Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Varsavia, Berlino, Roma: carceri come «lieux de mémoire»

Laura QUERCIOLI



Abstract

Italiano  | Inglese 

L‘articolo propone una “passeggiata” per tre capitali, nel corso della quale ci si sofferma in alcuni luoghi indicativi del rapporto con la memoria sociale e con le politiche storiche dei tre differenti paesi. Si tratta di strutture già adibite a carcere, trasformate in musei e memoriali. La loro architettura e il loro allestimento sono sintomatiche non solo di come il discorso pubblico si riferisca alla storia nazionale più o meno recente, ma anche all’istituzione carceraria in genere. Il Museo-Memoriale più recente qui menzionato è Le Celle della Polizia Segreta a Varsavia (2018); l’edificio più antico è il Carcere Mamertino di Roma, risalente al VII sec. p.e.v.

	 
  

Le scale non portano in nessun luogo,

i solai non sorreggono nulla

Aldous Huxley, Prisons

Di tutto il dolore

di cui questo edificio è colmo,

restano fra mura e grate di ferro

un sospiro,

un tremito nascosto…

Albrecht Haushofer, Sonetti di Moabit

	 
  

Un recente, enciclopedico volume pubblicato nel 2017 dal prestigioso editore Palgrave Macmillan ha un titolo dal suono lievemente bizzarro: Handbook of Prison Tourism. L’ambiguità del termine turismo che, benché possieda uno spettro semantico più ampio, è solito collegarsi a momenti di svago e divertimento, associato al tetro vocabolo prigione può apparire stridente.

I siti del trauma

Gli edifici carcerari trasformati in memoriali non offrono, a quanto mi è noto, spettacoli così variegati come quello degli ex lager. Sia per le dimensioni stesse dei luoghi, che per il numero comunque inferiore di visitatori e scolaresche, o sia anche forse, se vogliamo attribuire a selfie sorridenti e a scherzacci da bassa truppa un valore apotropaico e di affermazione vitale, poiché essi non costituiscono, così come Auschwitz e altri lager, una così evidente epitome del male assoluto. Il carcere, pure nel suo aspetto memoriale, rispetto ad altri luoghi per la commemorazione di traumi collettivi sembra contenere una non risolvibile aporia.

Nel caratterizzare i siti del trauma, ovvero musei e memoriali atti a perpetuare la memoria di un affronto subito o imposto, in Paesaggi della memoria Patrizia Violi così scrive:

Il sito del trauma [...] è insieme una prigione e un museo, spazio ambiguo e in tensione fra due universi che rinviano a sistemi semantici e passionali opposti ma qui cortocircuitati uno sull’altro: la prigione, luogo per eccellenza dell’impotenza, della costrizione e della non libertà, contrassegnato sul piano passionale in modo fortemente disforico, il museo, spazio del poter (e voler) sapere, normalmente luogo euforico di conoscenza e intrattenimento (VIOLI 2014: poss. 1793-1794)

Il museo-memoriale di per sé contiene dunque, in bilanciamento spesso precario, due situazioni mentali, due stati animo antitetici che possono presentarsi in forma compiuta appunto nella visita al museo/memoriale di un carcere: ammesso che in effetti i visitatori vi cerchino «conoscenza e intrattenimento» e non solo la conferma di certezze già apprese.

Uno fra gli elementi che, a mio vedere, contraddistinguono l’edificio carcere da altri simili memoriali è il fatto che, a differenza ad esempio dei lager o delle foibe, si tratta di un’istituzione che viene usata e approvata dalla stessa funzione statale che al tempo stesso la propone ad esempio dell’oppressione e del male. I carceri-memoriali riguardano infatti quasi esclusivamente i prigionieri politici, definizione che ben sappiamo dipendere dal punto di vista di chi la pronuncia.

