Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

L’antropopoiesi carceraria di Borislav Pekić e il suo Giuda personale

Persida LAZAREVIĆ DI GIACOMO



Abstract

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Il presente lavoro è dedicato all’analisi del primo volume del trittico Godine koje su pojeli skakavci (Anni divorati dalle locuste, Belgrado 1987, 1989, 1990), opera dello scrittore iugoslavo Borislav Pekić (1930-1992). I tre volumi rappresentano le memorie del carcere dell’autore, che fu arrestato nel 1949 e scontò per anni la pena tra Sremska Mitrovica e Niš. Muovendo da una vicenda personale, Pekić trasforma la sua narrazione in un’antropopoiesi carceraria dal respiro universale, che suona come duro monito contro ogni forma di regime e contro i soprusi che ne derivano.




Alla fine degli anni Settanta mi venne a trovare a Londra un ex carcerato. Mi colse mentre stavo preparando l’acqua bollente per versarla su un formicaio in giardino che mi dava fastidio. Mi pregò di non farlo. Almeno non di fronte a lui. Una colonia di formiche gli aveva fatto compagnia in cella d’isolamento. E lui pensava che era stata essa a salvarlo. Non distrussi il formicaio. Né allora, né in seguito (BORISLAV PEKIĆ, 1987).1

La vicenda personale dello scrittore iugoslavo Borislav Pekić (1930-1992) è strettamente legata a un avvenimento storico di portata significativa per le popolazioni della sua terra. Il 28 giugno – data che ricorre con una certa frequenza nella storia dei Balcani, a partire dalla battaglia del Kosovo – del 1948, Tito (al secolo Josip Broz) oppose uno storico rifiuto a Stalin: quel giorno, infatti, il leader della Iugoslavia respingeva in modo imprevedibile la richiesta del Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, provocando il cosiddetto raskol, ossia uno scisma nel blocco dei Paesi comunisti. Il governo sovietico era intenzionato a ottenere il pieno controllo sulla politica interna ed estera della Iugoslavia, definita fino a quel momento “piccola URSS”, mentre il governo iugoslavo dal canto suo desiderava conservare l’indipendenza e l’autonomia, più che mai risoluto a non diventare uno stato satellite. In seguito a quel no, il partito comunista iugoslavo (Komunistička partija Jugoslavije, KPJ) fu accusato di politica antisovietica e di conseguenza espulso dal Cominform (Kommunističeskoe informbjuro, Ufficio d’informazione comunista). La decisione di Tito di deviare dal dogma sovietico non fu indolore ed ebbe più effetti. Tra questi si annovera una delle più drammatiche pagine della Iugoslavia nel dopoguerra, cioè il campo di detenzione sull’isola adriatica di Goli Otok (1949-1956), culmine dello “stalinismo” iugoslavo (1945-1952) nonché esito diretto e concreto della rottura tra Iugoslavia e Unione Sovietica (DEDIJER 1978; DEDIJER 1979; KALAJDŽIĆ 1985; MARKOVIĆ 1987; SCOTTI 1991; GIURICIN 2007; PEROVIĆ 2007; KOSIĆ 2009; GOLUBOVIĆ 2013).

Il 7 novembre di quel 1948 veniva arrestato Pekić, all’epoca un giovane di appena 18 anni da poco iscritto alla Facoltà di filosofia dell’Università di Belgrado. Era membro dell’Unione della gioventù democratica della Iugoslavia (Savez demokratske omladine Jugoslavije, SDOJ), un’organizzazione studentesca illegale che ebbe vita breve (operò non più di un anno): nelle riunioni si decideva dove e quando affiggere manifesti di protesta in città, oppure che comportamenti gli studenti avrebbero dovuto tenere nelle scuole superiori. Il 14 maggio 1949 il giovane Pekić, in base alla Legge sui crimini contro il Popolo e lo Stato, fu condannato dal Tribunale distrettuale di primo grado a 10 anni di carcere, convertiti il 26 giugno dalla Corte suprema della Repubblica Popolare di Serbia a 15 anni, per giunta inaspriti dai lavori forzati e dalla perdita dei diritti civili per un certo periodo di tempo al termine della detenzione (cfr. PAJIĆ 2009). Il giovane Borislav si trovò a scontare la pena nelle case circondariali di Sremska Mitrovica e Niš (fig. 1; cfr. RAKIĆ 2008), dove contrasse la tubercolosi che in seguito minò irrimediabilmente la sua salute (RAKIĆ 2008: 202).

Cinque anni dopo, il 5 marzo 1953 moriva Stalin e i rapporti tra i due Paesi si avviarono a una fase di normalizzazione. Il 29 novembre di quello stesso anno Pekić otteneva la grazia.

1. Dal carcere all’«Oceano Pekić»

Bisognava però attendere il 1965 per vedere consacrata la sua carriera di scrittore, quando il suo primo romanzo Vreme čuda (Il tempo dei miracoli; traduzione italiana: PEKIĆ 2005) vinse il premio NIN come migliore opera di narrativa iugoslava. Il tempo dei miracoli, una sorta di Vangelo apocrifo, ha per protagonisti una schiera di miracolati che raccontano le loro storie di uomini e donne normali alle prese con un evento straordinario e non voluto, non cercato, e che ha lasciato un profondo solco nelle loro esistenze. Arrivano addirittura a disprezzare il prodigio che per loro si è tradotto in un beneficio e rinnegano colui che l’ha compiuto. E proprio attraverso le voci dei miracolati Pekić fa pronunciare la sua ferma condanna a ogni forma di dogmatismo e autoritarismo. Cinque anni dopo fu la volta del secondo romanzo, Hodočašće Arsenija Njegovana (Il pellegrinaggio di Arsenije Njegovan), vincitore anch’esso del premio NIN, dove la descrizione dell’autoreclusione del protagonista, durata ventisette anni, è la finzione narrativa che permette di fare ironia su ogni progetto ideologico e utopico.

