Due detenuti triestini nella Seconda Guerra Mondiale: Voghera e Piazza
Abstract
Italiano | Inglese
Si confrontano le prigionie di due ebrei triestini nella seconda guerra mondiale: Guido Voghera e Bruno Piazza. Il primo era riuscito a lasciare l'Italia prima dell'entrata in guerra dello stato fascista, stabilendosi in Palestina, allora sotto il controllo britannico. In quanto soggetto di uno stato nemico fu arrestato e detenuto nel carcere di Giaffa. Voghera descrisse nell'omonimo libro (Carcere di Giaffa, Pordenone 1985) la permanenza di non lunga durata di un gruppo misto di italiani in parte levantini, che si raccontano brevi novelle. Il libro viene paragonato con il Decameron, di cui riprende elementi interessanti.
Ben diversa la storia di Bruno Piazza, avvocato attivo nella resistenza anti-nazista e perciò rinchiuso nel lager triestino della Risiera di San Sabba ed di là portato ad Auschwitz. La sua testimonianza dei campi (Perché gli altri dimenticano, Milano 1956) impressiona per il tono staccato ed informativo che ha molto in comune col debutto di Primo Levi. Un episodio unico della testimonianza di Piazza sono le ore trascorse nella camera a gas da cui lo scrittore si salvò in quanto Häftling politico. Che il libro sia rimasto poco conosciuto è dovuto alla morte dello scrittore poco dopo il rientro a Trieste.
1. Introduzione
Non esiste un periodo in cui il concetto di prigionia sia tanto visibile ed esteso come una guerra, e poche guerre l’hanno presentato in modo tanto doloroso come la seconda Guerra Mondiale, che diede una lugubra forma alla prigionia di un popolo intero con come unico scopo la sua distruzione completa.
Mi è parso perciò doveroso presentare qui due prigionieri ebrei, una scelta difficile tra oltre sei milioni. Mi sono pertanto concentrato su Trieste, unica città italiana ad avere un lager nazista in cui trovarono la morte numerosi ebrei, partigiani ed altri esponenti della resistenza, e fino ad oggi insieme a Fossoli uno dei due principali monumenti italiani dedicata alla shoah.
Chi se ne occupa si rende naturalmente conto che la letteratura della shoah è di dimensioni immense, anche perché i sopravvissuti sono stati incoraggiati dal comando biblico di testimoniare e passare le proprie esperienze alle generazioni più giovani, se non vogliamo menzionare la funzione terapeutica di raccontare i propri traumi e l’interesse del mondo editoriale e dei suoi lettori. La immensa mole della letteratura della shoah si può soddividere in letteratura della discriminazione, della persecuzione, della vita in nascondigli, della fuga verso territori considerati liberi e accoglienti, dell’esperienza partigiana, della deportazione, dei lager e del ritorno e reinserimento. Molti di questi campi tematici si sovrappongono, ragione per respingere qualsiasi radicale divisione in sottogeneri: Primo Levi descrive nel suo famoso dittico l’arresto, la vita a Fossoli, il trasporto in treno, la detenzione a Buna, la liberazione e il ritorno. La combinazione di più elementi è comunque quasi sempre presente e costuisce una caratteristica importante. E non dimentichiamo mai che cosa fu veramente la shoah: non ispirazione di generi ma la più grande tragedia di tutti i tempi. La letteratura della shoah, dunque, in primo luogo è e resta testimonianza, spesso ad un livello degno dell'immensità del male e del compito morale alla sua base.
2. Due triestini in detenzione
I due scrittori scelti per il presente contributo sono entrambi triestini appartenenti allo stesso ceto sociale, quello della borghesia ebraica italofona che aveva goduto di grandi possibilità sociali, culturali ed economiche nell’impero austroungarico ma aveva prevalentemente scelto di appartenere all’Italia e si era distinta a tutti i livelli nella lotta irredentista. Entrambi erano colti, figli di letterati e con una certa esperienza di scrittore. Ed erano stati abbastanza intelligenti da capire che era meglio fuggire verso un paese fuori portata dei tedeschi.
