La funzione simbolica del carcere nell’immaginario letterario e cinematografico americano
Indice
1. Puritanesimo e frontiera: le due matrici dell’immaginario americano
2. La costruzione puritana dell’immaginario del carcere
3. La frontiera è finita: classificare e controllare le metropoli
5. Dalla catalogazione alla reclusione: l’avvento del moderno sistema carcerario americano
Abstract
Italiano | InglesePoche culture sono ossessionate dal tema del carcere come quella americana. La tesi è che questa ossessione sia frutto della particolare concezione dello spazio che si è andata sedimentando in America a partire da due archetipi originari: il puritanesimo e la frontiera. Visto con gli occhi della frontiera il carcere è l’esito distopico dell’assenza di spazio che produce conflitti non mediabili. Per il puritanesimo, il carcere rappresenta simbolicamente il lato oscuro e diabolico che va perennemente delimitato e controllato sino alla fine dei tempi.
1. Puritanesimo e frontiera: le due matrici dell’immaginario americano
Poche culture sono ossessionate dal tema del carcere come quella statunitense: dalle storie western (si pensi alla costante presenza o evocazione del carcere di Yuma) a quelle di evasione (Escape from Alcatraz – Fuga da Alcatraz o la serie tv di successo Prison Break), dai trial movies alla fantascienza (in Escape from New York – 1997: Fuga da New York l’intera isola di Manhattan viene riconvertita in un immenso penitenziario) fino a diventare un genere narrativo specifico: il prison novel o movie.
Per comprendere le ragioni che fanno del carcere uno dei contesti narrativi più potenti e duraturi dell’immaginario americano bisogna per forza fare riferimento ai due grandi archetipi che fondano tale immaginario: quello puritano (e dunque religioso), che risulta dominante sino al XVIII sec. circa, e quello della frontiera, che si sviluppa molto rapidamente nel XIX sec. e che, in una prima fase, dà l’impressione di essere in grado di soppiantare e sostituirsi al primo.
Queste due radici sono state viste spesso come antagoniste e irriducibili. Così se per F. Turner lo spirito americano è essenzialmente legato alla frontiera (TURNER 1920), per S. Bercovitch l’eccezionalità americana deriva direttamente dalla sua matrice puritana (BERCOVITCH 1975, 1992). Al contrario P. Miller, rintracciando nel puritanesimo dei Padri Pellegrini e dei successivi transfughi la specifica connotazione di libertà d’azione derivante dal contratto di fede con Dio, il cosiddetto “Patto della Grazia”, lo predispone di fatto a misurarsi in vario modom con lo spirito di apertura della frontiera (MILLER 1939, 1953, 1956). In altri termini il cosiddetto spirito della frontiera trova terreno fertile in questa particolare forma di puritanesimo, almeno sin quando c’è spazio fisico a sufficienza per espandersi, cioè fino alla fine dell’Ottocento.
E in effetti l’immaginario americano,1 come lo conosciamo oggi, nasce di fatto proprio in questo periodo con la fine della frontiera storica e quindi della possibilità di avere a disposizione una riserva di spazio selvaggio e inesplorato (dal punto di vista degli abitanti bianchi dell’Est ovviamente), percepita come infinita. La frontiera aveva funzionato sin dall’inizio come il luogo delle infinite opportunità e creato sia il mito dell’american dream, senza il quale il concetto stesso di cultura americana non avrebbe senso, sia una particolare predisposizione psicologico-politica a considerare lo spazio come unico strumento di mediazione di tutti i tipi di conflitto (TARZIA, ILARDI 2015). Ecco perché, a partire dal XX sec., la fine della frontiera genera la necessità di un sistema mentale e culturale (che qui appunto definiamo “immaginario americano”) che, da un lato, sappia controllare e governare i nuovi affollati spazi metropolitani, e, dall’altro, provi a scoprire-inventare-simulare nuove dimensioni spaziali che perpetuino la grande narrazione del “sogno americano” e continuino a funzionare come dispositivi politici di risoluzione di ogni tipo di conflitto. È chiaro che, fino a quando una nuova frontiera non sarà finalmente individuata, l’altra matrice, quella puritana, continuerà a funzionare ma con finalità di controllo (intendendo per “puritanesimo”, lo ripetiamo, una mentalità che, nata da una struttura ideologica religiosa, si è trasformata in immaginario), rimanendo predominante. Per tutto il Novecento l’immaginario cercherà di mettere a punto una serie infinita di sistemi di catalogazione e governo dello spazio che vedono proprio nel carcere quello più eclatante.