Quattordici anni dopo l’esperienza del carcere Borislav Pekić decise di lasciare la Iugoslavia insieme alla famiglia. In quanto ingegnere, la moglie ottenne un impiego in uno studio di architettura a Londra, ma lui non poté seguirla perché una mattina del 1970 i poliziotti si presentarono al suo domicilio per privarlo del passaporto (cfr. PEKIĆ 2003: 444). Dopo un anno di attesa, e grazie anche alla stampa tedesca che aveva preso a cuore il caso, Pekić poté infine raggiungere il Regno Unito. Era l’aprile del 1971. Una volta trasferitosi nella capitale britannica, lo scrittore divenne persona non gradita al governo iugoslavo, il che significava che nel suo Paese non avrebbe più potuto pubblicare nulla e che tutti i contratti editoriali in corso venivano sciolti senza alcuna motivazione. Ma, per paradosso, l’isolamento dall’ambiente belgradese (cfr. MILIĆ 2004), isolamento questa volta volontario – e che Pekić definiva la sua «fuga in Tibet» –, ebbe un impatto straordinario sulla sua produzione letteraria (PALAVESTRA 2002: 7-8), che ricevette un forte impulso tanto da imporsi all’attenzione come «Oceano Pekić», a voler considerare l’ampiezza, la ricchezza e la stratificazione dei testi, mentre la raccolta delle sue opere, assimilata anch’essa a un “pianeta” letterario, fu definita «Terra pekicsiana» (PANTIĆ 2002: 180). In circa vent’anni di soggiorno londinese Pekić lavorò ai suoi scritti senza sosta per dare alle stampe: Uspenje i sunovrat Ikara Gubelkijana (Ascesa e caduta di Ikaro Gubelkijan, 1975); Kako upokojiti vampira (Come placare il vampiro, 1977; traduzione italiana: PEKIĆ 1992); Odbrana i poslednij dani (La difesa e gli ultimi giorni, 1977); Zlatno runo (Il vello d’oro, voll. I-II: 1978; voll. III-IV: 1980; vol. V: 1981; voll. VI-VII, 1986); Besnilo (Rabbia, 1983); 1999 (1984); Pisma iz tuđine (Lettere dall’estero, 1987); Novi Jerusalim (La nuova Gerusalemme, 1988); Atlantida (Atlantide, 2 voll.: 1988-1989); Nova pisma iz tuđine (Nuove lettere dall’estero, 1989); Poslednja pisma iz tuđine (Ultime lettere dall’estero, 1991).

2. Esperienza di reclusione e scrittura

All’esperienza della reclusione, con il suo pesante corollario di istruttorie e interrogatori, Pekić sarebbe tornato di frequente nelle sue opere, talora in modo ossessivo e ogni volta secondo una prospettiva inedita, come ad esempio nel già citato romanzo Come placare il vampiro. Le memorie carcerarie, oggetto di una narrazione esplicita, priva di rimozioni o infingimenti, compaiono sotto forma di un (parziale) diario nel 1984 (PEKIĆ 1984), mentre negli anni 1987, 1989 e 1990 escono rispettivamente tre volumi sulla reclusione dal titolo collettivo Godine koje su pojeli skakavci (Anni divorati dalle locuste, PEKIĆ 1987; PEKIĆ 1989; PEKIĆ 1990). Il trittico è dedicato a tutti coloro «che non erano innocenti», come in seguito disse Pekić, ed è caratterizzato da memorie cronologicamente disposte lungo l’arco temporale 1948-1954, che rivisitano il suo personale percorso carcerario: l’arrivo nel luogo di detenzione, l’interrogatorio, il rapporto con i giudici istruttori, con i provocatori e le spie, fino al prendere dimestichezza con l’«ordine» interno del carcere. In questi testi troviamo molti momenti che si configurano come veri e propri saggi sulla storia della civiltà carceraria serba e iugoslava, e sulla persistenza della pratica della tortura nel mondo.