Ma procediamo con ordine. Giorgio Voghera (1908-1999) è stato uno scrittore di grande importanza ma forse non a tutti noti come un Saba o Svevo. Era emigrato in Palestina quando le leggi razziali si facevano sempre più sentire ma sempre prima che l'Italia si lanciasse nel conflitto bellico, nel 1939. Un anno dopo, all'entrata in guerra, in quanto cittadino di una nazione nemica – o di due nazioni: si sa che i ‘khakies’ limitarono l’immigrazione ebraica ad una quota modestissima - fu messo in prigione a Giaffa, come era una loro 'soluzione' preferita per i maschi tra 16 e 65 anni. Non fu molto pesante questa detenzione, che uní molti profughi in fondo antifascisti o vittime del regime, e se ne resero conto gli inglesi, che rilasciarono i prigionieri ebrei e musulmani dopo solo tre settimane. Avebbero ricorso solo ben più tardi - e per gli ebrei - alla loro benedetta invenzione di mezzo secolo prima in Sudafrica, i campi di concentramento, che loro era valsa la lode di Hermann Goering e quindi per ora era consigliabile rimandare ad un incerto futuro. Gli inglesi restano pertanto un elemento coincidentale. Sono meri esecutori della 'ragion di stato' e non fanno parte di questa storia, né lo meriterebbero.
3. Carcere a Giaffa
Carcere a Giaffa era il secondo libro dedicato da Voghera al paese ove era immigrato, forse incerto della possibilitàdi un ritorno nella prima patria, che si sarebbe realizzato nel 1948, dopo lunghi anni in kibbutz. Il giovane scrittore scrisse il suo primo libro, Quaderno d'Israele,in ebraico, certo come esercizio in una lingua in gran parte a lui nuova, lingua della quale si voleva impadronire anche a livello letterario, ma non di meno per descrivere una vita per tanti aspetti diversa da quella borghese a Trieste. Sia questo testo, riscritto poi in italiano, che il libro che qui vedremo meglio, Carcere a Giaffa, apparvero molti anni dopo, rispettivamente nel 1967 e nel 1985. Prima di essi, Voghera pubblicò un libro che a suo tempo fu un caso celebre, Il segreto (1967), che apparve anonimo ma fu a lungo attribuito al padre Guido. Solo negli ultimi decenni fu provato che a scrivere questo romanzo, vero Bildungsroman, era stato Giorgio.
Carcere a Giaffa è certo un documento dedicato ad una reale prigionia, come indicano le precisazioni all'inizio del testo. Della prigione poco si sa: è quella araba di Giaffa, e l'aggettivo deve garantire l'assoluta mancanza di confort - alcuni prigionieri devono star seduti per terra - e sporcizia (soprattutto a causa dei pidocchi). C'è un cortile, dove gli ospiti involontari possono prender aria ogni giorno. Gli inglesi sono pressocché assenti, anzi letteralmente tali: dimenticano di dare da mangiare ai prigionieri. Sono indicati con grande efficacia narrativa i compagni di prigionia, prevalentemente ebrei, se non mancano due musulmani ed alcuni cristiani (Voghera li chiama "ariani" con la parola prediletta dalla propaganda antisemita italiana). Colpisce la presenza del mondo turco nel quadro: ancora l'impero ottomano e la sua politica nei confronti dei millet1si fanno sentire a distanza di circa vent'anni dalla disintegrazione del grande stato multietnico.
Diamo un solo esempio:
C'erano poi alcuni vecchi commercianti della Turchia e di altri paesi dell'ex Impero Ottomano che a suo tempo avevano chiesto, essi o i loro padri, la protezione diplomatica dei consolati italiani2. [...]
E in un angolo, ora seduti in terra alla turca, ora in piedi appoggiati contro il muro, troneggiavano due guardie campestri bengasine. [...] Ancora bambini erano stati portati in Palestina dai turchi. (VOGHERA 1985: 16)
Assente dal libro è ogni pesantezza, i personaggi che faranno da narratori sono molto uniti nella comune sorte. Il libro con cui suggerirei un'affinità di tono, narrazione e sfondo è il Purgatoriodantesco: tutti sanno che il proprio stato è transitorio. Dante non manca nel libro: alla notizia della caduta di Parigi e il crollo miltare della Francia, Voghera cita «Ciò mi tormenta più di questo letto», mettendosi nei panni di Farinata (Inf. X, 78). E alla serva co-protagonista della settima novella l'autore recitava e spiegava dei versi, per lo più di Dante, neanche a dirlo» (VOGHERA 1985: 52). Ma il classico la cui presenza è tanto forte da dominare la struttura del libro è il Boccaccio. L'autore propone quasi per scherzo di raccontare qualche cosa: «Ma perché non parliamo anche dei casi in cui ci è andata bene per miracolo: in cui abbiamo superato per un colpo di fortuna, quasi senza accorgercene, delle difficoltà che parevano insuperabili?» (VOGHERA 1985: 19)
Il tono è quello di un Decameron dei nostri tempi e l'argomento ricalca quello della seconda e terza giornate delle 'Cento novelle', dedicate proprio alla Fortuna. Ma anche lo sfondo del non lungo libro, la crisi circondante per la quale i protagonosti si sono trovati isolati (in Voghera: la sconfitta della Francia), ricorda i dieci narratori della villa fiesolana.