2. La costruzione puritana dell’immaginario del carcere
La fondazione della figura metaforica del carcere ha una matrice puritana e la sua costruzione si snoda attraverso un processo di lunga e tortuosa durata. Per capire meglio il senso di questa affermazione, bisognerà partire da una contrapposizione basilare, quella tra cattolici e calvinisti.
Deve essere chiaro che, nella sua forma primigenia, l’idea cattolica del carcere è legata al concetto di redenzione attuato attraverso un percorso di purificazione dal male. In altre parole si tratta di una visione purgatoriale. Quando, il 26 dicembre 1958, Giovanni XXIII, il “papa buono”, visita la prigione di Regina Coeli a Roma e si rivolge ai detenuti assiepati intorno a lui, egli può parlare convintamente di quel luogo come “casa del padre”: Dio non può non essere tra quelle celle, in mezzo alla sofferenza degli ultimi, poiché quello è comunque uno spazio di “speranza”. Là dove Dio non può risiedere è invece nell’Inferno, lo spazio dove la speranza è negata, dove tutto è stato deciso. Nella visione americana di matrice puritana il carcere è appunto qualcosa di infernale, anzi, è l’Inferno. Lo scopo del detenuto non è quello di redimersi scontando la pena ma di fuggire, di tornare alla propria esistenza precedente.
Ma da dove arriva questa opposta visione? Evidentemente da un sistema mentale e culturale specifico: quello puritano appunto. Proviamo a dare alcune coordinate.
La fondazione dell’immaginario puritano si ha in Inghilterra. È un puritano d’eccezione, John Milton, a formalizzarlo per la prima volta. Nel suo Paradise Lost (Paradiso perduto - 1667) l’Oltre è costruito per dimensioni oppositive: lo spazio del Bene (Paradiso e Eden) è contrapposto a quello del Male (Inferno e Pandemonium) e diviso da un immenso Vuoto che rappresenta l’assoluta mancanza di mediazione tra Bene e Male. Gli angeli ribelli sono espulsi dal nucleo puro e concentrati in uno spazio che ha già molto del carcere (mura che lo cingono, angeli-secondini che lo sorvegliano da fuori). Il Pandemonium, il palazzo di tutti i demoni, è già nel suo caos e frastuono quello che oggi correntemente significa.
Nel mondo puritano il Bene e il Male sono dati una volta per tutte, lucidamente differenziati e segregati, non possono entrare in contatto, miscelarsi. Non c’è possibilità che qualsivoglia pellegrino transiti e si trasformi passando da uno spazio all’altro perché vige il basamento dottrinale protestante della predestinazione. Il vuoto assoluto rimanda alla mancanza di una struttura funzionale che medi tra i due opposti. Nel mondo cattolico la costruzione è invece triadica e il Purgatorio, ideazione dell’XI secolo (LE GOFF 1981), assume nell’Oltre la posizione occupata nel mondo dalla istituzione della Chiesa.
L’idea messa su carta da Milton nel 1667 viene di fatto già tracciata nella mappa del territorio vergine americano a partire dai primi decenni del ‘600, con lo sbarco dei Padri Pellegrini e poi dei primi puritani (anni ‘40). Il sistema mentale e simbolico, come avviene sempre in America, si realizza concretamente nello spazio (BAUDRILLARD 1986). I padri pellegrini e i puritani che li seguiranno proiettano la loro mappa mentale sul territorio e sulle figure che lo abitano, infondendo a ogni elemento una significazione specifica.
