così marcata che, se in un determinato contesto scelgo o adotto un certo termine o una categoria di pensiero, la volta successiva mi sforzo, per quanto possibile, di evitarlo, tale è il mio timore che un concetto utile o significativo possa gradualmente divenire una mera formula magica che non solo non aiuterebbe a spiegare la realtà, ma finirebbe per oscurarla (HAVEL 2010, n. 110 del 1 maggio 1981: 222).

Da un punto di vista quantitativo, il precedente elenco mostra l’interesse di Havel per la fenomenologia, da cui ammette di essere stato affascinato in gioventù più per l’atmosfera che per qualche tesi particolare, e che ritiene essere quella corrente filosofica moderna capace di cambiare il modo di inquisire la realtà (HAVEL 2010, n. 65 del 24 gennaio 1981: 178). Il ricorso al linguaggio fenomenologico nasce dall’esigenza di rispondere a tono a una lettera del fratello Ivan che conteneva proprio un passaggio sulla fenomenologia (HAVEL 2010, n. 52 del 27 ottobre 1980: 133-4), ma resta una costante in tutte le lettere successive, con un incremento dal maggio 1982, quando Havel riceve la trascrizione da parte del fratello di Senza identità8 di Levinas.

L’interesse di Havel per la filosofia può essere compreso solo in un più ampio contesto. Mi riferisco oltre che ai suoi interessi intellettuali, alla sua adesione a Charta 77, una dichiarazione stesa alla fine del 1976 per chiedere formalmente al governo cecoslovacco di firmare l’atto conclusivo della Convenzione sui Diritti Umani stilato a Helsinki nel 1975. Tale adesione implicò la conoscenza, la condivisione e il contributo a quella particolare impostazione filosofica di matrice fenomenologica che Jan Patočka aveva proposto quale fondamento speculativo per la dissidenza e per l’azione politica (cfr. KRISEOVA 1993: 108-113).9 Gli intellettuali cecoslovacchi, fin dal Diciannovesimo secolo, avevano messo a tema la relazione tra filosofia e politica per riflettere sulla loro identità e sulle loro aspirazioni nazionali a fronte dell’universalismo propugnato dall’Impero Asburgico (cfr. TUCKER 2000: 8-9). Nel secondo dopoguerra l’approfondimento della fenomenologia da parte dei dissidenti fu dovuto non solo a ragioni contingenti, quali il fatto che Edmund Husserl fosse moravo di nascita, oppure che in Cecoslovacchia la fenomenologia fosse diventata dominante negli anni Sessanta del secolo scorso, o ancora perché essa era neutrale sotto il profilo politico,10 ma per motivazioni teoretiche: essa proponeva un attento scrutinio della coscienza individuale capace di prendere le distanze dall’oggettivizzazione della persona; considerava il mondo pre-oggettivo della coscienza presupposto del punto di vista scientifico, allontanandosi pertanto dal materialismo e dalla presunta scientificità del marxismo; evitava di ridurre l’essere umano a homo faber e a ingranaggio del progresso storico. Insomma «la fenomenologia si presentava come un metodo radicale di indagine che costituiva una rivolta della coscienza individuale contro il sistema di una ideologia alienante» (TUCKER 2000: 10).11 Un’altra fonte privilegiata dei dissidenti era la filosofia platonica interpretata da Patočka in chiave anti-totalitaria e a sostegno dei diritti umani.12 Non a caso la morte di Patočka durante le torture subite in carcere è stata associata a quella di Socrate, la presidenza di Havel al tentativo platonico di influenzare il governo di Siracusa e la sua precedente detenzione come un trovarsi nella caverna platonica della Repubblica (cfr. TUCKER 2000: 17 e 88).