Voghera però distribuisce i racconti per cinque capitoli, di cui il solo primo ospita dopo l'introduzione ben cinque novelle, il secondo tre, il terzo e il quarto ciascuno una sola e l'ultimo capitolo due. Non suggerisce che un capitolo corrisponda aduna giornata. Il totale ammonta quindi a dodici novelle, e questo numero non può passare inosservato: è il numero di Israele, delle dodici tribù, numero passato anche ad altre religioni (ai cristiani con gli apostoli, d'altronde tutti ebraissimi, e ai musulmani con i dodici imam della shià). La raccolta di novelle sta a rappresentare in un certo senso anche la sorte del popolo d'Israele, se anche due narratori sono goyim. Il rapporto specolare 12 (novelle/tribù) - 21 (giorni di detenzione) ci avverte che le dimensioni trascendono le misure umane. A mio avviso, molti scritti di autori ebrei (italiani e no) devono essere riletti alla luce della ghematria.3 Ce n'è in Levi, ma anche in quanto avrebbe poi scritto Lello Perugia, il Cesare de La tregua. La ghematria fa parte dell'educazione intellettuale di tanti ebrei e si riscontra in molti testi, anche di autori non a prima vista associabili con la tradizione.
La divisione a prima vista non perfettamente equilibrata tra i capitoli (la lunghezza varia da 13 righe (novella 2) ad un intero capitolo) suggerisce che man mano che il lavoro progrediva lo scrittore abbia scritto novelle più lunghe e più degno del nome. Ma altrettanto convincente mi pare l'ipotesi che Voghera abbia voluto rappresentare i propri narratori come persone non avvezze a questo tipo di confidenza. I primi sarebbero in questo senso più timidi e riluttanti ad esprimersi, laddove una volta stabilitosi un programma narrativo, molti si conformano ad esso e i racconti diventano sempre di più vere e proprie novelle. I primi racconti sono solo illustrazioni dell'elemento insperato del soggetto della 'giornata'. Seguono novelle dedicate al rapporto uomo-donna, soprattutto alla timidezza che l'un sesso prova di fronte all'altro. Fra queste, la settima viene narrata in prima persona da Voghera, che chiama in causa pure l'amico Bobi Bazlen.
Non sarà da ignorare nel libro nemmeno l'elemento levantino. In fondo, Voghera dice che gli ebrei sono un popolo orientale, che molti di loro sono ex sudditi ottomani e che dimostrano una certa sensibilità alla narrazione per salvarsi non la pelle, come Sheherazade in Mille e una notte ma per alleggerirsi la sorte raccontando. Si osservi anche qui l'assenza di ogni polemica anti-islamica. Voghera ha sempre ribadito che gli arabi palestinesi non erano né scemi né da meno degli ebrei, e nemmeno contro di loro. In Quaderno d'Israele egli aveva già affermato più volte di vedere gli arabi (quelli che oggi sono chiamati palestinesi) come alleati, mai come nemici. Ma non tace la paura del terrorismo arabo:
Ci aspettavamo di veder capitare lì da noi, entro pochi giorni, i soldati dell'Asse. Sarebbero stati allora gli arabi a dare l'assalto alla prigione e a trucidarci come ebrei? O saremmo stati consegnati ai tedeschi che ci avrebbero trascinati nei campi di sterminio? (VOGHERA 1985: 18).
Ma Voghera non si soffermerà a lungo su tali considerazioni, anche per la permanenza relativamente breve in prigione. Novellare in fondo è un gioco sociale, che serve ad instaurare solidarietà umana e a raccorciare l'attesa. Un Purgatorio, abbiamo detto. Ora passiamo ad un suo concittadino che si è trovato nell'Inferno.
