Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Alla periferia della periferia: raccontare la prigione nel Brasile contemporaneo

Luca FAZZINI



Abstract

Italiano  | Inglese 

A partire dagli anni Novanta si assiste in Brasile alla pubblicazione di numerose opere volte a rappresentare lo spazio e l’esperienza del carcere. Repressione omicida, violenza, degrado e abbandono motivano l’urgenza di testimoniare, attraverso le forme della letteratura, il dramma della detenzione. È da tale esigenza che sorge Estação Carandiru (1999),opera pubblicata dal medico DrauzioVarella in seguito alla strage avvenuta nel 1992 nel carcere di Carandiru, e anni più tardi Prisioneiras (2017), romanzo di testimonianza in cui l’autore interroga l’universo carcerario femminile. Con la lettura critica di queste due opere, il presente articolo pretende interrogare le dinamiche del potere nel Brasile contemporaneo, evidenziando la persistenza delle logiche coloniali e schiaviste nella contemporaneità urbana brasiliana. 

Resti di una guerra mal celata 

Filosofo e traduttore ungherese, docente di filosofia all’Università Cattolica di San Paolo, Peter Pal Pelbart apre il primo saggio della serie “Cordeis políticos”lanciata dalla casa editrice N-1 Edições con un titolo eloquente: Estamos em guerra (2017). L’incipit denota immediatamente il tipo di conflitto nel quale si è direttamente o indirettamente coinvolti: 

Siamo in guerra. Guerra contro i poveri, contro i neri, contro le donne, contro gli indios, contro i drogati, contro la sinistra, contro la cultura, contro l'informazione, contro il Brasile. La guerra è economica, politica, legale, militare, mediatica. È una guerra aperta, anche se negata; è una guerra totale, benché mimetizzata; è una guerra senza tregua e senza regole, senza limiti, anche se vogliono farci credere che tutto avvenga sotto la più stretta e pacifica normalità istituzionale, sociale, legale, economica. Cioè, insieme alla diffusa escalation della guerra totale, un'operazione che la soffoca in scala nazionale. (PELBART 2017: 2)

Periferia, favelas, prigioni, territori d’eccezione in cui l’ordine giuridico è sistematicamente sospeso, sono i luoghi in cui, in Brasile, vengono combattuti questi conflitti quotidiani in seno alla popolazione. Lo Stato, nelle mani di una oligarchia politica ed economica, con la sua sofisticata macchina repressiva ne è il principale attore. 

Pensare il carcere nel Brasile contemporaneo significa dunque riflettere circa uno dei più potenti strumenti attualmente in uso per combattere questa guerra. Gli altri sono tipici dei conflitti bellici: l’esercito, la marina e l’aeronautica militare, con i loro elicotteri e M-113 anfibi usati per occupare il territorio di alcune delle favelas più grandi di tutta l’America del Sud, e il tristemente celebre “Craveirão” del BOPE, lo squadrone d’élite della polizia militare brasiliana. 

Il congiunto di queste forze è stato effettivamente dispiegato nel 2008 con l’obbiettivo di instaurare il controllo dello Stato all’interno di alcune favelas dominate da fazioni criminali legate al traffico di stupefacenti, inaugurando quella che sarà conosciuta come “politica di pacificazione”. Tale progetto di pacificazione prevedeva essenzialmente due fasi. La prima, di carattere puramente militare, mirava all’istallazione delle Unità di Polizia Pacificatrice (Unidades de Polícia Pacificadora − UPP), mentre la seconda, di carattere sociale, prevedeva la creazione in tutte quelle zone storicamente abbandonate dallo Stato, di asili, scuole pubbliche ed ambulatori medici. Nel 2016, quando il progetto di pacificazione è stato ufficialmente dichiarato fallito, non si era di fatto mai entrati nella seconda fase, fermandosi dunque per circa otto anni alla sola occupazione militare. 

In tale contesto di eccezione, la prigione diventa dunque uno spazio nevralgico: in essa confluiscono i resti, i residui di questa guerra alla povertà, corpi considerati, “segmenti superflui per il progetto politico egemonico di concentrazione del reddito e del potere in mano a gruppi storicamente identificabili” (FLAUZINA 2017: 35). 