Il presente studio si concentra sul primo volume dell’opera, soffermandosi in particolare sugli aspetti maggiormente eloquenti di questa parabola di vita, a partire dall’interrogatorio. A sollecitare le memorie è un aneddoto che Pekić riporta attraverso una narrazione permeata da un senso di mestizia: una sera, a Dubrovnik, all’epoca in cui la Iugoslavia era ancora una realtà geopolitica, lui e i suoi amici – «come se non avessimo nulla di più intelligente da fare»2 (PEKIĆ 1987: 27) – avevano deciso di intrattenersi raccontandosi a turno le loro “avventure” di quel periodo. Nella compagnia vi era anche lo scrittore Mirko Kovač (1938-2013), noto soprattutto per i romanzi Gubilište (Il Patibolo, 1962), condannato dal regime titino per il pessimismo di fondo della storia, inconciliabile con i canoni dell’ideologia socialista, e Malvina (1971; traduzione italiana: KOVAČ 1994). Ma in quell’occasione Pekić, che nelle carceri aveva trascorso diversi anni, «non aveva saputo dire nulla di particolare»3, eccetto alcuni brevi e insignificanti episodi che persino a lui sembravano frutto di fantasia. Anche la moglie di Kovač se ne stava in silenzio, come se fosse stata condannata a una pena «almeno il doppio della mia» (28), commenta Pekić. Kovač, invece, parlava delle carceri per ore e ore, con fare vivace, convincente, sostenuto dalla sua verve affabulatoria e dalla capacità di cogliere i minimi dettagli, dilungandosi anche sulle celle in cui aveva trascorso una sola notte. Fu questo lo spunto che svelò a Pekić una verità: il tempo non esiste come dimensione stabile e oggettiva, se una notte in carcere di Kovač corrispondeva, sotto l’aspetto narrativo, a più anni di reclusione altrui. A una tale constatazione era giunto quando si era accorto che, in quell’occasione, non era nemmeno riuscito a raccontare dieci minuti della sua pluriennale esperienza. Fu senza dubbio in quel frangente che Pekić iniziò a dubitare della propria memoria carceraria, e decise di mettersi alla scrivania nell’intento di ricavare una serie di appunti dedicati a quegli anni. Al blocco psicologico di quegli anni corrispondono, come in una specie di contrappasso, i tre volumi degli Anni divorati dalle locuste dal sottotitolo: Memorie dal carcere oppure antropopoiesi(1948-1954), che hanno inizio con il capitolo introduttivo «Ritorno in carcere», redatto il 27 gennaio 1985.

Di sicuro la scrittura rappresentava per Pekić uno sforzo doloroso, perché incalzare il ricordo in quella direzione significava rivivere il passato e perciò far ritorno in carcere a tutti gli effetti. In proposito affermava (PEKIĆ 1987: 27) che l’uomo ricorda più volentieri anche la guerra più sanguinosa rispetto a un periodo di detenzione, perché nel carcere, nei campi di concentramento, in un qualunque regime di reclusione non vi è nulla di epico, ma tutto appare insensato, abbrutito, disumano. In poche parole: in carcere l’uomo non indossa mai i panni dell’eroe.

Già nel 1984 uscì una selezione delle opere di Pekić, tra le quali anche il diario del carcere Tamo gde loze plaču (Laddove le vigne piangono), dove in parte si preannunciano i temi degli Anni divorati dalle locuste scritto l’anno seguente: la scelta di quest’ultimo titolo non era casuale, bensì fortemente indicativa per il richiamo al libro del profeta Amos V:17, il pastore del Sud che si leva a denunciare l’ingiustizia e preannuncia l’imminente catastrofe. Egli così riferisce le parole del Signore: «In tutte le vigne vi sarà lamento, / perché io passerò in mezzo a te».

L’esplicito richiamo alla Bibbia è una cifra costante in tutta l’opera di Pekić (AHMETAGIĆ 2006), a partire da Il tempo dei miracoli. Qui, come in molti dei suoi scritti, ogni capitolo è introdotto da un versetto biblico, e così anche l’apertura delle porte del carcere, giacché il titolo del capitolo è appunto «Ogniqualvolta che la porta si apre, comincia una nuova vita», cui segue il passo di Giona I: 7: «Quindi dissero fra di loro: “Venite, gettiamo le sorti per sapere per colpa di chi ci è capitata questa sciagura”. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona». La percezione del tempo che traspare dalla parabola di Giona chiarisce la direzione del nostro cammino. E difatti la narrazione si presenta come un cammino di sofferenza e dall’incedere tortuoso che esaspera la condizione di chi lo affronta.

3. La difficoltà del raccontare l’esperienza carceraria

3.1 L’interrogatorio

A segnare l’inizio dell’esperienza carceraria è la porta di casa che si spalanca, quando Pekić era ancora ragazzo. Nella notte tra il 6 e il 7 novembre del 1948 vi scorse due individui in cappotti di pelle e in seguito vide chiudersi alle sue spalle quella stessa porta, dietro la quale scompare il volto pallido e sconvolto della madre. Arrestato e subito tradotto in cella, inizia qui il calvario di Borislav, scandito dall’assurdo interrogatorio, che nelle formule rimanda all’avventura kafkiana, dove il compito precipuo del giudice istruttore, come sottolinea Charles Simić (SIMIĆ 2006: 105), è costringere il detenuto ad accettare la logica dell’istruttoria al posto del reale stato di cose, per far ricadere su di lui la piena responsabilità di eventi che gli sono estranei. La realtà si configura dunque come un peccato contro la ragione, eppure quella stessa realtà il detenuto la deve scontare a vita. In analogia all’epopea di Solženicyn (1918-2008), il cui Arcipelago Gulag non a caso diventa un ricorrente punto di riferimento nelle memorie carcerarie di Pekić, la prima domanda che risuona senza tregua è: «Perché?». Ma, a differenza di Solženicyn, che ignorava le ragioni del suo arresto, Pekić le conosce bene, al punto che confessa con candore e ironia (PEKIĆ 1987: 61) quale fosse l’attività così sovversiva e politicamente pericolosa che lo aveva reso persona sospetta, dunque colpevole: affiggere piccoli manifesti sui muri della città. L’unica colpa, semmai, secondo Pekić stesso, era essersi fatto catturare. Da quel momento in poi, nel corso dei tre volumi, l’autore non smetterà mai di interrogarsi sulla necessità dell’istituzione carceraria, dei campi di concentramento e di detenzione, tentando anche di darne una spiegazione.