Senza indugiare nella visione politica di Havel,13 sulla ricostruzione della sua filosofia (cfr. REZEK 1991) e sulla terminologia da lui assunta,14 va ricordato che la sua domanda filosofica centrale riguardava il significato dell’esistenza umana, la cui autenticità, ormai persa, deve essere recuperata. La ricerca dell’autenticità passa dal prendere coscienza di vivere in una situazione di auto-alienazione e dal cercare di riappropriarsi di se stessi e del vero significato della propria vita a livello sia individuale, sia sociale, dove vero assume un’accezione che oscilla tra la posizione di Heidegger e quella di Platone (cfr. MATUŠTÍK 1993). Questa autenticità porta a farsi carico della nozione di giustizia, mutuata da Totalità e Infinito di Levinas e si traduce in una etica del discorso debitrice, da un lato, alle posizioni etiche di Martin Buber e, dall’altro, alle proposte politiche di Karl OttoApel e Jürgen Habermas, formulate con gli strumenti concettuali presenti nella filosofia del linguaggio di Charles Peirce. Una vita autentica sarebbe la condizione per contribuire a una filosofia della storia, così come concepita da Hannah Arendt in La condizione umana, in un contesto, però, dove la religione viene considerata una filosofia per le masse (TUCKER 2000: 60). Per Havel un’azione può dirsi giusta non se raggiunge risultati favorevoli (utilitarismo), né se rispetta un dovere universale a cui attenersi a prescindere dalle circostanze (deontologismo), ma solo se compierla è essenziale per un essere davvero umano, cioè se costituisce lo scopo genuino della vita. Peculiare della speculazione resta dunque il suo socratico ruolo di cura dell’anima (TUCKER 2000: 16 e 31), che si manifesta in una vita pubblica condotta secondo criteri di libertà, verità e giustizia e in una dimensione interiore di costante auto-formazione, anche, e soprattutto, quando ciò comporta il sacrificio accettato in piena consapevolezza. Ciò, per molti firmatari di Charta 77, significava fedeltà al motto scrivi un poema e non emigrare (TUCKER 2000: 123) che Havel fece proprio accettando il carcere e rifiutando un viaggio studio negli Stati Uniti per il timore che non avrebbe più avuto il permesso di tornare in Cecoslovacchia (cfr. HAVEL 2010, n. 9 del 8 settembre 1979: 134).15

3. Le lettere e il loro pre-testo

Havel vive dunque l’esperienza del carcere come momento di autoformazione. L’epistolario completo mostra il suo sforzo di considerare la detenzione un pretesto da sfruttare al meglio. Eccone le principali componenti.

Innanzi tutto il destinatario. Quello prossimo è la moglie Olga, rimasta nel mondo e per questo inafferrabile, come nascosta dal sipario di un palcoscenico, caratterizzata nella sua quotidianità con le sue piccole pigrizie, ma a tratti descritta come un personaggio di un teatro indefinibile e sorprendente. L’appellativo più ricorrente è quello scherzoso di brontolona (cfr. HAVEL 2010, n. 15, 16, 31 e 80 rispettivamente del 1 dicembre 1979; del 15 dicembre 1979; del 27 aprile 1980 e del 16 maggio 1981: 57, 60, 88 e 227) che mostra la vena umoristica, pur espressamente vietata dal regime carcerario, con cui Havel tesse i suoi scritti. Il rimprovero più frequente riguarda invece il numero di lettere inviate, considerato esiguo, la scarsità di notizie che contengono e il limitato impegno a vincere la sua idiosincrasia per la scrittura (cfr. HAVEL 2010, n. 7 del 14 agosto 1979: rispettivamente 75, 76, 83, 86). Le raccomandazioni che il marito le rivolge sono del seguente tenore:

scrivimi come sono fiorite le rose e come stanno crescendo quelle piante speciali che abbiamo seminato e piantato. SII ALLEGRA E SERENA, VIVI IN MANIERA POSITIVA E SOCIEVOLE, ESEGUI COSCIENZIOSAMENTE I COMPITI CHE TI SONO STATI AFFIDATI, NON INDIGNARTI PER COSE CHE NON LO MERITANO, PENSAMI, INCROCIA LE DITA PER ME E CERCA DI MANTENERE BUONI RAPPORTI CON TUTTI (HAVEL 2010, n. 7 del 14 agosto 1979: 22, maiuscoletto nell’originale).

Vi è poi un destinatario remoto, presente in quanto Havel sapeva, o almeno sospettava, che i suoi scritti circolavano all’estero. Ciò rendeva ragione dell’inasprirsi della censura e della rigidità del regime carcerario, ma anche del permesso a continuare a scrivere lettere, la cui cessazione avrebbe destato sospetti (HAVEL 2010: 444). A questo destinatario remoto Havel vuole spiegare che un dissidente non è la caricatura fornita dai giornalisti occidentali, cioè non è semplicemente il cittadino di uno stato non democratico che si ostina a esprimere le sue opinioni, ma è «l’attitudine esistenziale di una persona che agisce come crede sia il suo dovere» (TUCKER 2000: 116).

L’ambiente del carcere viene descritto come un mondo autonomo, addirittura favorevole, dove l’assenza dei filtri presenti nel mondo esterno rende particolari i rapporti tra detenuti:

«mi sono reso conto di un’altra cosa strana, ossia che il mondo qui dentro ha in sé molte più verità del mondo all’esterno. Le persone e le cose in questo posto si manifestano per come sono veramente. La menzogna e l’ipocrisia sono assenti (HAVEL 2010, n. 5 del 22 luglio 1979: 18)».