4. Bruno Piazza, voce dalla camera a gas di Auschwitz
L’altro scrittore triestino di cui parlerò qui è Bruno Piazza (1889-1946), figlio dello scrittore e giornalista Giulio. Come il padre, anche Bruno, che aveva studiato legge a Vienna, scrisse per la stampa ma alla fine riuscí a guadagnarsi il pane come avvocato finché in base alle leggi razziali non fu radiato dall’albo degli avvocati nel 1940. Dopo la occupazione del Nord Italia da parte dei tedeschi nel settembre 1943, Piazza decise di fuggire in Svizzera ma fu arrestato al confine di stato di Como, detenuto per alcuni mesi per poi essere rilasciato e tornare alla città di origine. È a questo punto che comincia la sua testimonianza Perché gli altri dimenticano, scritta dopo il ritorno a Trieste nell’estate del 1945, pochi mesi prima della mortea causa di un malore sopraggiunto alla fine di un’arringa in aula ma in verità per l’indebolimento fisico durante la prigionia. Pure al termine, dunque, di quell'arringa pronunciata nel libro contro i boia tedeschi.
Non ci sarà nessuno tra di noi che non abbia letto Se questo è un uomo (1947) ed è appunto il libro di Levi quello con il quale il testo di Piazza si confronta meglio. I paralleli sono non pochi. Scritti nello stesso periodo, sotto la spinta di raccontare, affinché non si dimenticasse quanto era avvenuto, in un linguaggio che non aveva pretese letterarie ma era improntato all’esperienza professionale dell’autore (il rapporto chimico o medico sanitario nel caso di Levi, quello forense in quello di Piazza) da uomini che avevano una buona conoscenza del tedesco. Per entrambi, un importante punto di riferimento è Dante, di cui incontriamo alcune citazioni, e non è difficile indovinare a quale cantica rinvia l'autore. Anche le sorti dei due libri presentano qualche rassomiglianza: il testo di Levi apparve, come si sa, nel 1947 ma fu ignorato dai più, quello di Piazza fu pubblicato postumo, nel 1956, dall’editore Feltrinelli. Non è improbabile che il tardivo successo del torinese abbia contribuito alla realizzazione di un progetto di pubblicazione del libro nato a Trieste. Levi sarebbe diventato uno degli scrittori più letti, studiati e commentati del Novecento, Piazza ha raggiunto un numero rispettabile di ristampe ma non è entrato a far parte della letteratura, non mi risulta tradotto in altre lingue e dire che sia stato dimenticato non è lontano dalla verità. Devo subito precisare che non capisco la mancata o perlomeno limitata fortuna di questo libro, come quella di altre due testimonianze italiane, quelle di Giuliano Tedeschi e Liliana Millu, che descrivono i lager dal punto di vista femminile ma di cui esiste qualche versione in lingua straniera. Perché gli altri dimenticano certo presenta alcune caratteristiche particolari. Piazza cerca di dare un rendiconto abbastanza dettagliato dell’esperienza nella Risiera di San Sabba, la prigione del Coroneo a Trieste, il viaggio e arrivo ad Auschwitz e poi i lunghi mesi nel campo. Lo fa, come Levi, da una certa distanza, fatto certo agevolato dalla pratica di penalista, che gli impose ovviamente la necessità di prova ed illustrazione dei crimini testimoniati.
Cominciamo con Dante. La enarrabilità di quanto successo ricorda all'autore, subito all'inizio del libro, i versi:
Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra quant'ei puote,
però che senza colpa fa vergogna.(Inf. XVI, 124-126. PIAZZA 1956: 8).
Quest'ultima parola (vergogna) sarà un elemento molto importante in tutta la letteratura della shoah.
Non sorprenderà leggere sulla parete della cella a San Sabba, «Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate» (Inf. III, 9. PIAZZA 1956: 20).
Ma non sono solo citazioni dell'Inferno dantesco che Piazza inserisce nel suo testo. Anche le punizioni sono riferite a Dante:
Il servizio di pulitura delle latrine era di preferenza affidato agli intellettuali. Professori d'università, scrittori, avvocati, medici, scienziati, per compiere la stomachevole mansione, dovevano sottostare alla pena che Dante inventò, nell'ultima parte del XVIII canto dell'Inferno [...] (PIAZZA 1956: 50).