L’Eden fortificato diventa il villaggio puritano, lo spazio vuoto è da subito rappresentato dall’oceano e dalle immense e misteriose foreste, mentre il Pandemonium si materializza nei villaggi indiani e i demoni nei nativi. È quest’ultimo insieme figurale che qui ci interessa. Nelle prime rappresentazioni forniteci dagli acquerelli di John White alla fine del ‘500 il villaggio indiano delle coste e dell’entroterra orientale, a differenza degli accampamenti tramandati dall’epopea western riferibili ai nomadi delle grandi pianure, è fortificato, circondato cioè da una robusta palizzata, e ha già chiaramente le caratteristiche adatte a “trasformarlo” in un vero e proprio Pandemonium: chiasso, danze forsennate, coacervo di istinti irrazionali e “selvaggi”. In tale contesto l’indiano è raffigurato esattamente come un demone (ricorda l’immagine del Minosse della Cappella Sistina, con la carnagione bronzea, il naso adunco, le orecchie appuntite). Questo Pandemonium sulla terra diviene quasi subito un proto-carcere. Di lì a poco infatti, negli ultimi decenni del Seicento, un genere letterario autoctono-coloniale di enorme diffusione,2 il captivity tale (ovvero la narrazione standardizzata che si articola sui momenti salienti dell’assalto indiano all’insediamento coloniale, la deportazione delle donne e la loro cattività nella wilderness, fino alla liberazione e al ritorno a casa), adibirà il villaggio indiano-inferno a prigione di segregazione per le donne puritane rapite e costrette lontano dal loro mondo.
Ancora qualche decennio e il Pandemonium nelle terre selvagge si trasferirà in città. Il passaggio formale avviene guarda caso sempre a opera di un puritano, Daniel Defoe, che nel 1722, dopo il successo clamoroso di Robinson Crusoe, affronta il problema della vita avventurosa e chiaramente predestinata di una donna, Moll Flanders, in apparenza dedita al male e che alla fine troverà fortuna e felicità proprio in America. Moll conosce il terribile carcere londinese di Newgate già nella pancia della madre, che vi è reclusa, e dopo alterne vicissitudini verrà effettivamente rinchiusa (anni dopo) in quello stesso luogo. Per ammissione di molti lettori contemporanei la parte più affascinante del racconto, quella più attesa, è proprio la descrizione della vita del carcere, del suo orrore infernale, del suo rumore, della sua concentrazione di tutte le aberrazioni umane senza speranza, in altre parole della sua caratterizzazione di Pandemonium.
Potrà sembrare strano ma è proprio da qui che si dipana un filo lunghissimo capace di arrivare sino a noi: tra la fondativa e lontanissima figura di Moll Flanders e, ad esempio, quella di Edward Bunker, il celeberrimo detenuto-scrittore dei nostri tempi che ha raccontato le sue esperienze carcerarie in Education of a Felon (Educazione di una canaglia - 2000), c’è un legame profondo. Tale legame è dato dal procedimento del racconto che personaggi così diversi si trovano a incarnare. La vicenda di Moll Flanders, oltre a fondare l’archetipo del carcere-pandemonium, introduce infatti anche la costruzione del mito narrativo a esso legato, anch’esso di matrice puritana: l’eroe finisce nello “spazio maledetto” e ne fugge, o ne esce, tornando a casa.
Da dove nasce questa mitologia dell’attraversamento dell’Inferno? Il ricordo va naturalmente subito a Dante, ma il suo viaggio è fisico, il viaggiatore si contamina e solo così può uscire completamente trasformato. La narrazione cattolica prevede un cambio di status: cioè prevede che ci si sporchi le mani se si vuole accedere alla purezza. Nell’idea puritana al contrario, espressa da John Bunyan nel suo Pilgrim’s progress (1678), il Pellegrino Cristiano non entra nell’Inferno, può solo osservarlo dall’alto, per poi proseguire spedito verso la meta finale a cui è predestinato: la Gerusalemme celeste. Naturalmente, a differenza del personaggio allegorico di Bunyan, Moll non può guardare l’Inferno dall’alto: come le sue progenitrici dei captivity tales, vi deve entrare perché, lo si è visto, il lettore vuole conoscere i segreti del regno del male, ma la sostanza non cambia. La donna tornerà a casa incontaminata, non diventerà indiana, connotandosi definitivamente come predestinata. Attraversare l’Inferno è a tutti gli effetti una prova, ma una prova che non è finalizzata al cambio di status, come nel racconto della fiaba primordiale studiato da Propp: essa conferma piuttosto lo status precedente, quello di predestinato al Bene o al Male.