Infine, per comprendere la genesi di ogni singola lettera, basti questa testimonianza:

fra le prime cose che l’educatore ci aveva proibito c’era la scrittura. Il divieto valeva anche per gli appunti. Si diceva che dopo la liberazione saremmo stati milionari. Su ogni nostro tentativo di intraprendere la strada di una carriera milionaria pendeva la minaccia di una ricompensa meno simpatica, ossia trenta giorni di isolamento. Ci rimanevano soltanto le lettere da scrivere a casa. Secondo il regolamento, una lettera di quattro pagine alla settimana. Si poteva scrivere di cose personali o familiari. Non della pena. [...] Era necessario trovare un posto in cui scrivere e il tempo per farlo. Durante i primi mesi riuscivamo a scrivere le lettere in compagnia, nella “sezione di studio” dove alloggiavamo, finché il nostro educatore decise con un urlo che eravamo nemici di classe e che tutte le rivolte si preparavano nelle carceri criminali. Si trattava, per la maggior parte, di rubare attimi – di sabato o domenica fra la colazione, il cinema obbligatorio, il pranzo, la conta e il telegiornale, fra le pulizie e le scocciature di tutti i tipi di cui si componeva la finzione della rieducazione, in una stanza dove gli uni russavano, gli altri litigavano, altri ancora prendevano droghe e alcuni venivano alle mani – e imparare a riempire le quattro pagine della carta da lettera con un testo di un qualche senso che descrivesse quanto più possibile la situazione e lo stato del pensiero e non risvegliasse eccessivamente l’ira dei censori (HAVEL 2010: 442-443).

A quanto descritto deve essere aggiunto il divieto di appuntarsi alcunché e di trascrivere le lettere inviate. Per converso, le lettere ricevute dovevano essere riconsegnate ogni volta che giungeva una nuova missiva (HAVEL 2010, n. 52 del 27 ottobre 1980: 134). Ciò, unito ai ritardi nelle consegne, al silenzio circa ciò che veniva censurato in entrata e in uscita, alla perdita di corrispondenza dovuta a casi fortuiti o a trasferimenti non tempestivamente dichiarati, rendeva complesso mantenere un filo rosso di natura speculativa.

4. Sull’epistolario completo

Havel entra in carcere con grande lucidità: sa come comportarsi (cfr. KRISEOVA 1993: 134-137 e 167-172), ma sa che si tratta di un carcere duro, a differenza del suo secondo breve periodo di prigionia dell’anno precedente. Allontanata ogni idea di suicidio e, anzi, impegnato in una progettualità che eviti la depressione, definisce il suo atteggiamento vicino al fatalismo (inteso come mera mancanza di ribellione) e improntato alla serenità. La progettualità si concretizza in un tentativo di migliorarsi, in un mettersi alla prova:

l’incessante problematizzazione dell’io è l’altra faccia della “testardaggine”. Sarei felice di far rivivere tutto questo in me. Probabilmente ti sembrerà strano che proprio il carcere sia lo strumento per attuare questa ricostruzione dell’io, ma sento davvero che, sciolto da tutti quei legami con i quali io stesso mi sono incatenato, potrei liberarmi interiormente e acquisire un nuovo controllo di me stesso. [...] Non voglio cambiare me stesso, ma voglio essere un me stesso migliore (tutto ciò ricorda un po’ la speranza che accompagna in prigione gli eroi di Dostoevskij – anche se in me non è presente in maniera così patetica, assurda o religiosa) (HAVEL 2010, n. 13 del 3 novembre 1979: 41).16

Il primo passaggio consiste nel distacco e nell’essenzializzazione dei propri bisogni. Emerge una tensione. Da un lato, il lungo elenco di oggetti richiesti alla moglie in vista del campo di lavoro dove dovrà saldare lamiere zincate (cfr. HAVEL 2010, n. 15 del 1 dicembre 1979: 55); dall’altro, una concentrazione su se stesso:

LA SPERANZA È UNA DIMENSIONE DELL'ANIMA. Non è al di fuori di noi, ma in noi. Quando la perdi devi cercarla nuovamente dentro di te e nelle persone che ti sono vicine – non negli oggetti o in ciò che eventualmente accade (HAVEL 2010, n. 14 del 19 novembre 1979: 53, maiuscoletto nell’originale).