E Piazza usa la parola "bolgia" per il luogo di detenzione. (PIAZZA 1956: 51).
È infatti - come per Levi - il confronto quasi automatico con Dante il primo impatto col lager:
Entrai nel Block. Dalla porta esso mi sembrò, con tutte quelle scritte sulle travature, uno strano bazar. Poi ebbi l'impressione di entrare nella stiva di una galera, quindi mi parve di scendere in una catacomba, ma la sera, quando la baracca fu piena di oltre ottocento persone che vociavano, gridavano, si spingevano, l'impressione che ne ricevetti fu quella di una bolgia infernale. (PIAZZA 1956: 69).
Le donne delle SS sono descritte in questo modo: «Livide, le occhiaie infossate, la bocca torta da un ghigno continuo, sembravano demoni usciti dall'inferno.» (PIAZZA 1956: 56).
Certo, questo non è una citazione o riferimento al testo, ma il contesto è paragonabile. Manca in Piazza il ruolo di consolazione che riveste il capitolo 'Il canto di Ulisse' in Levi.
Guardiamo ora più attentamente allo stile. Piazza scrive una prosa ancora molto leggibile, scorrevole, che alterna frasi di media lunghezza con degli staccati e occasionali periodi.
Qualche esempio:
Eravamo agitati, irritati. Sebbene cercassimo di dominare i nostri nervi e di tener alto il morale raccontandoci storielle allegre, nessuno di noi riusciva a ridere veramente4. E giunse l'ora della partenza.
Donne e uomini in colonna. Un autocarro aspetta con la scorta dei soldati. Piove a dirotto. Partire sotto la pioggia è un buon segno, ma ci si bagna tutti. Il triste convoglio procede rapidamente nella città deserta, buia. Soltanto i fari dell'autocarro proiettano due coni di luce che fanno scintillare le gocce di pioggia. (PIAZZA 1956: 20).
Frasi brevi per accentuare la rapidità degli eventi, prevalentemente paratattiche.
Anche nei brani identificabili come "di arringa":
Il timore di rappresaglie contro i propri cari ha trattenuto molti dal cercare la salvezza nella fuga. La ferocia nazista ha speculato sul sentimento e sulla pietà delle sue vittime. Ha ucciso i figli per la fuga dei padri, ha ucciso i padri e le madri per la fuga dei figli. Per un colpevole sfuggito al castigo ha trucidato cento innocenti. I nazisti non hanno mai esitato. (PIAZZA 1956: 21).
La stessa chiarezza caratterizza le descrizioni sistematiche del campo:
Il Lager A, primo degli otto campi, divisi l'uno dall'altro da un fosssato e da un reticolato in cui circolava la corrente ad alta tensione, era destinato ai nuovi arrivati di sesso maschile, che vi passavano la quarantena, ossia vi trascorrevano un periodo di tempo di un mese e mezzo, adibiti ai lavori nell'interno del campo o nelle sue immediate vicinanze: costruzione di baracche, fabbricazione di edifici, posa di binari, trasporto di materiali, riparazione di strade, lavori di scavo e di giardinaggio di carattere pesante oltre ai lavori leggeri di pulizia delle baracche (Stubendienst), di svuotamento delle latrine ed ai lavori di cucina. (PIAZZA 1956: 37-38).
Con la stessa ricerca di completezza Piazza tratta i numeri - come Levi, ma in modo diverso.
Al Lager di Auschwitz tutti portavano tatuato sul braccio il loro numero, uomini e donne. Soltanto le numerazioni e i simboli erano differenti. Agli ebrei di razza pura incidevano il numero basso, fino al 20.000, preceduto dalla lettera A o B, a seconda della serie, con sotto talvolta un piccolo triangolo; ai deportati politici e di razza mista veniva tatuato il numero alto, oltre il 100.000.
Il numero alto, come mi dissero piú tardi, salvava dal crematorio. Ho veduto però mandare a morire anche gente con il numero alto ma si trattava evidentemente, di una "svista".
[...]
A me e ai miei cinque compagni del carrozzone separato [nel viaggio verso il campo - rs] furono tatuati numeri alti. [...] Il mio numero era il 190.712, numero fortunato, se si pensa che sono riuscito a portarlo fuori da quell'inferno.(PIAZZA 1956: 72-73).