In queste memorie, che sotto il profilo letterario sfuggono a una univoca definizione di genere, il carcere fuoriesce da ogni cliché e si presenta sotto una luce amorfa, indistinta, evocato da Pekić con più formule, descritto come «istituzione civilizzata per la rieducazione dei cittadini che hanno fatto un passo falso, oppure degli asociali»4, un mondo parallelo e in sé circoscritto, senza dubbio molto ostico per chiunque intenda osservarlo da vicino, sondarlo, comprenderlo (218), dato che «Tutto il carcere è inferno, persino il migliore. […] Al di fuori del carcere – tutto è paradiso. Nell’inferno il paradiso si trova laddove l’inferno c’è di meno»5. Ma di quell’inferno pareva che Pekić, all’inizio, non si volesse occupare, come d’altronde la maggior parte delle persone. Di qui l’ovvia considerazione per cui i turisti, quando giungono in visita in una città sconosciuta, non sono certo attratti dalle carceri. Ma una volta che l’autore si è deciso a ripercorrere questo passato di dolore, inizia a leggere e studiare tutto quello che riesce a trovare circa la vita in galera, la condizione dei detenuti, i campi di concentramento, la tortura.

3.2 I luoghi del carcere

In realtà l’interesse per le carceri era iniziato prima, come egli stesso aveva ammesso: risaliva a quando era stato gettato in un corridoio semioscuro di cui non scorgeva il fondo (102), così come non era in grado di concepire il suo futuro… Quel corridoio nella semioscurità è un elemento decisivo nella poetica dello spazio carcerario, e non a caso, nel corso della narrazione, Pekić sarebbe ritornato con frequenza a La poétique de l’espace (La poetica dello spazio, 1957) di Gaston Bachelard (1884-1962), dove il filosofo francese illustra dal punto di vista fenomenologico in quali modi lo spazio possa influenzare l’immaginazione poetica. Uno dei concetti chiave è che la casa è il rifugio della persona e la sede delle sue aspirazioni, ma innanzitutto è il luogo della tranquillità e della pace, al cui opposto si situa la realtà del carcere. Di qui l’intenzione di Pekić di scrivere il saggio Carcere come poesia, con il quale intendeva dar vita a una poetica degli spazi di reclusione. E infatti prende a muoversi in una dimensione dove il primo reparto è quello dell’accettazione, cioè l’Ufficio registro matricole, con la sua aura di morte, sorta di ingresso nei sotterranei infernali, e al quale ogni reparto sembra far capo: entrati in carcere, è lì che ci si dirige ed è sempre lì che l’ufficiale giudiziario svolge tutte le pratiche, dal momento dell’arresto all’uscita. In questo Ufficio termina il compito delle forze dell’ordine; da questo momento in poi l’individuo è un semplice imputato e detenuto.

La prima particolarità dell’Ufficio, come specifica Pekić (1987: 109), è la condizione d’incertezza. Non si tratta soltanto di perdere le speranze, bensì la maggior parte delle certezze che fin lì avevano sostenuto l’individuo. In compenso la speranza permane salda. Il concetto d’incertezza sarebbe stato affrontato da Pekić molto tempo dopo, ad esempio nel romanzo filosofico e dalle venature di fantascienza intitolato 1999 (PEKIĆ 1984), dove grazie alla percezione di certo/incerto si scopre la vera natura dell’uomo.

L’altra caratteristica dell’Ufficio registro matricole è la sua atmosfera. È un ufficio con tutti gli elementi che lo connotano come tale, dunque si compone di scrivania, sedia, lampada, macchina fotografica e così via, eppure l’ambiente, polveroso, stantio e in disordine, non è che l’anticamera dell’altro mondo (PEKIĆ 1987: 110), la soglia di una civiltà nuova, parallela. Di lì si entra in quello che Bachelard definiva «corridoio onirico» nel quale, come sottolinea Pekić, di onirico non c’è però nulla, tanto da concludere: «Ho capito che, forse, era persino intelligente il fatto che mi avessero privato di cintura e cravatta.»6

Pertanto, l’antropopoiesi, cioè la formazione del cittadino – in questo caso con il processo di autocostruzione carceraria – non può che cominciare dal battesimo di fuoco, che per Pekić avviene attraverso l’istruttoria durata sei mesi in via Obilićev venac. Si tratta di una strada nel centro di Belgrado, dove al numero 4 aveva sede la Polizia politica, in seguito denominata «Polizia speciale», l’OZNA (Odeljenje za zaštitu naroda – Dipartimento per la protezione del popolo, 1944-1946), sostituita poi dall’UDBA (Uprava državne bezbednosti, Direzione della sicurezza statale, 1946-1966). L’edificio, tuttora esistente, durante e anche in seguito all’occupazione tedesca era erroneamente chiamato, anche dagli stessi detenuti, Glavnjača (JANKOVIĆ 2011), ma la Glavnjača nella seconda metà dell’Ottocento era la sede amministrativa del Municipio di Belgrado e comprendeva anche la direzione centrale della Polizia. Si trovava nella parte inferiore della piazza sulla quale si affaccia la Facoltà di Filologia e, fatto curioso, proprio perché sede del Municipio, il carcere della Glavnjača compariva anche nelle cartoline dell’epoca (fig. 2).