Tale concentrazione non è un ripiegamento, perché resta costante e forte il bisogno di comunicare (HAVEL 2010, n. 13 del 3 novembre 1979: 41 e n. 44 del 31 agosto 1980: 113) e di interagire con il mondo, in una accezione fenomenologica (cfr. HAVEL 2010, n. 16 del 15 dicembre 1979: 60). Il pericolo è quello di rassegnarsi, perdere il senso della vita, cedere alla tentazione del Nulla:

ho conosciuto persone intelligenti e rispettabili, segnate, a mio avviso, da un destino tragico e ineluttabile: si sono inacerbiti, hanno preso a odiare l’umanità e il mondo intero e hanno perso la fede in tutto. [...] Questo significa non avere attenzione per nessuno, salvo se stessi, occuparsi solo di sé e vivere la propria vita, per quanto possibile, quietamente e senza dare nell’occhio (HAVEL 2010, n. 96 del 3 ottobre 1981: 270).

Proprio per perseverare nel suo intento, Havel si ingegna a scrivere «una specie di saggio minimo sulle radici metafisiche della responsabilità dell’uomo» (HAVEL 2010, n. 38 del 15 luglio 1980: 102) che culmina in un afflato vagamente religioso:

in questo luogo, volenti o nolenti, ci si pone spesso la domanda se tutto abbia un senso e quale esso sia. Più ci rifletto, più mi rendo conto che non troverò una risposta ultima e definitiva nelle cose esteriori che dipendono dalle pseudoinformazioni: nessuna informazione è in grado di dare una risposta. Posso ottenerne una positiva solo e unicamente in me stesso, nella mia fede universale nel significato delle cose, nella speranza. [...] Sin dall’infanzia sento che io non sarei me stesso, un essere umano, se non vivessi in continua e composita tensione verso questo mio “orizzonte”, sorgente di significato e di speranza; e non sono sicuro se, dalla giovinezza in poi, si sia trattato “dell’esperienza di dio” o meno. (HAVEL 2010, n. 41 del 7 agosto 1980: 110).

Raggiunta una «corretta gerarchizzazione delle varie attività e inattività dal punto di vista dell’armonia psicologica, biologica e neurologica» (HAVEL 2010, n. 47 del 21 settembre 1980: 122), manifestata nella ritualità quotidiana del prepararsi e sorseggiare un tè che cura, riscalda, tiene svegli, ha una funzione sublimante, simboleggia il privato, rappresenta il mondo della libertà (cfr. HAVEL 2010, n. 48 del 27 settembre 1980: 125-127) e sollecitato dalla lettera n. 25 del fratello Ivan, Havel, memore della sua passione giovanile per l’esistenzialismo e per la fenomenologia, mutua il linguaggio di quest’ultima per proseguire le sue riflessioni. Per lui la fenomenologia consiste nel «privare i fenomeni dai loro pseudosignificati. Svelarne l’assurdità e così dischiuderne la domanda sul significato reale» (HAVEL 2010, n. 52 del 27 ottobre 1980: 135). Sulla scorta di Patočka viene analizzato il fenomeno “casa”, da intendersi come «un certo orizzonte concreto al quale si fa riferimento» (HAVEL 2010, n. 52 del 27 ottobre 1980: 135) e che, nella situazione carceraria, si connota come assenza di libertà (cfr. HAVEL 2010, n. 55 del 15 novembre 1980: 147). La riflessione sul fenomeno casa permette di definire l’essere umano, il quale «ha la capacità di rappresentare a se stesso cose che non vede o percepisce direttamente» (HAVEL 2010, n. 60 del 21 dicembre 1980: 156). Questa capacità connota l’intera esistenza umana ed è indice di immortalità:

l’esistenza umana non è semplicemente qualcosa che è stato; è un’“immagine del mondo”, un “modo d’essere del mondo”, una “sfida al mondo”, e come tale – così mi sembra – forma necessariamente un nodo davvero speciale nel tessuto dell’essere (HAVEL 2010, n. 60 del 21 dicembre 1980: 159).

L’esistenza umana è legata all’identità personale e consiste nella responsabilità:

nelle mie riflessioni si è accresciuta l’importanza della nozione di responsabilità umana, che ha cominciato ad apparirmi, sempre più nettamente, come un punto fondamentale dal quale ogni identità cresce, è sostenuta e cade; è la base, la radice, il centro di gravità, il principio costruttivo o l’asse portante dell’identità dell’uomo; qualcosa come “l’idea” che ne determina il grado e la forma; è il mastice che la tiene legata insieme e che, quando si secca, comincia irreversibilmente a disgregarsi e ad andare in polvere (perciò ti ho scritto che il mistero dell’uomo è il mistero della sua responsabilità) (HAVEL 2010, n. 62 del 2-6 gennaio 1981: 164-166).