Questo filone legato al captivity avrà una lunghissima vita nel mondo americano, non solo nella narrativa e nel cinema western, ma anche nell’infotainment (si pensi alla vicenda della soldatessa Jessica Lynch durante il conflitto in Iraq, nel 2003). Tuttavia il suo vero sviluppo in chiave moderna sarà nel “prison”, tra i più diffusi “generi” dell’immaginario americano. Il protagonista attraversa l’Inferno del carcere e ne esce come era prima, sia che risulti innocente e dunque predestinato ad una vita libera (si pensi a Escape from Alcatraz - Fuga da Alcatraz film del 1979 di Don Siegel) sia che si scopra essere un predestinato alla rovina (ad esempio in Cool Hand Luke – Nick mano fredda, opera del 1967 di Stuart Rosenberg). Naturalmente ci sono molte eccezioni a questo schema, ma in linea di massima l’esito è quello della “conferma dell’eroe”. E la memoria va immediatamente alla figura devastata e invitta di Papillon (1973), che per tutta la vita combatterà dentro di sé, prima che contro l’istituzione carceraria, per mantenere integra l’idea della fuga, cioè la difesa della sua vera essenza di uomo libero e sostanzialmente innocente, a differenza di un’altra figura esemplare, quella del suo compagno Degas, che alla fine cederà all’Inferno e vi morirà. Una struttura narrativa che, trasferita in un manicomio, ritroviamo anche nel pluripremiato film di Miloš Forman One Flew Over the Cuckoo's Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo - 1975). Qual è la collocazione di un simile sviluppo narrativo nel complesso sistema dell’immaginario americano classico (dagli anni ‘60 la struttura subisce delle incrinature), all’interno del quale la ripetizione spesso compulsiva dei “generi” ha la precisa funzione di perpetuazione della doppia matrice puritana e della frontiera?
Proviamo a dare alcuni esempi, semplificando molto.
Il western concretizza da sempre (e fino agli anni ’60-’70) l’epos della frontiera, l’epica di una nazione predestinata alla conquista di uno spazio infinito, strumento di rigenerazione e di superamento dei conflitti e delle incrostazioni della Storia.
L’horror provvede all’emersione del male esterno rimosso all’interno della «casa», della home identitaria, alla sua individuazione, controllo ed espulsione. L’idea si basa sulla convinzione che, se il deviante è individualizzabile, esso non mina le fondamenta collettive e dunque la legittimità dell’intera nazione.
Il court room tale o movie definisce periodicamente e ciclicamente da che parte sta il vero Bene e il vero Male.
Il war tale e il war movie ribadiscono la predestinazione alla vittoria in senso collettivo, connotando la nazione come prediletta di Dio.
In questo quadro il prison, come il captivity, hanno la precisa funzione di ribadire il perdurare del principio della predestinazione (al Bene come al Male) individuale, e dunque quella di confermare in modo quasi rituale il principio fondamentale della ideologia e della mentalità puritane, vale a dire la «distinzione».
3. La frontiera è finita: classificare e controllare le metropoli
Come abbiamo appena visto, per poter far fronte ad ogni sorta di attacco e per poter formalizzare la pratica della distinzione rispetto agli “altri”, l’immaginario puritano è addestrato a sviluppare pratiche di stabilizzazione del nemico e dei suoi spazi: dividere, elencare, razionalizzare, individuare categorie standard entro le quali far rientrare qualsiasi “personificazione del male” che l’identità americana abbia la sventura di vedersi piombare da fuori. Tali pratiche, spogliate spesso di ogni matrice religiosa, diventano, nel Novecento, i principali strumenti di legittimazione simbolica di tutte quelle politiche finalizzate a controllare e governare i nuovi affollati spazi metropolitani, orfani della via di fuga rappresentata dalla frontiera, che aveva abituato la cultura americana a considerare lo spazio come unica vera mediazione del conflitto: se c’è abbastanza spazio il conflitto non può prodursi o meglio, ed è questo il nucleo più profondo dell’immaginario americano, l’unica vera causa del conflitto è la mancanza di spazio.
Il principale strumento di controllo che l’immaginario americano novecentesco riprende dalla sua antica matrice puritana è la paranoia per una conflittualità potenzialmente irrisolvibile e non mediabile perché lo spazio è finito (HOFSTADTER 1963; PANELLA, GRAMANLIERI 2012). Essa ha la funzione di catalogare e classificare il mondo in modo da poter distinguere perfettamente il Bene dal Male, eliminare quest’ultimo e governare quindi lo spazio puntando anche a crearne di nuovo. L’esito è un puritanesimo inquisitorio e poliziesco, una parossistica esigenza di controllo che caratterizzerà la cultura americana in ogni suo aspetto per tutto il Novecento, dal Proibizionismo e dalle prime cacce alle streghe comuniste di inizio secolo, fino ad Echelon e al Patriot Act.