La sede del carcere al 4 di Obilićev venac (fig. 3), anche se non identificabile con la Glavnjača, era idealmente associata a essa, forse perché era sempre operativa o perché era il recapito ufficiale dell’Amministrazione municipale di Belgrado durante e dopo la guerra. In questo edificio i detenuti venivano alloggiati nella mansarda, non nei sotterranei come invece accadeva nella Glavnjača originale. Tra costoro figuravano i prigionieri politici, sistemati insieme ai criminali comuni, anche se oggetto di un trattamento più sfavorevole, dunque in condizioni peggiori rispetto a quanto si verificava nel Regno di Iugoslavia (CVETKOVIĆ 2009: 74). Situato in alto, quasi a contatto con il cielo, e in virtù della particolare collocazione nello schema dell’edificio, dove si parte dai piani bassi della cantina per salire fino al tetto, il carcere della mansarda, definito «casa» dai reclusi, poteva sembrare un piccolo paradiso, e per assurdo lo era, come ricorda Pekić (PEKIĆ 1987: 167), a condizione che non fosse presente il giudice istruttore.

3.3 La partita a scacchi con il giudice

L’incontro con questo giudice assume un rilievo particolare per Pekić, che faceva parte della cosiddetta «Gente della Mansarda»: qui, nelle memorie carcerarie, è citato solo con le iniziali P.S. e definito con ironia «il miglior amico del detenuto»7. Era stato proprio lui, in uno degli interrogatori, a rivelare a Pekić con tutta calma: «Tu ora puoi pensare di me qualsiasi cosa, ma sappi che qui sono io il tuo miglior amico.»8 E quella del giudice si rivela infatti una figura iconica per Pekić, con un ruolo di primo piano già nel romanzo Come placare il vampiro, metafora della discesa agli inferi in un regime totalitario, ma soprattutto testimonianza attendibile degli eventi più tragici e foschi dell’Olocausto. Dieci anni dopo quell’esperienza narrativa Pekić ritornava al «vampiro», cioè al famigerato passato che occorreva placare una volta per sempre. Un passato che credeva forse di aver definitivamente seppellito, così come credeva di aver ricacciato indietro ogni ricordo grazie alla stesura di un romanzo la cui trama si faceva materia viva oggetto di profonda rielaborazione. Ritornando in carcere, anche se solo con la mente, ritornò al suo romanzo del 1977, autocitandosi ed elevando quel giudice istruttore a Giudice Istruttore per eccellenza. Se nel 1987 l’identità del giudice non andava al di là delle iniziali P.S. che lo rendevano un’entità astratta, in Come placare il vampiro ha un nome: è il «colonnello Heinrich Steinbrecher», «uno dei principali vampiri di quel libro.»9 Lo Standartenführer Steinbrecher era un convinto sostenitore dello Stato di polizia, attento ai dettagli, scrupoloso esecutore della legge, seguace della logica e del ragionamento portato all’estremo, tanto da apparire un manipolatore delle coscienze. Nulla passava indenne sotto i suoi occhi, nulla sfuggiva al suo vaglio. Nelle memorie di Steinbrecher, come anche negli Anni divorati dalle locuste, si assiste al progressivo rimodellamento della personalità del detenuto, che mediante l’interrogatorio e la “formazione” carceraria viene decostruita e ricostruita, complice il sapiente quanto ostile intervento del Giudice Istruttore. Con una dinamica che allude alle memorie carcerarie, anche in Come placare il vampiro si assiste a un’alleanza tra lo spazio e la storia (BRAUDEL 2005: 12), seppur con la partecipazione di un altro protagonista, il professore Konrad Rutkowski, che affronta immani sofferenze in un processo di upstreaming (FENTON 1949: 236) dal noto all’ignoto, ossia da quanto pensava di conoscere a quanto di lì a poco avrebbe realmente scoperto (LAZAREVIĆ DI GIACOMO 2013).

Estrapolato da quel romanzo che esorcizza il vampiro circoscrivendone ogni negatività, Steinbrecher ricompare negli Anni divorati dalle locuste per trasformarsi un po’ alla volta agli occhi di Pekić nel suo consigliere personale (PEKIĆ 1987: 189). Un consigliere dalla presenza silenziosa, discreta, eppure uomo inflessibile. Un consigliere che sta alle spalle di Pekić per rivedere il manoscritto in un «modo perverso e del tutto slavo di complicare un lavoro logicamente impostato in forma semplice»10. Istantaneo il rimando a Il tempo dei miracoli, anche se in questo caso il ruolo di sorvegliante di Cristo tocca a Giuda, cioè a colui che deve portare Gesù ad «adempire la Scrittura», in linea con l’ossessione dell’apostolo. In Come placare il vampiro Pekić ha seguito un identico schema, quando Steinbrecher deve indurre l’interrogato Adam Trpković alla confessione. Ma Trpković non a caso si chiama Adam, e proprio come il progenitore dell’umanità non rappresenta una sfida per Steinbrecher, come non lo è per il Giudice Istruttore di Pekić, dal momento che per un giudice, almeno così pensa l’autore (PEKIĆ 1987: 188-189), la tentazione non è costituita da Adamo, bensì da Cristo. Se Adamo parla, l’istruttoria e l’interrogatorio possono essere tenuti anche da un principiante. Cristo invece tace, come tace il Cristo di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, nel capitolo del «Grande Inquisitore». Il Cristo silente viene arrestato secondo un ordine impartito quando fa risuscitare una bambina di sette anni, ed è sempre il Grande Inquisitore che fa visita a Cristo nella sua cella, per poi confessargli che non è la libertà ciò di cui l’uomo ha bisogno, bensì la sicurezza e il pane. E intanto gli dice: «“Sei Tu? sei Tu?” Ma, non ricevendo risposta, s’affretta a soggiungere: “Non rispondere, taci! E che cosa mai potresti Tu dire? So fin troppo bene, che cosa diresti. Ma Tu non hai neppure il diritto di aggiunger qualcosa a quello che già è stato detto da Te in precedenza”» (DOSTOEVSKIJ 2005: 334). Non a caso lo Steinbrecher degli Anni divorati dalle locuste confessa che il “dovere professionale” del carcerato consiste nel tacere, mentre è ufficio del giudice istruttore farlo parlare con i «mezzi di un sofisticato gioco spirituale»11.