Nessuno dei carceri/museo da me visitati (con l’eccezione del Parco berlinese di Moabit) suggerisce una critica all’istituzione carceraria nel suo insieme, ma solo al suo uso politico e spropositato, ovvero eccedente agli standard vigenti nella data epoca. Nella complessa esperienza cognitiva, performativa e affettiva che costituisce la visita a un luogo del trauma, veniamo qui indirizzati sì a condividere la sofferenza e gli ideali di coloro che in questi spazi hanno sofferto e sperato, ma spesso solamente di una parte di costoro. Come vedremo nel primo esempio da me citato, il carcere varsaviano Pawiak, inaugurato come carcere modello nel 1835 (costruito dall’architetto romano-varsaviano Enrico/Henryk Marconi, la sua struttura è stata presa a modello da altri edifici adibiti al medesimo scopo, fra cui, ad es., il celebre carcere di Pentonville nei dintorni di Londra; cfr. GIERCZYńSKA 2016: 17) e dove, per oltre cento anni, erano stati rinchiusi detenuti di entrambi i sessi1, fra cui anche molti politici, è quasi rimossa ogni memoria del luogo che non riguardi il generale progetto di martirio per la nazione. Nei memoriali polacchi risulta con particolare evidenza quanto sottolineato da Joshua Hagen in un articolo intitolato Places of Memory and Memory of Places in Nazi Germany, ovvero come «nei luoghi del trauma le memorie della violenza e della guerra sono usate per delineare identità di gruppo, esclusione e inclusione». Infatti «sebbene la memoria in apparenza riguardi il passato, essa viene plasmata per servire interessi ideologici nel presente, e per trasportare determinate credenze culturali nel futuro» (HAGEN 2016: 236, 237 Ove non specificato diversamente nella Bibliografia, le traduzioni sono mie).

Un “luogo” non solo metaforico

«I luoghi di memoria intesi in senso metaforico sono fenomeni storici che si trasformano in punti atti a cristallizzare il nostro immaginario collettivo sul passato». Così sintetizzano il geniale “progetto” di Pierre Nora Robert Traba e Hans Henning Hahn, i massimi studiosi dei luoghi di memoria transnazionali, concreti e metaforici, fra Germania e Polonia (TRABA, HAHN 2017: 9). Caratteristica, certo non esclusiva ma determinante, del carcere inteso come luogo di memoria è la sua “non metaforicità”, l’assoluta fisicità del luogo, il carattere determinante che vi gioca lo spazio, una «calculative architecture of affective control» (P. ADEY, cit. da HAGEN 2016: 236). Nulla vi è di metaforico nel carcere e nelle sue mura ˗ non abbiamo qui a che fare con monumenti (che possono autofagocitarsi, come nei magistrali esempi forniti da Jochen Gerz), con personaggi letterari o istituzioni (la cui esistenza e permanenza sono garantite dalla narrazione intergenerazionale e dal transeunte supporto mediatico), con siti di battaglie ed eventi storici (di cui non sempre permangono tracce nel paesaggio, ovvero non sempre tali tracce hanno una valorizzazione storica), ma con la assoluta immanenza di muri, porte, finestre, sotterranei, ovvero, se non altro, con il loro perimetro, sia quando esso sia rimasto inalterato (come, ad esempio, per via Tasso a Roma), che ove sia stato ricostruito dalle macerie (il Pawiak a Varsavia), ovvero rimarcato e interpretato (vedi, ancora una volta, il caso del Parco di Moabit a Berlino).

Il modo in cui questi spazi, dedicati alla memoria dell’oltraggio subito e imposto, vengono allestiti, la loro posizione all’interno della topografia cittadina, il tipo di pubblico a cui si intende far riferimento: sono dati che riflettono in maniera generalmente chiara il tipo di politica e memoria storica proposto nei vari paesi. Ci si limita, in questo contributo, alla sola descrizione, peraltro non esaustiva, di tali peculiari lieux de mémoire nelle capitali, anche per il loro carattere di rappresentatività simbolica. Possiamo anche aggiungere un’ulteriore riprova, forse, del carattere emblematico e comunitario di queste istituzioni: almeno nelle capitali da me visitate, non esistono forme di musealizzazione del carcere in quanto tale, di cui la celebre isola di Alcatraz è solo il più celebre dei molti esempi presenti, anzitutto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna e altrove e, a quanto mi risulta, assenti nel continente (non si possono annoverare in questo elenco iniziative di puro intrattenimento, per gli amanti del genere, come il Berlin Dungeon: «un viaggio terrificante nella storia di Berlino»).