D’altronde una delle caratteristiche dell’immaginario americano è proprio l’ossessione per la produzione continua di standard, statistiche, database, archivi, procedure, checklist, questionari, classifiche. Ogni item di un sistema deve essere chiaramente identificato, avere un nome, un protocollo, un numero d’ordine. Nel poco spazio rimasto ciascun elemento deve essere collocato in un luogo ben preciso e separato dagli altri, in modo che non si creino mai attriti tra le varie parti del sistema, o che una parte possa invadere lo spazio dell’altra. L’obiettivo finale è quello di poter eliminare facilmente quelle sezioni considerate malate o pericolose.
Ma quali sono i contesti che hanno più bisogno di controllo? Soprattutto quelli che vedono la presenza di una grande molteplicità di elementi in uno spazio ristretto: le metropoli (ILARDI 2010). Nel corso del XX sec. urbanistica e architettura, tecnologia e politica saranno gli strumenti pratici per questo immane tentativo di classificazione degli spazi metropolitani, e che vedrà nel carcere il dispositivo più estremo e repressivo.
Catalogare la metropoli vuol dire innanzitutto classificare la folla che la abita, toglierla dall’anonimato, assegnare ai suoi componenti spazi specifici in base a etnia, religione, censo, stili di vita. La folla deve essere sempre una “folla di”: consumatori e acquirenti negli shopping mall e nei parchi tematici; fedeli nelle chiese; tifosi e fan negli stadi; bianchi, neri, asiatici e latinos nei quartieri-ghetto loro assegnati; informatici a Silicon Valley; broker a Wall Street; pensionati in Florida; gay nel Village o a San Francisco; giocatori d’azzardo a Las Vegas, etc. La forma della griglia urbana, modulare e perfettamente scomponibile, spesso attraversata da vere e proprie autostrade interne, ha proprio questo compito: delimitare e funzionalizzare perfettamente gli spazi e catalogare i cittadini anche in base a gerarchie economiche e di potere per cui, ad esempio, il grattacielo gerarchizza la metropoli verticalmente mentre il sobborgo orizzontalmente. Soprattutto quest’ultimo, a partire dagli anni ‘50 del XX sec., rappresenterà la principale struttura abitativa dello sviluppo urbano americano attraverso i cosiddetti CID (Common Interest Development - Sviluppo di interessi comuni). Si tratta di agenzie che mettono in contatto gruppi di cittadini che abbiano la stessa età, gli stessi gusti, lo stesso censo o semplicemente condividano la stessa idea di abitazione. In base a tali elementi costruiscono poi il quartiere a cui avranno accesso solo ed esclusivamente i suoi abitanti i quali, in totale autonomia, ne decidono le regole spesso basate proprio sulla paranoia (MCKENZIE 1994): il sobborgo diventa così gated community, quartiere fortezza chiuso da mura, filo spinato elettrificato, sorvegliato da telecamere e polizie private.
È chiaro quindi che, se capovolgiamo il punto di vista, tutte queste strutture urbanistico-architettoniche (grattacieli, sobborghi, parchi tematici, centri commerciali, etc.) assumono l’immagine di celle all’interno di un’immensa prigione che è ormai diventata la metropoli (DAVIS 1990 e 1998).
4. Catalogare i devianti
Poiché però la semplice correlazione territorio-cittadini poteva non essere sufficiente a evitare la conflittualità, nel corso del Novecento la paranoia americana si è messa al lavoro per produrre sempre più sofisticati sistemi di schedatura delle persone. E non è un caso che per quasi cinquanta anni (dal 1924 al 1972) gli Stati Uniti d’America abbiano avuto a capo dell’FBI, il più importante ente investigativo federale, un paranoico (SUMMERS 1993). J. Edgar Hoover si era fatto le ossa schedando i cittadini tedeschi sospetti di collaborazionismo durante la Prima Guerra Mondiale, praticamente tutti i tedeschi residenti in America; poi passa, nel 1919, a schedare i simpatizzanti di sinistra che in quegli anni organizzavano scioperi, manifestazioni e attentanti riunendo un archivio di mezzo milione di nomi. Nello stesso anno, sulla base di tale archivio, si svolge la repressione del movimento sindacale americano con arresti, pestaggi ed espulsioni, il tutto in barba ai diritti civili.