Una soluzione all’impasse Pekić la doveva pur trovare ed ecco presentarsi l’ipotesi di questo «sofisticato gioco spirituale»: una partita a scacchi, una contesa senz’armi e subito equiparata all’indagine istruttoria di quei mesi a cavallo tra 1948 e 1949, raccontata come descrizione e analisi di quella partita (193), con l’inevitabile aiuto del colonnello Heinrich Steinbrecher. In quella disfida non cruenta le memorie intorno a fatti avvenuti molto tempo prima e a cui Pekić fa ritorno dopo il 1980, dunque a distanza di parecchi anni – pare che l’autore avesse distrutto gli scritti della sua detenzione (PEKIĆ 1984: 252; RAKIĆ 2008: 188) –, costituiscono in realtà una specie di confessione «raffreddata», del tutto risolta in un intreccio di domande logiche e di risposte dove a porsi in evidenza non è tanto il tacere bensì che cosa rispondere e in che modo. In proposito sono significative alcune evidenze, come ad esempio quella per cui il giudice istruttore in realtà sa meno di quanto il carcerato presuma lui sappia. In questo botta e risposta tra giudice istruttore e carcerato, i dialoghi, vere partite a scacchi, sfiorano il surreale. Forse la prova più illuminante e al contempo più concisa è data da questo colloquio, che Pekić ammette di aver ascoltato:

Giudice Istruttore: Cos’è la verità?
Carcerato: Quello che è.
Giudice Istruttore (indicando il portacenere): Questa è una locomotiva?
Carcerato: Non lo è.
Giudice Istruttore: Il fatto che questa non sia una locomotiva è la verità?
Carcerato: Lo è.
Giudice Istruttore: Allora lo vedi che la verità può essere anche quello che non è.12

Nella scissione temporale tra quanto è avvenuto e la sua narrazione, qui filtrata attraverso lo scambio di battute tra giudice istruttore e carcerato, Pekić non può fare a meno del costante riferimento a Steinbrecher, il personaggio del romanzo cui infonde vita fino a trasformarlo nel suo Giuda personale che lo stimola a riflettere D’altronde lo stesso Pekić aveva ripetuto più volte che per la sua scrittura non attingeva all’esperienza empirica, bensì a quella riflessiva, frutto di rielaborazione. In questo modo il dato biografico diventava materia privilegiata per una radicale trasposizione letteraria all’origine di una serie di metamorfosi che avrebbero liberato il protagonista soprattutto dal fardello emotivo.

3.4 Dinamiche dell’interrogatorio

Nel corso dell’interrogatorio, in questa sovrapposizione temporale (e spaziale) avviene un fatto curioso: dopo richiami e citazioni, Steinbrecher si mette in luce come uno dei personaggi di questo primo libro di memorie carcerarie, figura appositamente recuperata e funzionale alla narrazione di quanto avvenuto. In questa trasmutazione egli fuoriesce dalla sotie13 ed entra a pieno titolo nell’antropopoiesi (carceraria), proprio nel momento in cui il personaggio Steinbrecher plasma il personaggio Pekić. A questo punto Steinbrecher prende coscienza del procedimento narrativo e della storia, e si rivolge a Pekić invocando un altro personaggio del romanzo del 1977, il professore di storia Konrad Rutkowski: «Pekić, Lei non deve essere sciocco come Rutkowski.»14 Per l’autore, per il lettore e tanto più per i personaggi, in questo sovrapporsi di piani temporali (225) non ha importanza che si tratti del romanzo scritto dieci anni prima o delle memorie del presente. Sollecitare la memoria è come scoperchiare il vaso di Pandora, una volta iniziato il processo né l’autore Pekić né il protagonista Pekić avrebbero più potuto tirarsi indietro, pertanto bisognava affrontare il vampiro del passato (carcerario) in un incontro diretto, e questa volta per sempre.

L’incontro sotto forma di interrogatorio, che doveva consistere in una semplice registrazione di domande e risposte tra il Giudice Istruttore e Borislav Pekić, nelle memorie scritte a posteriori evolve a particolare formula narrativa che eleva un verbale di polizia a racconto letterario. Lo stesso Pekić (263) era convinto che anche un atto amministrativo come un verbale, se ben redatto, potesse avere dignità letteraria, e in quanto genere di scrittura si sarebbe collocato tra la prosa documentaria e la fantascienza. «Si tratta forse», osserva Pekić, «dell’unico ambito in cui la fantasia viene accolta come documento e dove, esclusivamente con i mezzi e la logica dell’immaginazione, si postula una realtà che influirà in modo significativo sul piano che definiamo reale e oggettivo»15.