Piazza vuole informare, documentare, illustrare e fornire dettagli rilevanti. Ovviamente, lo stile rinuncia a velleità letterarie ma ha la forza della vera letteratura.
Importanti sono per Piazza, ancor più che per Levi, i nomi. Vuole ricordare le vittime di cui si fa difensore:
Gli altri undici, mi sia permesso di farne ora i nomi, erano: il signor Gesses, proprietario di un negozio di valigerie a Triste ma residente a Padova; il signor Alfredo Levi, che gestiva a Trieste una sartoria, un ottimo compagno, buono e paziente anche dopo che Auschwitz ci ebbe reso tutti aspri ed egoisti: il signor Nino Belleli, che ho già ricordato; il signor Sabbadini e il signor Hammer, suo cognato; Samuele Levi, che tutti chiamavano Sami; Attilio e Vittorio Levi, padre e figlio [...].(PIAZZA 1956: 71).
I nomi - ce ne saranno di più nel libro - hanno una triplice importanza. Innanzitutto forense, come si è visto, con la richiesta di permesso di elencarli rivolta al giudice/lettore (si badi alla formulazione di nome e cognome, professione e residenza, tipica di un atto giudiziale). Poi nel contesto di un mondo barbaro che ridusse uomini a numeri. E infine, nella tradizione ebraica che dà molta importanza ai nomi, come nelle genealogie dei libri Bereshit, Shemoth - che significa appunto "nomi" e tanti altri.
Come Levi, Piazza analizza il campo da un punto di vista sociologico, facendo attenzione ai rapporti gerarchici, la differenza tra detenuti ebrei, politici e criminali e la posizione delle donne. Elenca la precisa gerarchia nel campo, nella baracca e al lavoro. Come Levi, si interessa ai numeri dei detenuti e li interpreta. Non trascura la divisione dello spazio, illustra fattori come riscaldamento e ventilazione delle baracche, cibo ed igiene, i vari tipi di lavoro e a chi erano assegnati, e le diverse punizioni. Tutti questi elementi sono specificati, illustrati e analizzati con cura. Evita le emozioni, che sicuramente ha avuto, ma come avvocato sa che non devono entrare troppo in un requisitorio, sa di dover fornire delle prove effettive. Di dover portar testimonianza e quindi di dare nomi di altri capaci di confermare – sempre che siano ancora in vita.
A distanza di 75 anni dagli orrori di Auschwitz molto ne sappiamo. La testimonianza di Piazza, prima - cronologicamente parlando - di una lunga serie, a leggerla oggi offre poco di nuovo ed ha soddisfatto il proprio scopo. Vi è comunque un episodio a mio avviso unico, la descrizione della permanenza nella camera a gas.
Difatti, Piazza fu selezionato dal dottor Mengele (che ricorda sempre come "Mengherle") per la camera a gas. Il capitolo in cui descrive la selezione e l'attesa in camera a gas, il 20 settembre 1944, è di grande efficacia retorica e non senza un pathos che affiora qua e là. Piazza descrive i minimi dettagli, come l'apparizione quasi teatrale e il sorriso del boia, le altre vittime, il momento di vacillazione del narratore a causa dei calzoni ed alcuni dialoghi tra le vittime.
Certamente c'è una baracca in un altro campo, per quelli che non possono fare i lavori pesanti. Lei, avvocato, lo porteranno là."
Guardai il cielo: "Ecco un altro campo dove non vi sono lavori pesanti," risposi. (PIAZZA 1956: 125).
La descrizione del gruppo nella camera a gas è tra le più emozionanti del libro e costituisce al contempo una testimonianza unica per la sorte del narratore. Ci insegna non poco sulle vittime giovani ed adulte in attesa dell'inevitabile.
In quell'ambiente, angusto per tutta quella gente, l'aria divenne presto irrespirabile. Non c'era un'apertura, una fessura da cui potesse giungere un filo d'aria. Mi sentivo soffocare e cercai di spingermi verso la porta, nella speranza che là sarei stato meglio. Ma era un'illusione. Mi lasciai cadere addosso ai bambini lituani che avevano cercato di sedersi in gruppo, ed essi, gridando e piangendo, mi fecero un po' di posto. Accarezzavo i piu vicini, ed essi mi guardavano con i loro occhi spaventati e lacrimosi. Si lasciavano accarezzare, si calmavano un attimo, poi ricominciavano a piangere silenziosamente. (PIAZZA 1956: 128).