Il più grande carcere della Polonia occupata

Ed eccolo qui dunque l’infausto Pawiak, in Polonia uno dei maggiori «patrimoni traumatici» della collettività (VIOLI 2014: poss. 1039-1040), il più grande carcere di tutta la Polonia occupata. Una Polonia che, vale la pena rammentarlo, per i sei lunghi anni di occupazione si era tutta trasformata in un «enorme carcere tedesco, in un solo campo di concentramento» (KORSZYńSKI 1957: 337),

Nel Pawiak dal 1939 al 1944 furono rinchiuse almeno centomila persone, fra cui molti ebrei; almeno trentasettemila detenuti vi vennero assassinati, sessantamila deportati nei campi di concentramento. Già nei decenni precedenti l’edificio era stato adibito dall’occupante russo a carcere (anche) politico; vi furono detenuti, fra gli altri, i partecipanti alle insurrezioni del 1863 e del 1905.

Il sito web del Museo ( Disponibile online. Solo da poco è presente anche una pagina in lingua inglese: Disponibile online) dagli inizi degli anni Novanta parte della rete “Musei dell’Indipendenza”, che comprende il Palazzo Przebendowski/Radziwiłł, già sede del Museo Lenin, e il X Padiglione della Cittadella di Varsavia, non prevede una visita virtuale (nella capitale polacca, l’unico virtual tour che abbia trovato funzionante al momento della stesura di questo articolo è proposto dal sito del Museo degli ebrei polacchi “Polin”) ma ha molte fotografie e, nella versione polacca, provvede di diverse informazioni, compresa una pagina dedicata al periodo precedente l’occupazione nazista (1835-1939). Peccato non vi venga rammentato che, proprio fra le mura del Pawiak e della sua sezione femminile, è ambientato quello che viene considerato il primo esempio di reportage letterario polacco, nonché il primo testo in assoluto che descriva dall’interno le prigioni femminili, ovvero Oltre le sbarre di Maria Konopnicka del 1886 (indicata pertanto come auspicata patrona dell’Associazione Polacca dei Giornalisti Giudiziari; cfr. QUERCIOLI 2014: 33). Ogni rimarcare però le vicende precedenti l’occupazione nazista, e anzitutto circostanze estranee alla narrativa del martirio e della conquista dell’indipendenza (i personaggi dei racconti di Konopnicka sono detenuti comuni), risulterebbe un elemento troppo discordante rispetto alla “missione” che informa questo e gli altri musei storici di Varsavia (con una solo parziale eccezione per il già menzionato “Polin”): musei la cui narrazione, sempre più unificata anche in virtù delle reti di cui ognuno fa parte, è indirizzata a evidenziare e a sostenere il perenne processo di costruzione dell’unità del popolo, inteso con poche eccezioni in senso etnonazionalista ed etnoreligioso2, unanime nella lotta contro l’occupante esterno.

L’edificio del Pawiak, che comprendeva una superficie assai più vasta di quella attualmente occupata dal carcere-mausoleo, fu fatto saltare in aria dai nazisti il 21 agosto del 1944. Dalla fine dell’occupazione il suo sito divenne immediatamente meta di ininterrotti pellegrinaggi individuali, celebrazioni religiose, marce di ex detenuti e deportati. Le foto dell’immediato dopoguerra mostrano cortei di persone afflitte, spesso con le divise e le insegne dei campi di concentramento, che avanzano su un mare indistinto di rovine (il Pawiak è collocato nel centro della città, all’interno della vasta zona del ghetto ebraico, raso al suolo dai nazisti nel maggio 1943). Il Museo è stato inaugurato nel 1964. Il piazzale esterno è marcato da una delle pochissime rimanenze materiali dell’antico edificio: un frammento del muro di cinta che delimitava l’ingresso, a cui è rimasto appeso un lungo braccio di ferro ricoperto da filo spinato che, dall’altro lato, poggia sul nulla.