La responsabilità è «un presupposto di “giustizia assoluta”, un accordare significato assoluto. È chiaramente un’esperienza spirituale suprema» (HAVEL 2010, n. 95 del 26 settembre 1981: 269) capace di rivoluzionare la posizione kantiana, nella misura in cui fonda la coscienza e fa compiere il bene senza alcun vantaggio. Considerando il carcere «una buona scuola di autocontrollo» (HAVEL 2010, n. 66 del 31 gennaio 1981: 180), Havel desidera valutare il suo grado di responsabilità e inizia a scrivere di sé, descrivendo prima tre stati fisici (sentirsi bene, essere malato e non sentirsi bene pur non essendo malato) e poi «otto stati d’animo cattivi e sette buoni» (HAVEL 2010, n. 68 del 15 febbraio 1981: 187).

L’interrogarsi circa l’essere umano continua ad essere parte di un domandare più vasto circa il senso della vita (cfr. HAVEL 2010, n. 91 del 29 agosto 1981: 257). Lo sforzo di cercare attivamente tale senso cede, infine, il passo a un riconoscimento e all’accettazione di una manifestazione (HAVEL 2010, n. 99 del 24 ottobre 1981: 279):

molte volte nelle mie lettere ho fatto cenno alla convinzione che il presupposto di qualcosa di stabile, con il quale si relazioni tutto ciò che è fugace, una sorta di “orizzonte assoluto”, di fronte al quale si dipani tutto ciò che è effimero, si radica molto profondamente nell’attitudine del nostro modo di guardare e di comportarsi (HAVEL 2010, n. 94 del 19 settembre 1981: 265).

Alla luce della responsabilità, la cura di sé esige di diventare un prendersi cura del mondo, un farsi carico di ciò che esiste, condizione affinché l’essere umano possa dirsi persona:

La persona che ha perso completamente il senso della vita vegeta e non le importa di farlo [...]. Tutto ciò che di significativo c’è nella vita, benché possa assumere la forma più drammatica dell’interrogazione e del dubbio, si distingue per il suo trascendere, in qualche modo, l’esistenza umana – al di là dei limiti della mera “cura di sé” – per andare verso le altre persone, la società, il mondo. Soltanto guardando fuori “da sé”, occupandosi di cose delle quali, in termini di pura sopravvivenza, non dovrebbe affatto preoccuparsi, ponendosi continuamente le domande più diverse, gettandosi ogni volta nella mischia con l’intenzione di far valere la propria voce, solo così un uomo diventa una persona reale, creatore “dell’ordine dello spirito”, in grado di compiere un miracolo: ricreare il mondo (HAVEL 2010, n. 96 del 3 ottobre 1981: 272-273).

Il non conoscere né il senso della vita, né il mistero dell’essere, ma il ritrovarsi ineluttabilmente a interrogarsi sul primo, il rendersi conto di essere radicati nel secondo e il desiderare entrambi senza poterli possedere, così come la tensione dell’essere umano tra la sua dimensione animale e il suo afflato spirituale, comportano un problema di linguaggio: «comprensione ed espressione sono inseparabili fra loro: riconosco il mio argomento soltanto mentre tento di dargli un’espressione adeguata» (HAVEL 2010, n. 100 del 31 ottobre 1981: 281). Tale questione offre l’occasione per considerare il valore del linguaggio filosofico,17 per ricordare il suo entusiasmo verso il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Eugène Ionesco e per sperimentare la metaforicità delle più recenti scoperte fisiche sui neutrini e sull’anti-materia (cfr. HAVEL 2010, n. 113 del 30 gennaio 1982: 324-325). Se la scienza promuove questa apertura all’Essere, la tecnica assurta a valore assoluto è, invece, la cifra di quella chiusura alla metafisica che determina la crisi dell’epoca moderna e toglie speranza al mondo contemporaneo(cfr. HAVEL 2010, n. 118 del 6 marzo 1982: 344).