Lungi dall’essere una dinamica esclusivamente brasiliana, la reclusione forzata e la morte di un enorme contingente di poveri rappresenta uno dei più controversi e perversi meccanismi di gestione della sicurezza in tutta l’America Latina. Tale prospettiva è effettivamente condivisa anche da diversi giuristi e studiosi di diritto penale, come il giudice e criminalista argentino Eugenio Raúl Zaffaroni, che nel saggio Alla ricerca delle pene perdute (1994) sottolinea come l’attuazione delle pratiche inerenti al diritto penale in America Latina corrisponda di fatto a una serie di omicidi in larga scala:

Ci sono morti negli scontri armati (alcuni reali, la maggior parte simulati, ossia fucilazioni senza processo). Ci sono morti a causa di gruppi di “parapolizia”,di sterminio, in varie regioni. [...] Ci sono morti violente, durante ribellioni carcerarie, di detenuti e del personale penitenziario.Ci sono morti a causa della violenza contro i prigionieri nelle prigioni. Ci sono morti a causa del tasso altissimo di suicidio tra i criminali e tra il personale di tutti gli organi del sistema penale,siano essi suicidi manifesti o incoscienti. (ZAFFARONI 2001, apudFLAUZINA 2017: 38)

Riguardo al contesto brasiliano, Ana Luiza Pinheiro Flauzina (2017), considera l’intero sistema penale brasiliano come parte di un più ampio progetto genocida nei confronti della popolazione afro-discendente e indigena. Progetto che, in linea con quanto scritto da Abdias Nascimento (2016), intellettuale originario dello Stato di San Paolo, nonché primo senatore afro-discendente nella storia del Brasile, coinvolge numerose altre aree del quotidiano, dalla salute alla persecuzione culturale, passando ovviamente per il sistema penale. Secondo Flauzinha, le cui analisi hanno come base la periodizzazione storiografica di Nilo Batista (2004), una lettura diacronica della storia del diritto penale in Brasile, dall’epoca coloniale ad oggi, metterebbe in evidenza la continuità dell’uso della violenza, della reclusione forzata e della morte come strumento di controllo della popolazione. Il razzismo è la variabile che distingue chi può essere ucciso o lasciato morire nelle periferie e nelle prigioni brasiliane, da chi invece può godere dei pieni diritti civili:

La recezione della criminologia [...] è immersa nei presupposti del razzismo che inonda i circuiti accademici del secolo XIX. Le richieste di “ordine”, fortemente espresse dalle élite regionali in questo periodo, erano la manifestazione del vecchio bisogno di controllo della massa nera e indigena. Il razzismo è, dunque, la categoria che sta alla base del discorso sulla regolazione sociale forgiato dai gruppi egemonici latinoamericani per l'amministrazione degli altri segmenti.(FLAUZINA 2017:  41)

In tale contesto, leggere il carcere, ovvero tutta quella produzione letteraria e culturale che ne interroga i suoi spazi, che dà voce ai corpi che abitano i suoi corridoi e le sue celle, diventa  una maniera di interrogare le dinamiche e le logiche del potere, così come tutti quei meccanismi e processi legali che, letti in prospettiva diacronica, permettono di disegnare una linea continua che parte dall’esperienza disumanizzante della schiavitù, fino ad arrivare all’oggi delle periferie, delle favelas e delle prigioni brasiliane. Spazi abitatati da individui che condividono la stessa classe sociale e la stessa origine etnico-razziale, così come sottolinea, grazie ad eloquenti dati statistici, Juliana Borges nel suo studio O que è encarceramento em massa (2018). 

Tali testi hanno dunque un fondamentale impatto politico poiché oltra a denunciare i fallaci presupposti del discorso dominante, che disegnano la prigione come spazio di rieducazione e non come segregazione sociale, permettono di ascoltare la voce in prima persona di quei soggetti silenziati dalla narrativa egemonica, storicamente costruita per fare del Brasile il paese della “democrazia razziale” − un discorso pacificatore molto in voga nel periodo post-abolizione, che ha nel sociologo Gilberto Freyre il suo riferimento intellettuale.  

Raccontare l’inferno

Nel tentare di costruire una sorta di genealogia della scrittura carceraria in Brasile è necessario distinguere due momenti specifici che oltre alla comune critica al potere, presentano tuttavia profonde differenze. Il primo momento −primo perché cronologicamente anteriore −, che viene a inaugurare la presenza della prigione nella letteratura brasiliana, è caratterizzato dalla pubblicazione di un insieme di testi scritti da prigionieri politici, da ex-guerriglieri e da militanti. Gli albori della repubblica, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, lo Estado Novo di Getúlio Vargas (1937-1945) e la Dittatura Militare che ha prostrato il paese tra il 1964 e il 1985, fanno da scenario all’interno del quale pensare tali opere.

Nei primi decenni del XX secolo si hanno dunque testi scritti e pubblicati da giornalisti quali Ernesto Senna, autore di Através do Cárcere (1907), Joao do Rio, che incorpora le sue scritture del carcere alla collettanea A alma encantadora das ruas (1910), e Orestes Barbosa, autore di Na prisão (1922), agli arresti per ben due volte nel 1921 (BRETAS 1996). 