È in questa palestra che Hoover comincia capire l’importanza della raccolta di informazioni, della loro corretta schedatura, che, in società sempre più multimediali diventa la sede del vero potere.
Il sogno proibito di Hoover è la schedatura universale di tutti i cittadini americani per classificarne i comportamenti devianti, in base a parametri da lui stesso scelti. È ancora una volta la struttura puritana della catalogazione del nemico, ma portata a scala industriale.
L’idea di Hoover si concretizza con la messa a punto del primo sistema centralizzato di impronte digitali provenienti da tutti i distretti di polizia degli Stati Uniti, modello di quei futuri archivi digitali criminali, che vediamo continuamente in film e serie Tv come CSI o Person of Interest3 In queste serie americane (a differenza della detective story europea che, soprattutto a partire dal secondo Novecento, si concentra sulle motivazioni sociali e psicologiche della devianza) ciò che conta è la catalogazione e individuazione di crimini e criminali eludendone totalmente le origini o le cause. Con la Guerra Fredda e il terrore per il comunismo l’ansia classificatoria di Hoover arriva a livelli parossistici: vengono schedati migliaia di intellettuali, insegnanti, attori, sportivi in base ai comportamenti sessuali, all’uso di droghe o farmaci, agli stili di vita; e successivamente viene creato il COINTELPRO, destinato alla repressione dei movimenti per diritti civili a partire dagli anni ‘60. È l’avvento dell’ormai leggendario archivio segreto di Hoover, che diventa il modello simbolico di tutte le teorie del complotto americane basate sul Grande Fratello, ma soprattutto dei moderni database di catalogazione
Così si spiega la corsa attuale alla creazione di enormi database, i cosiddetti big data che non hanno solo finalità commerciali ma anche di controllo. È questa deriva che, dopo l’11 settembre, porta al Patriot Act, ad Echelon, all’obbligo per gli stranieri di lasciare le loro impronte digitali quando entrano negli Stati Uniti, all’introduzione di sistemi di videosorveglianza dello spazio pubblico sempre più invasivi e a tutti i tipi di tolleranze zero di natura paranoica che hanno caratterizzato l’immaginario americano degli ultimi 20 anni (gang, droga, terrorismo, pedofilia, immigrazione clandestina, etc.).
5. Dalla catalogazione alla reclusione: l’avvento del moderno sistema carcerario americano
Quando nel 1981 esce il film di culto 1997: Fuga da New York, in cui John Carpenter immagina che l’intera isola di Manhattan si trasformi in un enorme penitenziario a cielo aperto, in realtà si sta raccontando, in maniera distopica, una deriva iniziata una decina di anni prima con l’amministrazione Nixon. L’aumento vertiginoso di conflitti sociali e razziali e del tasso di criminalità che si produce negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ‘70, e che continuerà fino agli anni ‘90, convince il governo federale e le varie amministrazioni locali che un sistema di controllo basato essenzialmente su urbanistica da una parte, e tecnologia dall’altra, non può più funzionare. È invece dall’unione di questi due dispositivi che nascerà il moderno sistema carcerario americano che ha come obiettivo quello di catalogare, separare e rinchiudere ogni tipo di devianza reale o potenziale. Nel 1972 la popolazione carceraria americana ammontava a 326.000 detenuti. Quarant’anni dopo, nel 2009, alloggiano nelle carceri americane quasi due milioni e 300 mila persone. Se ad esse si aggiungono quelle sottoposte ad altre forme di custodia o controllo (braccialetto elettronico, libertà sulla parola, servizi sociali, TSO, etc.) si raggiunge la cifra di circa 7 milioni di individui soggetti a tutela penale. Tra il 1979 e il 1990 si assiste a un vero e proprio boom dell’edilizia carceraria: il numero delle prigioni aumenta del 612% mentre solo tra il 1993 e il 1998 sono nati 213 nuovi centri di detenzione. Il risultato è che oggi gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di incarcerazione al mondo tra i paesi occidentali democratici.4
Da una parte i paranoici, coloro che si sentono a rischio, si autorecludono nei sobborghi e nelle gated communities; dall’altra pretendono che tutti i potenziali soggetti a rischio devianza vengano rinchiusi nei penitenziari, o sottoposti a una qualche forma di controllo penale.