Dalla primavera del 1982, la cura di sé implica un prendersi cura del mondo, mondo nel quale Havel comincia a sperare di poter tornare. Per questa ragione prepara Olga a ricevere un nuovo ciclo di lettere (inizialmente dovevano essere tredici), in cui le sue riflessioni sarebbero state riprese in maniera «più agile e meglio organizzata» (HAVEL 2010, n. 128 del 15 maggio 1982: 369) grazie al ricorso a Levinas quale uomo che è stato in prigione(cfr. HAVEL 2010, n. 127 del 8 maggio 1982: 367).18

5. Una rilettura del “ciclo meditativo”

Il “ciclo meditativo” inizia con la lettera 129 del 22 maggio 1982, in cui la nascita dall’utero materno diventa paradigmatico di quell’esperienza di distacco che caratterizza il mistero di ogni singolo essere umano. Su tale gettatezza nel mondo (termine tecnico mutuato da Levinas che indica la fonte della responsabilità dovuta al trovarsi in una situazione non scelta) Havel insiste anche nella lettera 130 della settimana successiva, dove descrive una metereologa che, leggendo le previsioni durante il telegiornale, si accorge della mancanza del segnale audio e per questo va in panico e rimane annichilita (HAVEL 2010: 378) su come comportarsi, proprio come ogni persona che si ritrova nel mondo. La tragicità di tale scena, in cui la mano del drammaturgo prende il sopravvento, non è la ragione scatenante dei temi affrontati nel ciclo meditativo, bensì, alla luce di quanto emerso nel paragrafo precedente, ritengo che, grazie alla sua formazione in carcere, Havel consideri questo incidente televisivo esemplare della condizione umana e gli offra l’occasione per riproporre le sue riflessioni in un linguaggio mutuato da una metafisica dell’essere connotata in senso esistenziale:

l’orientamento verso l’Essere come stato della mente può essere inteso anche come fede: una persona orientata verso l’Essere crede intrinsecamente nella vita, nel mondo, nella moralità, nel significato delle cose e in se stessa. Il suo rapporto verso la vita è permeato di speranza, stupore, umiltà e rispetto istintivo per il suo mistero (HAVEL 2010, n. 141 del 14 agosto 1982: 419-420).

Nella stessa lettera viene individuata la degenerazione della fede nel fanatismo, alla base della crisi dell’epoca contemporanea:

che cos’è il fanatismo? Direi nient’altro che questa fede reificata, mistificata, feticizzata e perciò estranea a se stessa […]. Al suo inizio vi è – come nel caso di un autentico orientamento verso l’Essere, anzi forse in maniera assoluta – un senso di “responsabilità verso tutto”, tanto più illimitato quanto più si è costernati dallo shock derivato dall’alienazione nei confronti di un mondo percepito come nuovo. La mente che emerge riflette su tale situazione e si aggrappa alla ferma intenzione del “pre-io”, nel tentativo di proteggerla in fretta dal fallimento che la minaccia (cadere nella disperazione), e cerca ad ogni costo e una volta per tutte di fissarla sullo schermo di proiezione della realtà della separazione umana. Ma è esattamente in quell’istante che l’“io” commette il suo errore fatale, particolarmente seducente per una mente pigra (HAVEL 2010, n. 141 del 14 agosto 1982: 422).

Le tensioni che caratterizzano ogni persona e i fallimenti nell’utilizzo della responsabilità, consentono di apprezzare il valore archetipo delle religioni, in particolare di quella cristiana:

Sì: l’uomo è inchiodato – come Cristo sulla croce – a un’intersezione di paradossi: teso fra l’ascissa del mondo e l’ordinata dell’Essere; da una parte, trascinato in basso dalla disperazione di un’esistenza nel mondo e dall’irraggiungibilità dell’assoluto, dall’altra, egli sta in equilibrio tra il tormento di non conoscere la propria missione e la gioia di portarla a compimento, tra il nulla e la pienezza di senso. E come Cristo è di fatto vittorioso grazie alle sue sconfitte (HAVEL 2010, n. 144 del 4 settembre 1982: 435).

Non deve dunque stupire la chiusa dell’epistolario: «è strano, ma forse adesso sono persino più felice di quanto lo sia stato negli ultimi tempi» (HAVEL 2010, n. 144 del 4 settembre 1982: 435).

6. La filosofia in un istituto correzionale di primo livello

Alla luce di quanto emerso, propongo la seguente suddivisione dell’epistolario completo:

L’epistolario completo riporta fedelmente il travaglio interiore di Havel, consentendo di apprezzarne il dinamismo e favorendo la comprensione della lunga gestazione che ha consentito la stesura del ciclo meditativo. Più che una proposta filosofica, emerge pertanto la testimonianza esistenziale, riportata attraverso il linguaggio della fenomenologia, di una persona che forze esterne pretendono di cambiare, ma che riesce a rimanere fedele alla propria dignità e addirittura a rendere feconda la sua permanenza in carcere, al fine di mostrare come la responsabilità sia una necessità ontologica prima che un dovere morale. Lungi dall’essere un pensiero che troppo sbrigativamente potrebbe, nella peggiore delle ipotesi, essere tacciato di sincretismo, o, nella migliore, essere annoverato in una storia delle correnti fenomenologiche, la sua testimonianza in forma filosofica diventa un auspicio programmatico contro ogni fanatismo del mondo contemporaneo e un invito a restare, sempre e nonostante tutto, autentici, cioè conformi al proprio statuto di esseri personali, originariamente aperti all’intero della realtà e disponibili a mettersi in gioco e a farsi carico della verità, cioè dell’orizzonte assoluto contro cui si staglia l’esistenza di ogni persona.