Per Pekić il verbale dell’interrogatorio doveva rappresentare un elemento di interesse costante nel tempo. Nel 1970 al Centro culturale studentesco di Lubiana fu infatti inscenato il dramma Rađanje jednog zapisnika (Nascita di un verbale). Nel testo originale sloveno, i personaggi avevano nomi identici a quelli del romanzo Come placare il vampiro. Nel 2006 usciva inoltre una versione più lunga del dramma, la cui stesura risaliva al 1973, ed è sintomatico che l’autore, nell’indicare il tempo e il luogo dell’azione, abbia detto: «La farsa ha luogo in una stazione di polizia indefinita di un paese indefinito in un tempo indefinito».16

4. Carcere e assurdo

In analogia a Come placare il vampiro (cfr. LAZAREVIĆ DI GIACOMO 2013: 504), anche qui, in Anni divorati dalle locuste, alcuni elementi vanno a ricomporre la scacchiera di questa farsa tragica, cioè di una tragedia umana che ravvisa nell’assurdo il punto di partenza, e cioè: a) il luogo, rappresentato dal carcere in via Obilićev venac 4: l’inferno cui si giunge attraverso una porta e il corridoio dell’Ufficio registro matricole; b) il tempo, quello del carcere: una dimensione in sé conclusa, dove si perde la percezione del suo scorrere e da cui ricava che il passato è solo una privazione (PEKIĆ 1987: 84); non a caso Pekić aveva intenzione di intitolare la prima versione delle sue memorie alla maniera del capolavoro di Proust: Alla ricerca del tempo perduto (cfr. RAKIĆ 2008: 214); c) il deuteragonista: il Giudice Istruttore, vero advocatus diaboli, colui che deve spezzare l’anima del protagonista (imputato) e viene identificato con un altro deuteragonista, quello di Come placare il vampiro, il colonnello Steinbrecher (alla lettera: «colui che spezza le pietre»); d) il corpus delicti: qui praticamente inesistente, eppure pronto a materializzarsi tramite l’ammissione di colpa, anch’essa inesistente, a seguito di una partita a scacchi, simbolo dell’interrogatorio tra il Giudice Istruttore e Pekić; e) la personificatio del protagonista Pekić: con l’aiuto del deuteragonista Giudice Istruttore è finalmente in grado di prendere coscienza di sé. Attraverso la partita a scacchi in cui si rispecchia l’interrogatorio, il Giudice Istruttore P.S. alias Steinbrecher avrà il compito di trasformare il protagonista da interrogato a Interrogante, questa volta di se stesso. In un simile gioco di strategia, dove l’obiettivo è attaccare l’avversario impedendogli di sottrarsi alla cattura, la tattica diventa elemento insostituibile, tanto più necessario per calcolare le mosse a breve termine, le contromisure da mettere in pratica nel minor tempo possibile. Se prevedere e anticipare le decisioni dell’avversario era diventato per Pekić una vera ossessione, costituiva tuttavia l’unica strada per prepararsi le risposte più efficaci.

Ma è lo stesso Pekić ad ammettere (205) che mentre la vera partita cominciava per iniziativa del Giudice Istruttore, egli si rendeva disperatamente conto che tutte le mosse, tutta la tattica immaginata, concepita, elaborata non funzionava affatto, e che a porre le regole era qualcun altro, il giudice, oppure «loro», entità astratte che non ha importanza specificare. È in quel frangente che appare chiaro che non si è più alle prese con una partita a scacchi, visto che le regole vengono modificate di continuo e tutte le ipotesi logiche sono scartate perché fallaci (211). Si comprende piuttosto quale sia l’assurdità alla base di tutta la storia: il desiderare un futuro migliore per il proprio Paese. Pekić era stato accusato del contrario, cioè di agire contro gli interessi della sua terra e della sua gente.

A distanza di anni, ripercorrendo il lato grottesco della vicenda, Pekić che cosa aveva imparato? Cosa rimaneva allo scrittore dell’analisi di una partita a scacchi, di quella vita trascorsa inutilmente, dove non vi era prospettiva alcuna di vincere la partita senza sacrificare un pezzo di sé, nel tentativo di non far divorare dalle locuste la propria esistenza e il proprio passato? Restavano due punti fermi e il primo di questi era perdonare il Giudice Istruttore:

Sento, ora che è finita l’istruttoria ufficiale, la necessità di congedarmi da P.S., il mio giudice istruttore. Tutto sommato, non era un uomo cattivo. Mi pare persino il migliore dell’epoca in cui lavorava e migliore di quanto la natura del suo lavoro non esigesse. Ho l’impressione che tutto ciò che ci poteva essere in lui di cattivo provenisse in parte dalle idee, in parte dal suo incarico. Era rozzo a volte, ma mai crudele. […] Non era particolarmente ingegnoso, né colto – un difetto a causa del quale non lo si sarebbe potuto in nessun modo immaginare nella polizia di Steinbrecher – ma aveva una sana logica da contadino, appena incrinata dalla dialettica, una certa esperienza di vita e abbastanza humour. In questo senso ho avuto abbastanza fortuna.17