Durante gli anni dello Estado Novo, si ha invece l’esperienza carceraria raccontata da Graciliano Ramos nel suo Memórias do cárcere, romanzo pubblicato postumo, nel 1953. Si è qui dinanzi ad uno dei grandi nomi della letteratura brasiliana, arrestato in mancanza di prove dopo un tentativo di colpo di stato conosciuto come Insurrezione Comunista (Intentona Comunista), nel 1935.

A tali scritture del carcere si aggiungono quei testi prodotti a partire dall’esperienza traumatica della tortura e della violenza fisica, motivata sempre da ragioni politiche perlopiù durante la dittatura militare. Testi quali Retrato Calado (1988), di Luiz Roberto Salina Fortes, e Emcâmara lenta, (1977) di Renato Tapajós che, come giustamente sottolineato dal critico João Camilo Pena (2013), acquisiscono particolare rilevanza dopo l’instaurazione, il 6 maggio 2012, della Commissione della Verità, una commissione fortemente voluta dall’allora presidente Dilma Russeff che ha oggi il compito di indagare le violazioni dei diritti umani avvenute in Brasile tra il 1945 e il 1988 – anno in cui fu promulgata la costituzione  attualmente in vigore. È inoltre necessario ricordare che la Presidenta Dilma Russeff, deposta nell’agosto 2016 tramite processo di Impeachment, fu lei stessa vittima di tortura durante la Dittatura Militare.

In un secondo momento, a cavallo tra la fine degli anni novanta e gli inizi del 2000, si assiste in Brasile all’affermarsi di un altro tipo di scrittura carceraria, che non ha più al centro il prigioniero politico, bensì il carcerato comune. Si èdifatti davanti ad una svolta nell’ambito della letteratura brasiliana che interroga la prigione: il prigioniero comune, il criminale qualunque, esce dal limbo appunto del “comune”, per affermare l’eccezionalità della propria condizione. Il lato politico della detenzione sorge non già a priori, come per chi paga con il carcere una qualsiasi opposizione al regime dominante, ma a posteriori. Il carcere diventa così un’estensione della periferia:

Nel contesto attuale, dovremmo chiederci se quello che la testimonianza del carcere fa, non sia esattamente denaturalizzare […] la povertà e la disuguaglianza sociale sistemica della società brasiliana [...]. La scomparsa dell'esteriorità strutturale delle testimonianze classiche sul carcere attesta, in primo luogo, il fatto che la prigione consiste in una drammatizzazione della violenza diffusa e del terrore a cui sono sottoposti oggi gli abitanti delle periferie delle grandi città brasiliane, e il fatto che questi veri e propri depositi di poveri siano modelli ridotti di ciò che avviene fuori dal carcere. (PENNA 2013: 155)

È con queste testimonianze che la prigione ci appare in tutta la sua crudeltà, ora come una macchina che produce essa stessa delinquenza, ora come un “campo di concentramento per poveri” (WACQUANT 2001:11). In tal senso, è fortemente simbolico il fatto che i campi di concentramento nazisti siano serviti come fonte per il progetto architettonico del Complesso Penitenziario di Bangu, a Rio de Janeiro. La lettura di tali testi consente inoltre di individuare tutte quelle dinamiche e quei meccanismi che permettono di pensare il Brasile di oggi alla luce dell’esperienza coloniale e schiavista, le cui logiche continuano a disegnare le relazioni e le tensioni sociali esistenti nel paese.

Il momento chiave che inaugura questa serie di testimonianze letterarie, è senza dubbio la strage avvenuta il 2 ottobre 1992 nella Casa di Detenzione di Carandiru, a San Paolo, in quello che era allora il maggior centro di detenzione di tutta l’America Latina. In quel giorno, in seguito ad una ribellione, la polizia della capitale paulista invase il Padiglione 9, uccidendo a sangue freddo 111 prigionieri inermi, stando alle stime ufficiali, più di 250, stando invece alla testimonianza dei detenuti. Quel che di fatto avvenne rimane tutt’ora oscuro, e manifesta profonde contraddizioni tra quanto riferito dagli agenti e le parole dei superstiti, molte delle quali divenute poi romanzi. Ciò che è invece certo, è che la maggior parte dei detenuti del Padiglione 9, ala del carcere in cui si è consumata la strage, aveva meno di 21 anni ed era composta da individui incensurati. Ancor peggio, dei 111 morti ufficiali, 84 erano in attesa di giudizio e in base alla Costituzione avrebbero dovuto attendere il giudizio in regime di liberta: delle 111 vittime ufficiali del massacro, 84 non sarebbero dovute essere lì. La loro prigione era di fatto illegale, ennesima riprova del carattere arbitrario della giustizia brasiliana quando applicata alla popolazione povera e periferica del paese.