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Fig. 1 Le rovine del Pawiak. Wikicommons

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Fig. 2 L'ingresso al Pawiak By Jolanta Dyr - Own work, CC BY-SA 3.0, wikicommons

Nelle prime foto (vedi le immagini contenute nel volume di Gierczyńska all’indirizzo Disponibile online) possiamo distinguere anche un olmo il cui tronco, già dal 1945, cominciò a ricoprirsi di targhe commemorative con i nomi degli assassinati nel Pawiak e di cui non esisteva luogo di sepoltura. L’albero, che potrebbe definirsi un peculiare esempio di Land Art, insieme al frammento del cancello di ingresso è il simbolo più caratteristico della struttura; un’intera sala nell’esposizione stabile ne documenta la vita (morì a metà degli anni Ottanta), la semi esistenza in una sorta di limbo (tagliato e imbevuto, era stato conservato fino al 2004), e quindi la resurrezione in altra sostanza (nel 2004 ne venne fusa una copia esatta in bronzo, inaugurata solennemente l’anno successivo).

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Fig. 3 L'olmo del Pawiak oggi. (Ove non specificato diversamente, le foto sono dell'Autrice)

La costruzione del memoriale, rimarcano le guide al luogo (come STAWARZ 2011, GIERCZYŃSKA 2016), ebbe inizio a seguito di un’iniziativa popolare dei cittadini e degli ex detenuti. Benché sia facile immaginare che una parte preponderante della popolazione di Varsavia condividesse questo desiderio, è comunque almeno altrettanto difficile figurare un movimento spontaneo in una società dalle molte caratteristiche totalitarie, come quella polacca del periodo. Qualsiasi movimento “spontaneo” in grado di portare a fondamentali decisioni topografiche e politiche come quella di cui stiamo parlando non poteva non partire, o non essere appoggiato, dalla nomenklatura statale e governativa; un dato di fatto questo che non può non essere noto agli estensori delle note storiche sul Pawiak; il menzionare però il carattere popolare e spontaneo di questa iniziativa confluisce armonicamente nella descrizione dell’anima collettiva polacca, ovvero di un popolo martoriato che, come nella peraltro toccante installazione video nel carcere della Gestapo in viale Szuch, Volontà di sopravvivere, sempre indomito si rialza in piedi.

La tecnica di ricostruzione del Pawiak è quella che in quegli stessi anni e, a partire dal 1947, ha riportato in vita l’intera zona della Città Vecchia della capitale, distrutta dai nazisti dopo l’insurrezione del 1944 per il 90%, cui obiettivo è edificare nuovamente l’edificio distrutto riportandolo, con precisione fotografica, a uno dei suoi stati precedenti, con l’uso massimale di frammenti “autentici”. Anche nella ricostruzione del Pawiak, che comprende solo una parte delle prigioni sotterranee, vengono impiegati grate, sbarre, cardini, chiavistelli, frammenti di ogni genere rinvenuti fra le rovine. Scopo tradizionale di ogni museo, e anzitutto di questo genere di memoriali è infatti la ricerca della «true authenticity» (WYLSON e BOYLE 2017: pos. 10722): del frammento “autentico”, e anzitutto dell’esperienza “autentica”, dell’“autentico” contatto empatico con le vittime.