5. Esperienza civile?

Ma una partita a scacchi in genere non prevede solo tattica, bensì anche e soprattutto strategia, vale a dire una visione di più ampio respiro, necessaria per stabilire obiettivi di lungo termine, come evocato dal vocabolo scacchi che deriva sì dal persiano shah (“re”), ma a sua volta è etimologicamente connesso allo zoroastriano asha, “Ordine Cosmico” o “Verità cosmica” che gli scacchi dovrebbero prefigurare (BURCKHARDT 1969). E questa partita tra due sfidanti si pone ora su un piano superiore, antropologico, verso il quale tende l’intera opera di Pekić, a partire da Il tempo dei miracoli. Trasferire l’esperienza carceraria dalla dimensione individuale a quella universale, antropologica: ecco in che cosa si risolve la strategia di Pekić, resa ancora più palese dal fatto che lo scrittore insiste nel chiamare il carcere «civiltà». Quest’esperienza individuale è al centro di un processo di sublimazione, che inizia da Il tempo dei miracoli e si protrae fino ad Atlantide e 1999, romanzi antropologici per eccellenza. Negli appunti, che fanno leva sulla sola memoria, e che sostituiscono le parti lacunose del Diario in corrispondenza dei mesi di novembre-dicembre 1948 e gennaio 1949, Pekić, a distanza di tempo e di spazio, all’apice di una visione universale, ammette: «Io vivo perché spero e temo, e non c’è nulla né di odio né di amore che potrebbe interferire tra me e i miei giudici istruttori.»18 Una dichiarazione che rivela la ferma determinazione a non far divorare dalle locuste ogni aspetto di sé.

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Note

↑ 1 PEKIĆ 1987: 357: «Kasnih sedamdesetih posetio me je u Londonu bivši zatvorenik. Zatekao me je kao pripremam vrijuću vodu da njome polijem travnjak u vrtu koji mi je smetao. Zamolio me je da to ne činim. Ne, barem pred njim. Jedna kolonija mrava pravila mu je društvo u istražnoj samici. I on misli da ga je ona sačuvala. Nisam uništio mravinjak. Ni tada, ni posle». Tutte le traduzioni sono nostre.

↑ 2 Ibid. 27: «Kao da pametnija posla nismo imali».

↑ 3 Ivi: «nisam o njima znao ništa naročito da kažem».

↑ 4 PEKIĆ 1987: 12: «civilizovane ustanove za preodgajivanje posrnulih ili asocijalnih građana».

↑ 5 Ibid. 167: «Ceo je zatvor pakao, pa i najbolji. […] Izvan pakla – sve je raj. U paklu je raj tamo gde je pakla najmanje.»

↑ 6 Ibid. 112: «Shvatio sam da je, možda, i pametno što su mi oduzeli kajiš i kravatu.»

↑ 7 Ibid. 121: «zatvorenikovim najboljim prijateljem».

↑ 8 Ibid. 122: «Ti sad možeš ma šta o meni misliti, ali znaj da sam ti ovde ja najbolji prijatelj

↑ 9 Ibid. 185: «jednog od vodećih vampira te knjige.»

↑ 10 Ibid. 189: «neku vrstu perverznog i kranje slavenskog kompliciranja logički jednostavnog posla».

↑ 11 Ivi: «Sredstvima delikatne duševne igre».

↑ 12 Ibid. 122: «Islednik: Šta je istina? / Isleđenik: Ono što jeste. / Islednik: (Pokazujući na pepeljaru) Da li je ovo lokomotiva? / Isleđenik: Nije. / Islednik: Da li to da ovo nije lokomotiva jeste istina? / Isleđenik: Jeste. / Islednik: Eto vidiš da istina može biti i ono što – nije.»

↑ 13 Così Pekić aveva identificato il suo romanzo sul vampiro, con un termine che ne definiva i personaggi (sots), cioè buffoni subdoli che agivano guidati da un capo (Prince de sots).

↑ 14 PEKIĆ 1987: 222: «Ne budite budala kao Rutkowski, Pekiću.»

↑ 15 Ibid. 263: «To je valjda jedino područje u kojoj se fantazija prima kao dokumenat i gde se, često isključivo sredstvima i logikom imaginacije, postulira stvarnost koja će bitno uticati na onu koju nazivamo stvarnom i objektivnom.»

↑ 16 PEKIĆ 2006: 8: «Farsa se zbiva u neodređenoj Policiji neodređene zemlje i u neodređenom vremenu».

↑ 17 PEKIĆ 1987: 264: «Osećam, sada na završetku zvanične istrage, potrebu da se od P.S., mog islednika, oprostim. Sve u svemu, nije bio rđav čovek. Čini mi se čak i bolji od vremena u kome je radio i od onoga što je priroda posla zahtevala. Imam utisak da je sve što je u njemu rđavo bilo poticalo delom od ideje, delom od službe. Bio je grub ponekad, ali nikad surov. […] Nije bio naročito uman, ni obrazovan – nedostatak zbog kojeg se u Steinbrecherovoj policiji ne bi nipošto mogao zamisliti – ali je imao zdravu seljačku logiku, tek načetu dijalektikom, izvesno životno iskustvo i dosta humora. U tom sam pogledu imao veliku sreću.»

↑ 18 PEKIĆ 2013: 20: «Ja živim zato što se nadam i što strahujem, i nema ništa ni od mržnje ni od ljubavi što bi se umešalo između mene i mojih islednika.»

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482