Il massacro ha immediatamente sconvolto il mondo artistico e intellettuale, affermandosi come tematica esplicita in numerose opere d’arte. È del 1993 l’istallazione 111, dell’artista NunoRodrigues, mentre nel 1997 esce l’album musicale Sobrevivendo no inferno, dei Racionais MCs, che contiene la canzone “Diario di un detenuto”, scritta da Jocenir, all’epoca prigioniero di Carandiru. In ambito letterario, vengono pubblicate nel 2001 tre testimonianze letterarie del massacro, divenute subito veri e propri best seller: Diário de umdetento: o livro, di Jocenir, Memórias de um sobrevivente, di Luiz Alberto Mendes, Pavilhão 9: paixão e morte no Carandiru. Attraverso tali testimonianze, una voce insolita irrompe con veemenza nel sistema letterario brasiliano, la voce appunto del prigioniero comune, dell’individuo socialmente emarginato di cui altri – giornalisti, criminologi, studiosi di diritto penale – hanno scritto molto ma la cui voce è sempre stata silenziata: 

Tra la parola dell'istituzione penitenziaria, che scrive la sua storia di delinquente, e quelle della letteratura, che lo descrive come eroe, come una classe o come vittima di un sistema sociale, c’è il corpo silenziato del detenuto. Un corpo muto, ferito, minacciato di morte, sia per azione della polizia fuori e dentro la prigione, sia per le tensioni che esplodono all'interno delle celle congestionate. I libri appena pubblicati mostrano questi corpi in frantumi, la loro crescita, i desideri, le ferite, l'indurimento e la morte, o la loro sopravvivenza, assicurata dalla morte di altri. (CUNHA 2002: 221)

Due anni prima, nel 1999, il medico Drauzio Varella, dopo aver lavorato per dieci anni come volontario nel Centro di Detenzione di Carandiru, pubblica Stazione Carandiru (Estaçaõ Carandiru),un vero e proprio successo editoriale che ispirerà direttamente o indirettamente le successive testimonianze letterarie centrate sull’esperienza del prigioniero comune e sulla strage di Carandiru.

Il testo, definito dalla critica (PENNA 2013) come un ibrido a cavallo tra la cronaca e il diario, nasce appunto dall’intento di dare un volto, di costruire una figura umana attorno ai numeri e alle fredde statistiche che raccontavano fino a quel momento la popolazione carceraria brasiliana. Tale intento è reso esplicito già nelle pagine introduttive: “in questo libro voglio dimostrare che la perdita della libertà e la restrizione dello spazio fisico non conducono alla barbarie, contrariamente a quello che molti pensano […]”(VARELLA 1999:10).

Di fatto, Estação Carandiru dedica appena gli ultimi tre capitoli al racconto di quel fatidico 2 ottobre, concentrandosi principalmente sul quotidiano della prigione. Oltre che descrivere con un linguaggio semplice e diretto la struttura del penitenziario in maniera dettagliata, il suo funzionamento e regolamentazione interna, Drauzio Varella racconta minuziosamente la vita dei prigionieri, dentro le mura o in libertà. La posizione dell’autore è sicuramente privilegiata: all’interno del consultorio medico, montato sempre in maniera improvvisata in spazi inizialmente adibiti ad altre funzioni, Varella ha facile accesso all’intimità dei suoi pazienti, la cui volontà di raccontarsi, di essere ascoltati da un orecchio amico e di testimoniare le atrocità commesse e sofferte permette di ricostruirne nei dettagli le storie vissute.

Nel pensare l’opera all’interno delle figure tradizionali della Letteratura di Testimonianza, partendo appunto dalle riflessioni proposte da Giorgio Agamben intorno alle nozioni di testis, supertestes e auctor (1998), João Camillo Penna descrive così la posizione di Drauzio Varella: 

È precisamente come auctor che il medico Drauzio Varella interviene alla fine del suo libro, e dispensa la versione delle guardie e dei poliziotti circa quello che era accaduto nel massacro, autorizzando quella dei prigionieri [...] Mentre la voce narrante, in generale, ricorre al tono neutro e lieve di un raccontatore di storie e aneddoti, […] questi ultimi capitoli impressionano per l’asprezza e l’imparzialità. Drauzio Varella ricostruisce semplicemente i fatti che non ha testimoniato, ma sentito da qualcuno che li ha vissuti, cercando di ricostruire il più obiettivamente possibile, come un testimone in tribunale, l'ordine degli eventi, come e quando tutto è avvenuto. Più testis (terza parte in tribunale) di supertestes, e senza dubbio auctor, autorità conferita al racconto dei prigionieri, Drauzio Varella ha una funzione leggittimatrice in tutte le storie che escono di Carandiru, la cui serie il suo libro apre. (PENNA 2013, 147)