Bibliografia

BONAGURO, A., Comunismo / Quando Havel dal carcere scriveva a Olga di Ratzinger e del cioccolato..., 18/01/2010. Disponibile online, cons. il 15 marzo 2019.
GELLNER, B., “The Price of Velvet: Thomas Masaryk and Václav Havel”, Telos 94 (1992), pp. 187-192.
GOETZ-STANKIEWICZ, M., (ed.), Good-bye Samizdat: Twenty Years of Czechoslovak Underground Writings, Evanston, Northwestern University Press, 1992.
HAMMER, D.C., “Václav Havel’s Construction of Political Discourse”, Philosophy Today 39 (1995), pp. 119-131.
HAVEL, V., Lettere a Olga, Bologna, CSEO, 1983, (traduttore non rintracciabile).
HAVEL, V., Lettere a Olga, trad. di C. Baratella e rev. di F. Mazzariol, Treviso, Santi Quaranta, 2010 (ed. or. Dopisy Olze 1985, 1990, 1992, 1999).
HAVEL, V., Summer Meditations, trans. by P. Wilson, New York, Knopf, 1992.
HAVEL, V., Un uomo al Castello, trad. it. di I. Zlatohlavkova e rev. di A. Bonaguro e F. Mazzariol, Treviso, Santi Quaranta, 2007 (ed. or. Prosím stručnĕ 2006).
HAVEL, V., Il potere dei senza potere, a cura di A. Bonaguroe pref. di M. Cartabia, Castel Bolognese, Itaca, 2013
JUDT, T., Postwar. La nostra storia 1945-2005, trad. it. di A. Piccato, Roma-Bari, Laterza, 2017 (ed. or. Postwar. A History of Europe since 1945, New York, The Penguin Press, 2005).
KEANE, J., (ed.), The Power of the Powerless: Citizens against the State in Central and Eastern Europe, London, Hutchinson,1985.
KEANE, J., Václav Havel. A Political Tragedy in Six Acts, Bloomsbury, London 1999.
KRISEOVA, E., Václav Havel: The Authorized Biography, en. trans. by C. Crain, New York, St. Martin’s Press, 1993.
MALETTA, S., Il cuore del dissenso. Morale e politica nelle Lettere a Olga di Václav Havel, 4/09/2010 , cons. il 15 marzo 2019.
MATUŠTÍK, M.J., Postnational Identity. Critical Theory and Existential Philosophy in Habermas, Kierkegaard, and Havel, New York, Guilford, 1993.
MCRAE, R.G., Resistance and Revolution. Václav Havel’s Czechoslovakia, Montreal , McGill Queens University Press, 1997.
REZEK, P., Filosofie a politika kýče, Praha, Oikoymenh, 1991.
SCAVO, N., “Inedito. Havel: l’uomo è crocifisso”, Avvenire 26 gennaio 2010.
TISMANEANU, V., Fantasies of Salvation. Democracy, Nationalism and Myth in Post-Communist Europe, Princeton, Princeton University Press, 1998.
TUCKER, A., The Philosophy and Politics of Czech Dissidence from Patočka to Havel, Piitsburgh, University of Pittsburgh Press, 2000.
VLADISLAV, J., (ed.), Living in Truth. 22 Essays Published on the Occasion of the Award of the Erasmus Prize to Václav Havel, London, Faber and Faber, 1990.
WHIPPLE, T.D., (ed.), After the Velvet Revolution. Václav Havel and the Leaders of Czechoslovakia Speak Out, New York, Freedom House, 1991.


Note

↑ 1 Tale accusa comparve nel giornale del Partito Comunista Rudé Právo del 23 febbraio 1989.

↑ 2 Cfr. KEANE 1999 per una bibliografia completa che mette in luce l’Havel drammaturgo. Pur trascurando questo aspetto per limitarmi all’oggetto specifico del contributo, ritengo opportuno fornire una lista delle sue opere più famose con cui ottenne una fama internazionale: Festa in giardino (1963); Il Memorandum (1965); Difficoltà di concentrazione (1968); I congiurati (1971); L’opera dello straccione (1975); Albergo di montagna (1975); L’udienza (1978); Vernissage (1978); La firma (1978); Lo sbaglio (1973); Largo desolato (1985); Tentazione (1986); Il risanamento (1987); Domani si inizia 1988); Partire (2007).