Le ore passano, non succede nulla. Un ebreo polacco noto come trafficante, chiede una sigaretta, promettendo in cambio la propria cintura di vera pelle. Un giuliano, il prof. Menassé, si presenta a Piazza e vuole parlare di musica e letteratura.
Verso l'alba si apre la porta. Due uomini portano il caffé. Poco dopo arriva uno scrivano, che alla protesta di Piazza dice:
"Avrai tempo di dormire tutti i giorni e tutte le notti, per l'eternità", rispose. "Ormai si tratta di poche ore."
"Allora perché non si sbrigano subito?"
"Deve ancora arrivare la polvere... ma entro questa sera sarà tutto finito". (PIAZZA 1956: 130).
Dopo una parentesi raccapricciante sui metodi della morte nella storia del lager, Piazza riprende la narrazione con l'arrivo dello Schreiber con in mano un barattolo di latte con il cianuro di potassio e un elenco. Undici nomi di persone, probabilmente prigionieri politici, di cui Piazza ancora si ricorda di otto, fra cui un concittadino. Tranne il polacco dalla cintura, tutti sarebbero morti in breve tempo per esaurimento. Piazza intende dire qui che per il momento si sono salvati perché prigionieri politici, sottoposti alla giurisdizione della Gestapo. E anche in altre occasioni i politici erano lasciati tranquilli, «Destinati a morire soltanto di fame, di malattie e di bastonature.» (PIAZZA 1956: 158).
Il capitolo "Undici miracolati", cuore drammatico del libro, viene seguito da altri che definirei 'di routine', i quali descrivono gli ultimi mesi, trascorsi tutti in lazzaretto mentre si sfalda il potere tedesco. Come Levi, Piazza resta quando i detenuti in grado di camminare sono costretti a lasciare il lager, e vede arrivare i russi. E come Levi, ritorna per mezzo di un lungo giro che lo porterà via Tarnow, Leopoli e Przemyls. È probabile che il torinese e il triestino si siano incontrati, ad esempio a Katowice. Sulla popolazione locale dei vari luoghi per cui transitò, Piazza ebbe solo parole di lode e gratitudine. La constatazione di essere tornato «Vivo, sano e libero» (PIAZZA 1956: 194) nella sua città si sarebbe rivelato pur troppo ottimista, come abbiamo visto.
Nel delicato e rischioso bilancio che produce ogni confronto con Levi, questi ha ovviamente a suo vantaggio l'essere autore de La tregua, libro di incredibile impatto omerico e momento di rara vis comica. Perché gli altri dimenticano si esaurisce nella narrazione - in ogni aspetto efficace e impressionante - e nella memoria delle shemoth dei compagni di sventura. Un avvocato non deve fermarsi già su fatti irrilevanti per il proprio requisitorio. Gli dobbiamo il rispetto per un documento che ci piazza nel banco dei giurati e domanda il nostro giudizio, la nostra non-dimenticanza.
Bibliografia
LEVI, P., Se questo è un uomo (1947), ora in Opere I, Torino, Einaudi 1997
PIAZZA, B., Perché gli altri dimenticano, Milano, Feltrinelli 1956 (ripubblicato, con nuova numerazione della pagine: Milano, Ledizioni 2019, consultabili anche in forma digitale:Disponibile online).
SPEELMAN, R., Primo Levi narratore di storie, Ankara, Ankara UP 2011.
VOGHERA, G., Carcere a Giaffa, Pordenone, Studio Tesi 1985.
Note
↑ 1 Nome usato dall'impero ottomano per le varie minoranze non turche.
↑ 2 Si tratta dunque di persone che in base alle cosiddette capitolazioni rientravano fra gli italiani all'estero, ancora oggi fortemente presenti a Costantinopoli.
↑ 3 V. il mio saggio "I numeri di Primo Levi", in Primo Levi narratore di storie.
↑ 4 Non vorrei soffermarmi qui sul ruolo del novellare che è cosí importante per Voghera ma molto meno per Piazza. Infatti ci mancano illustrazioni concrete di quel che si raccontarono i detenuti.