Nonostante la rilevanza data da Penna agli ultimi tre capitoli, che di fatto aprono la strada alle successive testimonianze letterarie, è nel corpo del testo che risiede il forte impatto politico dell’opera di Drauzio Varella. Non si tratta qui dell’eccezionalità della strage, dell’orrore provocato da un determinato momento particolare, ma della violenza, della sopraffazione e della mano omicida del potere che pesa quotidianamente sulla precaria vita dei detenuti. Nelle trecento pagine che compongono l’opera, il lettore assaggia da vicino il degrado e l’esperienza disumana del carcere brasiliano. Ne conosce i suoi protagonisti e con essi costruisce poco a poco dei ponti d’empatia − ponti che tuttavia non impediscono al lettore di distanziarsene, davanti alla brutalità di certi crimini. L’immagine che Varella costruisce rifiuta dunque semplici dualismi, ponendo l’accento sull’umanità intrinseca nel criminale, e sulla criminalità che sta alla base di una certa idea di civiltà, la quale ignora sistematicamente le violenze perpetrate dal braccio armato dello Stato: 

Ezequiel raccontò che aveva scontato la pena per spaccio e ricettazione in un penitenziario di provincia. Una notte, in quel luogo, vide due carcerieri portar via un prigioniero dalla cella. Il giorno dopo il ragazzo era morto. La versione fu che aveva cercato di scappare. Riluttante, Ezequiel denunciò i due al direttore della prigione. (VARELLA 1999: 176)

La morte appare dunque come parte integrante della vita del detenuto, una possibilità costantemente presente nonché uno strumento per organizzare la disciplina fuori e dentro il penitenziario. Nonostante manchino spesso dei riferimenti precisi riguardanti l’origine etnica dei prigionieri, la provenienza in termini di classe sociale è costantemente sottolineata: le esperienze di vita raccontate da Varella appartengono a individui che abitano effettivamente l’ultimo gradino della piramide sociale. Considerando che il 70% più povero, in Brasile, è composto da afro-discendenti (FLAUZINA 2017), è facile immaginare che molte delle esperienze narrate appartengano a individui che fanno parte di tale gruppo. 

Diciotto anni dopo la pubblicazione di Estação Carandiru, Drauzio Varella ritorna a raccontare la vita nella prigione spostando questa volta l’attenzione sull’universo femminile, pubblicando nel 2017 il romanzo Prisioneiras, frutto di anni trascorsi sempre come medico volontario nel Penitenziario Femminile della Capitale, a San Paolo. In termini generali, l’opera ricalca le forme del primo grande successo dell’autore: capitoli brevi, organizzati per tema, nei quali vi si descrive la vita nella prigione e l’esperienza personale delle detenute.  Comparazioni tra il carcere maschile e quello femminile, tra l’esperienza fatta a Carandiru e quella nel Penitenziario della Capitale sono decisamente frequenti, ed è proprio da una di queste comparazioni che Varella abborda un argomento che era rimasto a margine nel suo primo romanzo, ovvero la presenza, nelle prigioni brasiliane, di organizzazioni criminali fortemente strutturate, e nello specifico, del PCC − acronimo di Primeiro Comando Capital. 

Nonostante queste affinità strutturali, certamente rilevanti se si vuol pensare, anche in termini estetici, la possibilità di una norma nello scrivere la prigione in Brasile, in Prisioneiras emergono assolute novità rispetto a Estação Carandiru, tutte in qualche modo vincolate all’universo femminile. Avendo sempre come sfondo la sistematica violenza che sottostà all’esperienza del carcere brasiliano, l’opera interroga di fatto un vuoto, una specie di rimosso sociale nel quale agiscono e si intrecciano, in maniera intersezionale, tre caratteristiche strutturali della società brasiliana: la guerra ai poveri, il razzismo, ed il sessismo.

Tali caratteristiche emergono in maniera contundente in due condizioni costanti nelle testimonianze di donne incarcerate riportate dall’autore: la solitudine in cui vivono le prigioniere, e la violenza sessuale, frequentemente subita in libertà. Così come la morte e la violenza quotidiana in Estação Carandiru, ambe le condizioni testimoniate dalle pagine di Prisioneiras, quando pensate all’interno di certe coordinate razziali e di classe, permettono di sottolineare la persistenza del modello schiavista come base per pensare le relazioni sociali nel Brasile contemporaneo.