Ancora Varsavia

La struttura esterna del memoriale, opera di Romuald Gutt, «Il Frank Lloyd Wright polacco» (Disponibile online), che al Pawiak aveva avuto assassinati i due figli, e di Mieczysław Mołdawa e Alina Scholtz, può essere annoverata fra i capolavori dell’architettura minimalista in Polonia (cfr. Disponibile online). Peccato che un nuovo progetto ministeriale preveda di inglobarlo all’interno di una struttura gigantesca in vetro e metallo,«simile alla nave di Guerre Spaziali, a un treno Pendolino o a un gigantesco ferro da stiro» (“Gazeta Wyborcza”, 13.12.2018) poiché solo il titanismo della nuova costruzione darebbe giustizia al martirio delle migliaia di detenuti e uccisi in questo luogo. Dato che però la proposta (vedi in: Disponibile online) ha incontrato l’opposizione delle autorità cittadine e di varie altre associazioni, e non ne è ancora stata definita la data di inizio dei lavori, non ci soffermeremo ulteriormente su questo punto.

L’interno del memoriale offre delle soluzioni più tradizionali. Un lungo corridoio sulla destra replica in maniera meticolosa la struttura delle celle, di cui una è ricostruita nei dettagli. Lo spazio rimanente è adibito a esposizioni (l’ultimo allestimento permanente risale al 2011), dove, con l’accompagnamento dei rumori della Varsavia di anteguerra, si possono osservare, fra l’altro, antiche planimetrie cittadine, documenti sui detenuti politici prima della Seconda guerra mondiale, un’imponente documentazione sull’occupazione nazista della Polonia e della capitale, fotografie e biografie di molti prigionieri, disegni e piccoli oggetti costruiti dai detenuti, grandi tabelloni con le effigi di personaggi particolarmente rappresentativi della società polacca nel suo insieme, fra cui anche degli ebrei. Una parte della mostra è dedicata all’insurrezione del ghetto, zona dove il Pawiak è appunto situato. Personaggi ebrei che però non compaiono nella scelta dei detenuti più rappresentativi proposta on line, dove l’unico “polacco-non-cattolico” è un pastore luterano, Edmund Bursche.

Una sala del museo è dedicata alle già menzionate vicende dell’olmo-monumento; un’altra all’ethos della Armia Krajowa, l’Esercito Nazionale, che costituiva la più grande organizzazione clandestina militare e sociale dell’Europa occupata. Di simile tenore le manifestazioni che vi svolgono: lezioni sulla storia dell’Armia Krajowa, cui partecipano giovani delle scuole in divisa; concerti di musica popolare polacca, ecc.

I fantasmi del totalitarismo

Una foto, con in primo piano il frammento dell’ingresso del Pawiak, appare nel progetto della fotografa israeliana Dana Arieli sui luoghi del fascismo e del totalitarismo e sui fantasmi e i relitti che le dittature hanno lasciato in eredità all’Europa. (Disponibile online) Nel suo commento all’immagine, Hagai Segev dell’Università di Tel Aviv così la descrive:

[…] un frammento di recinzione coronato da un filo spinato che si innalza in aria, poggiando su di una sbarra di acciaio, sullo sfondo del Museo Carcere del Pawiak, a Varsavia. Ho scelto questa foto in seguito alla mia ricerca delle eccezioni dall’“ordine” che siamo soliti attribuire al nazismo e agli altri regimi dittatoriali. Come è possibile che sia stata concessa la durata di una cosa tanto eccezionale in quell’ordine in cui tutto era pianificato e realizzato in maniera precisa, perfetta? La mera sussistenza di una situazione del genere genera curiosità, domande. La foto inoltre mostra i cambiamenti cultuRali avvenuti nella progettazione di questo luogo, addirittura decenni dopo la sua nascita. Vi distinguiamo soluzioni postmoderniste o decostruzioniste e i dettagli del passato incompleti, imperfetti o in frantumi si inseriscono fluidamente nell’insieme (SEGEV, 2015: Disponibile online).