↑ 3 Havel in seguito fu uno dei leader della Rivoluzione di Velluto del 1989, durante la quale fu di nuovo arrestato il 28 ottobre. Il 29 dicembre dello stesso anno, in qualità di capo del Forum Civico, fu eletto presidente dall’Assemblea Federale. Dopo le libere elezioni del 1990 mantenne la carica di presidente della Repubblica Cecoslovacca fino al 1993, quando rassegò le dimissioni per non firmare gli atti di divisione tra la Repubblica Ceca e quella Slovacca. Venne eletto presidente della prima nelle elezioni del 26 gennaio 1993 e riconfermato in quelle del 1998, restando così in carica fino al 2003 (cfr. McRae 1997).

↑ 4 Cfr. V. Havel, Letters to Olga, ed. J. Lepatka, trans. P. Wilson, London, Faber and Faber, 1990.

↑ 5 Estratti delle lettere precedenti furono pubblicate nel 1982, sempre per i tipi del Cseo, con il titolo Gli ostaggi sono fuggiti.

↑ 6 Ricordo che la Biblioteca Václav Havel, sezione dell’Archivio degli Stati Uniti di Washington, è l’istituzione deputata a raccogliere, conservare e mettere a disposizione degli studiosi le opere e gli scritti di Havel: cfr. Disponibile online, cons. il 14 aprile 2019.

↑ 7 Tale elenco intende supplire almeno parzialmente alla mancanza di un indice dei nomi in HAVEL 2010 e comprende una selezione arbitraria di filosofi e di intellettuali che Havel cita per il contributo da loro offerto al pensiero astratto, tralasciando invece i riferimenti, pur espliciti, a scrittori, storici e drammaturghi.

↑ 8 In nota l’editore ceco precisa che il brano è stato tratto da Humanisme de l’autre homme, Montpellier, Fata Morgana, 1972.

↑ 9 Sul fenomeno della dissidenza cfr. KEANE 1985 e TISMANEANU 1998.

↑ 10 Come è noto i firmatari di Charta 77 erano uniti nell’opporsi al totalitarismo, ma divisi dalle loro visioni politiche: Patočka e Havel erano antimoderni (con questa etichetta generica si indicava un rifiuto delle politiche totalitarie ideologicamente imputate ad alcune categorie della filosofia moderna, soprattutto hegeliana), Benda un conservatore cattolico, Jiří Hájek un comunista riformatore e Petr Uhl un sostenitore di Trotsky (cfr. Havel 2007: 28).

↑ 11 Qui come altrove, se non diversamente indicato, la traduzione è mia.

↑ 12 Jan Patočka (1907-1977), dopo gli studi a Praga e Parigi, fu allievo di Edmund Husserl e di Martin Heidegger ed è considerato il maggiore esponente del pensiero fenomenologico nell'Europa orientale. Aderì nel 1977 al movimento Charta 77, del quale divenne portavoce. Morì in seguito a un ictus all'età di 69 anni dopo un interrogatorio della polizia dovuto proprio al suo impegno politico, ricevendo così l'appellativo di Socrate di Praga.

↑ 13 I principali scritti politici di Havel sono raccolti in VLADISLAV 1990. Per il pubblico italiano è disponibile HAVEL 2013.

↑ 14 Dopo la morte di Patočka fu determinante per la riflessione di Havel il pensiero del suo allievo Václav Bělohradský, emigrato in Italia, ma ben noto negli ambienti praghesi.

↑ 15 Sul contesto storico generale dell’Europa post bellica e degli anni della Guerra Fredda cfr. JUDT 2017.

↑ 16 La riuscita di tale progetto è valutata in HAVEL 2010, n. 120 del 20 marzo 1982: 350-351.

↑ 17 Su questo aspetto rimando per approfondimenti a HAMMER 1995.

↑ 18 Durante la Seconda guerra mondiale, Levinas trascorse cinque anni in uno Stalag, campo per prigionieri di guerra, a Fallingbostel, nei pressi di Hannover, segregato in speciali baracche per prigionieri ebrei ai quali era proibita qualunque forma di culto. Durante la prigionia riuscì a prendere appunti su un quaderno che sarebbe stato la base delle dissertazioni di apertura di De l’Existence à l’Existant (1948), un punto di riferimento della critica a Heidegger, e di Le Temps et l’Autre (1948).

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482