La situazione di abbandono sociale e familiare di cui soffrono le donne in prigione, denunciata da Drauzio Varella nelle pagine del suo libro, raggiunge di fatto dei contorni drammatici. Spinte nel mondo del crimine spesso a causa dei mariti, anch’essi in prigione, che le costringono in loro assenza a portare avanti gli affari illeciti, queste vengono abbandonate appena varcata la soglia del carcere. Madri, padri, mariti, figli, fanno immediatamente perdere le loro tracce:

Di tutti i tormenti della prigione, l'abbandono è ciò che più affligge le detenute. Scontano le loro pene dimenticate da familiari, amici, mariti, fidanzati e addirittura dai figli. La società è in grado di affrontare con un certo compiacimento la detenzione di parente uomo, ma quella della donna causa vergogna all'intera famiglia. Mentre è in prigione, l'uomo potrà sempre contare sulla visita di una donna[…]. La donna è dimenticata. (VARELLA 2017: 38)

Tale situazione riflette una problematica di caratura più ampia, che trascende lo spazio disciplinare dell’istituzione carceraria. Nel contesto brasiliano, l’abbandono di cui è vittima la donna in prigione riflette quello che alcune ricerche hanno caratterizzato come “solitudine della donna afro-discendente”(PACHECO 2013). Secondo tali studi, è necessario indagare come certe individualità sono state costruite storicamente, sottolineando l’impatto della schiavitù nella costruzione delle identità di genere e delle relazioni sociali. Secondo Lélia Gonzalez (1982), la costruzione sociale della donna afro-discendente e periferica in Brasile ha come base due archetipi: la mulatta, esuberante, vista esclusivamente in chiave sessuale, e la domestica, a cui spettano le faccende di casa. Vista ora come oggetto di intrattenimento sessuale, ora in ottica lavorativa/domestica, in entrambi i casi la sfera affettiva le è sempre totalmente preclusa. Una volta varcata la soglia della prigione, diventa dunque impossibile pensarla all’interno di questi due paradigmi esclusivi ed escludenti, giacché diventa inutile sia da un punto di vista sessuale, sia domestico. La sfera affettiva non entra mai in gioco: 

Più di qualsiasi altro gruppo di donne in questa società, le donne nere sono state considerate “solo corpo, senza mente” […]. Per giustificare lo sfruttamento maschile bianco e lo stupro delle donne nere durante la schiavitù, la cultura bianca ha dovuto produrre un'iconografia dei corpi neri che insisteva nel rappresentarli come altamente dotati di sesso, la perfetta incarnazione di un erotismo primitivo e sfrenato. (HOOKS 1995: 469)

In tale contesto, così come l’abbandono familiare e affettivo, anche lo stupro sofferto da donne afro-discendenti e periferiche deve essere pensato come continuità delle pratiche schiaviste. Nelle testimonianze di Drauzio Varella, il numero delle vittime è terrorizzante: 

Le ragazze della periferia vivono esposte alla violenza sessuale fin dall'infanzia. Non so nemmeno quante storie ho sentito nel corso di questi anni; difficile eleggere la più rivoltante. [...]La maggior parte dei crimini di stupro non viene commessa dall'uomo che attacca la ragazzina in un vicolo buio. Gli aggressori più frequenti sono quelli che approfittano della prossimità con le vittime indifese. Sono patrigni, zii, nonni, cugini più grandi, figli del compagno della madre, amici di famiglia o vicini che godono della fiducia degli abitanti della casa. (VARELLA 2017: 168)

L’abuso perpetuato da persone vicine, spesso addirittura familiari o parenti delle vittime, rende espliciti i rapporti di forza sottostanti le relazioni di genere in ambiente domestico. Come durante l’epoca coloniale e schiavista, attraverso lo stupro l’uomo afferma il suo dominio sul corpo femminile, sia esso quello di una donna, un’adolescente o addirittura una bambina. Un dominio che è anche economico, dato che sussistono relazioni di dipendenza materiale, trattandosi spesso di figure femminili rese particolarmente fragili dalle contingenze e che non hanno altri luoghi in cui sopravvivere fuori dalla sfera domestica e familiare. Dinamiche tipiche delle società schiaviste vengono dunque immediatamente riattivate e declinate in base alle contingenze attuali: 

La schiavitù si basava sia sulla routine degli abusi sessuali che sulla frusta. [...] La coercizione sessuale era una dimensione essenziale delle relazioni sociali tra signore e schiavo. In altre parole, il diritto rivendicato dai proprietari e dai loro agenti sul corpo delle schiave era un'espressione diretta del loro supposto diritto di proprietà sulle persone nere in generale. La licenza di stuprare proveniva dalla crudele dominazione economica […]. Il modello di abuso sessuale istituzionalizzato di donne nere è diventato così forte che è sopravvissuto all'abolizione della schiavitù (DAVIS 2016: 180)