Ma chi sono tutti questi criminali? Essenzialmente sono poveri, provenienti da ambienti disagiati o appartenenti a minoranze etniche. A finire nelle maglie di queste nuovo sistema penale sono soprattutto quelle categorie di persone per le quali la criminalità è spesso una necessità più che una scelta. Ma nell’immaginario americano, come abbiamo visto, il contesto sociale non è un’attenuante, il conflitto dipende esclusivamente dalla quantità di spazio disponibile e quella tra Bene e Male è considerata puritanamente come una “scelta” individuale, frutto di una predestinazione divina.
In un’ottica che cancella le cause sociali della violazione delle norme penali e che responsabilizza unicamente l’individuo per le sue “scelte” di vita, un medesimo filo conduttore sembra legare la legittima difesa all’americana [...] e la filosofia “incapacitante” della pena: chi delinque, anche se per sopravvivere, non merita pietà e va eliminato dalla convivenza sociale, fisicamente o attraverso una reclusione più lunga possibile (GRANDE 2007: 31).
A partire dagli anni ‘70 vengono infatti introdotti in America: il plea bargain (il patteggiamento) che praticamente elimina il processo pubblico riducendo la giustizia a una negoziazione privata tra le parti, le mendatory sentencing laws (le pene minime imposte dalla legge), che tolgono discrezionalità al giudice nel punire un certo tipo di colpe e cominciano a classificare rigidamente non solo i reati ma anche le pene e infine, nel 1993, la legge del three strikes and you’re out, ossia l’ergastolo senza possibilità di rilascio anticipato, nell’ipotesi di condanna per il terzo reato consecutivo (anche di lieve entità), formula presa, non a caso dal baseball, lo sport americano che meglio ha saputo riprodurre e rifunzionalizzare le strutture spaziali e mentali del puritanesimo (delimitazione e difesa dello spazio dagli attacchi esterni, riconquista e riconsacrazione dello spazio, ritorno a casa, etc.). Il baseball rappresenta infatti un vero e proprio rituale collettivo di ricostruzione e consolidamento dell’identità “chiusa” puritana, nel senso che l’insieme delle sue regole e del suo andamento si adatta perfettamente a rendere quella concezione del mondo.Insomma: chi non può pagarsi un buon avvocato è costretto a patteggiare la pena, e a finire in carcere anche se spesso innocente o macchiatosi di reati non gravi.
Ancora una volta, quindi, è tendenzialmente attraverso lo spazio che si cerca di prevenire i conflitti, e non occupandosi delle loro cause materiali e sociali o cercando di rieducare il criminale. Ecco perché in America, in adesione a principi tutti puritani di predestinazione-distinzione, l’immaginario rappresenta la prigione essenzialmente come un elemento urbanistico-architettonico, che ha una funzione di mera segregazione e che, per sua natura, raramente riesce a produrre processi di trasformazione (positivi o negativi che siano) nei personaggi che la vivono o la attraversano. L’Europa, soprattutto il suo versante cattolico, prenderà invece una strada diversa e questo fin dalla nascita dell’industria culturale moderna. Si pensi solo a due dei più grandi classici del romanzo ottocentesco, come I miserabili e Il conte di Montecristo, in cui l’esperienza carceraria è raccontata come un momento fondamentale di rinascita e cambiamento per i protagonisti.
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Note
↑ 1 Per un discorso a 360 gradi sull’immaginario americano si rimanda a DRAGOSEI (2000) e TARZIA, ILARDI (2015).
↑ 2 La diffusione e la lettura di queste narrazioni è immane. Si calcola che tra il 1680 e il 1880, in tutto il territorio americano, se ne siano stampati un migliaio di titoli. Secondo F. L. Mott in cima ai bestsellers statunitensi di tutti i tempi ci sono proprio quattro captivity narratives, e tre di esse sono tra le più vendute nelle colonie tra la fine del Seicento e il primo ventennio del Settecento (MOTT 1947).Per una ricostruzione sintetica ma preziosa del fenomeno si veda CABIBBO (1993).
↑ 3 Su questo cfr. WAJCMAN (2013)
↑ 4 Bureau of Justice Statics. http://www.bjs.gov/index.cfm?ty=pbdetail &iid=2200.