Giustizia arbitraria e selettiva, brutalità della polizia, morte come strumento di controllo sociale, ma anche stupro, abbandono affettivo ed emarginazione, dinamiche queste che emergono dall’esperienza della detenzione illustrata da Drauzio Varella, caratterizzano di fatto l’attuazione del potere in Brasile, così come le relazioni sociali in un contesto conflittuale come quello delle prigioni brasiliane. Luoghi nevralgici, dato che solo all’interno di tali spazi è possibile mascherare attitudini e provvedimenti che sospendono qualsiasi diritto o che giustificano la rottura di qualsivoglia vincolo familiare ed affettivo, come nelle testimonianze raccolte in Prisioneiras

Persistenze coloniali e dinamiche schiaviste 

La lettura delle due opere in congiunto solleva dunque un importante interrogativo, ovvero come leggere, come interpretare le dinamiche del potere in Brasile, alla luce di questo sistematico lavoro di morte fisica e sociale esercitato dalla mano omicida dello Stato, tramite pratiche violente che riproducono determinate costruzioni sociali? Le persistenze coloniali e schiaviste che disegnano l’esistenza collettiva, motivano la necessità di pensare dette dinamiche fuori da qualsivoglia rottura con i modelli del passato, come un perpetuarsi degli stessi meccanismi, adattati alle esigenze contemporanee.   

In tal senso una prospettiva utile la offre Achille Mbembe (2003), che nel leggere l’azione del potere in quella che lui definisce “modernità tardiva”, investe giustamente su tale continuità. Il filosofo camerunense articola le sue analisi partendo dalle riflessioni di Michel Foucault sulla biopolitica. Riassumendo sinteticamente il dibattito proposto da Foucault (2009), secondo il filosofo sarebbe possibile costatare, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, contemporaneamente all’affermarsi della “popolazione” come categoria politica, l’imporsi, in Europa, della necessità di gestire la vita. Se il potere sovrano esercitava il suo dominio sui sudditi decretando chi doveva morire –“fare” morire o “lasciare” vivere è l’equazione proposta da Foucault −, a partire da un determinato momento si assiste all’affermarsi di un nuovo paradigma, che investe sulla conservazione dell’esistenza biologica. “Fare” vivere o “lasciare” morire diventa dunque la nuova strategia del potere, che attraverso il razzismo si preoccuperà di distinguere chi può effettivamente vivere e chi invece deve essere abbandonato alla morte, nelle prigioni, negli ospedali o nelle periferie del mondo moderno, considerato una minaccia per l’intera società. “La razza, il razzismo, sono – in una società di normalizzazione – la condizione d’accettabilità della messa a morte” (2009: 221), uniche variabili capaci di garantire la “funzione omicidiale” dello Stato. Queste dinamiche, secondo il filosofo francese, regolerebbero l’esercizio del potere all’interno degli Stati-Nazione. 

Riprendendo tale dibattito, nel suo testo intitolato Necropolitics (2003), Achille Mbembe sovverte di fatto la lettura foucaultiana, collocando di nuovo la morte e l’atto di uccidere al centro della discussione sul potere. Se Michel Foucault legge l’azione di normalizzazione del potere sui corpi come una maniera di gestire, controllare e regolamentare la vita attraverso la tecnica, Mbembe −le cui riflessioni scaturiscono da un’analisi centrata sullo spazio geografico della colonia −, ribalta completamente questa prospettiva, sottolineando l’impatto del progresso tecnologico e scientifico non tanto per migliorare la qualità della vita, bensì come strumento per perfezionare l’azione omicida.

Nonostante l’apparente contraddittorietà, le prospettive proposte da Michel Foucault e da Achille Mbembe non si oppongono, ma sono invece complementari per pensare il sud del mondo, in particolare l’America Latina e il Brasile, luoghi in cui biopolitica e necropolitica convivono e si fondo in una specie di bio-necropolitica − termine coniato da Fátima Lima (2018) nel discutere convergenze e divergenze tra i due filosofi. Scrive Lima:

Il potere necropolitico è visibile nel sistema carcerario, nella popolazione che vive per strada, nelle apartheid urbane delle grandi e piccole città brasiliane, in dati rilevanti, nel genocidio della popolazione nera, che è per lo più giovane e maschile, nell’esplosione di gruppi di giustizieri, negli ospedali psichiatrici, nelle file nella pubblica difesa, nelle urgenze ed emergenze ospedaliere […]. (LIMA 2018, 28)

La colonia e soprattutto la piantagione rappresentano, per Achille Mbembe, il ponto di partenza: “here wesee the first syntheses between massacre and bureaucracy, that incarnation of Western rationality”(MBEMBE 2003: 132). Il razzismo coloniale, dal canto suo, oltre che rafforzare le finzioni di universalismo e di identità, tramite la costruzione di stereotipi utili ad ingabbiare l’altro dentro categorie fisse quali il selvaggio e l’indigeno, è servito, a più riprese e in differenti contesti, per giustificare il massacro. Como afferma Mbembe, nella colonia e nella piantagione l’ordine giuridico è sospeso. Sono territori di frontiera disponibili all’appropriazione. I suoi abitanti:

not organized in a state form and have not created a human world. Their armies do not form a distinct entity, and their wars are not wars between regular armies. They do not imply the mobilization of sovereign subjects (citizens) who respect each other as enemies. As such, the colonies are the location par excellence where the controls and guarantees of judicial order can be suspended—the zone where the violence of the state of exception is deemed to operate in the service of “civilization”(MBEMBE 2003: 133)

Se il compito della colonizzazione è stato quello si cartografare e amministrare territori altri, oltre le frontiere degli Stati-Nazione occidentali, esercitando la sovranità tramite l’uso sistematico della violenza e del potere della morte, dentro un regime d’eccezione, oggi invece si assiste al proliferare dei nemici interni, bersagli di una guerra totale, come sottolineato da Peter PálPelbart nella citazione che apre questo articolo.

In tale contesto, la periferia, la favela e la prigione, luoghi sistemicamente in transito tra i paradigmi escludenti che hanno sostenuto la modernità occidentale, e le nuove connotazioni dell’esclusione, incentivate dallo sviluppo del capitalismo e del mercato globale, riproducono le stesse dinamiche e la stessa soppressione dell’ordine giuridico tipiche dello spazio coloniale e dell’epoca schiavista. Come nelle piantagioni o nella colonia, nelle prigioni brasiliane l’ordine giuridico è sistematicamente sospeso, come dimostrano le testimonianze riportante da Drauzio Varella nei due romanzi citati. 

Al razzismo coloniale si aggiunge quello che Achille Mbembe (2016) considera come razzismo basato sulla classe sociale. Da questo processo scaturiscono dei veri e propri territori d’eccezione dentro i quali non esistono diritti di cittadinanze né di proprietà, abitati da una parcella di popolazione sacrificabile, che può essere uccisa in qualsiasi momento e circostanza: 

Considerando la realtà brasiliana, l’attività dello Stato nella produzione della morte è inscritta nelle diverse vulnerabilità costruite intorno al segmento nero. […] Così, coperto dalla retorica della democrazia razziale, lo Stato, attraverso la precarizzazione della vita del contingente nero, costruì le condizioni necessarie per scartare tale segmento. (FLAUZINA 2017: 115)

Come nei contesti coloniali, nelle periferie e nelle prigioni brasiliane, la violenza omicida viene sempre giustificata. Come esempio:dei 74 poliziotti indagati dopo il massacro di Carandiru, solamente 10 sono stati esonerati mentre 58 sono stati addirittura promossi. Dieci anni dopo la strage il Colonnello Ubiratan Guimarães, che ordinò la carneficina, venne eletto deputato con più di 50 mila voti, usando in campagna elettorale il numero 111 – quello dei morti di Carandiru – per identificare il proprio partito. Tale scelta simboleggia il consenso pubblico e l’autorizzazione ad uccidere indirettamente concessa dai cittadini alle autorità dinanzi a quei corpi considerati indesiderati. 

Nelle prigioni risiedono di fatto i selvaggi del mondo contemporaneo, il perturbante del quotidiano, sottomessi ad un costante divenire-oggetto che fa del prossimo, del vicino, del nostro simile, − ovvero, del volto umano − qualcosa di terribile, di spaventoso. Un corpo mostruoso, sprovvisto di umanità, una potenza distruttrice dell’ordine violentemente imposto dal modello occidentale dominante. 

In tale contesto, conoscere certe vite precarie attraverso le testimonianze redatte da loro stessi o da qualcuno la cui stretta vicinanza le rende attendibili, come nel caso di DrauzioVarella, significa restituire un contorno umano ad una immagine costruita per essere mostruosa. Se l’abbandono familiare, lo stupro o la violenza omicida del potere denunciano la costante reificazione di tali esistenze marginalizzate, leggerne le passioni, i desideri ma anche le mancanze e gli orrori commessi significa restituire loro quello status di soggetto di cui sono state storicamente private. 

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Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482