I «cambiamenti cultuali» a cui si riferisce Segev riguardano forse lo sfondo: fino a qualche anno fa deserto, ora vi sono alberi ed eleganti edifici a più piani. O forse i nomi delle strade: situato fra via Pawia (del Pavone; da qui la denominazione del carcere) e la grande arteria dei viali Giovanni Paolo II, fino a pochi anni fa dedicati al bolscevico Julian Marchlewski. O forse anche l’allestimento dello stesso ampio piazzale: inizialmente spoglio, oltre al frammento dell’ingresso, allo storico olmo sotto cui ha pregato papa Wojtyła, al basso muro perimetrale sulle cui feritoie si vedono le elaborate grate degli scultori Tadeusz Łodziana e Stanisław Słonina, che ricordano sia le sbarre di una cella, sia strane armi, o rovine, o corpi contorti. Ora vi si allineano una ventina di lapidi quasi tutte nere, ognuna a ricordo di un diverso campo di concentramento o di sterminio a cui vennero avviate le vittime. E lo spazio è circondato da curatissime fioriere (come ovunque il verde a Varsavia), colme di petunie bianche e rosse. Simbolo, neanche troppo elaborato, di una Polonia che eternamente si rinnova e che si riconosce nei colori nazionali.

Dall’altra parte della strada, qualcuno ha scritto sul marciapiede la parola PRZ SZŁOść, lasciando in bianco lo spazio per una vocale. Resta così la possibilità per due possibili interpretazioni, forse solo in apparenza antitetiche: PRZESZŁOść in polacco significa passato, PRZYSZŁOść futuro.

Viale Szuch, la sede della Gestapo

Dal Pawiak i detenuti venivano portati in viale Szuch 25, sede generale della Gestapo a Varsavia, i cui sotterranei erano stati adibiti a carcere e luogo di interrogatori e torture. Gli uffici/celle si situano in maniera forse tragicomica nell’atrio di un grande edificio neoclassico, inaugurato nel 1930, e già sede del Ministero per la Pubblica Istruzione e le Confessioni Religiose (attuale Ministero per l’Istruzione Nazionale). La creazione del memoriale venne decisa dal Consiglio polacco dei Ministri già nel luglio del 1946 ed esso venne inaugurato sei anni dopo, il 18 aprile del 1952 (Disponibile online).

Non distrutto dai nazisti, l’edificio conserva in sostanza la sua forma originale, ed è stato pertanto possibile salvare, oltre alla struttura di quasi tutte le celle, circa mille fra messaggi clandestini cifrati, graffiti, disegni: preghiere, pensieri, croci, calendari. Molti graffiti sono tuttora visibili (il più noto recita: «È facile parlare della Polonia, più difficile lavorare per essa, più difficile ancora morire, ma la cosa più difficile è soffrire»), altri vengono proiettati sulle pareti delle celle; i messaggi più lunghi sono letti da una voce attoriale registrata. Molto più piccolo del Pawiak, privo della possibilità di riorganizzare gli spazi esterni, il carcere di via Szuch, al quale è vietato l’ingresso ai minori di 14 anni, non può vantarsi di un passato di rivolte dei detenuti e di tentate fughe. Negli stretti interni lugubri sono attive cinque installazioni video, fra cui il già citato Volontà di sopravvivere, e l’impressionante Segnali di accerchiamento. All’altezza delle finestre del seminterrato è proiettato un video che mostra il passaggio di stivali militari, accompagnato dal battito dei tacchi ferrati che accompagna senza pause il visitatore.

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Fig. 4 Viale Szuch. Per le foto di viale Szuch, ringrazio il direttore del Museo, prof. Tadeusz Skoczek e il dott. Andrzej Kotecki

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Fig. 5 Viale Szuch

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Fig. 6 Viale Szuch

La fortezza di Varsavia e il carcere comunista

La fortezza di Varsavia denominata Cytadela è lo storico carcere costruito dallo zar Nicola I in seguito all’insurrezione polacca del 1830-31. Oltre agli insorti del 1830, del 1863, del 1905 e ai rivoltosi di qualsiasi periodo, vi furono detenuti anche il padre della patria Józef Piłsudski, e il suo acerrimo rivale-alter ego e teorico della destra estrema Roman Dmowski. Pensando anche al periodo trascorso nella fortezza, in un celebre discorso del 1925 intitolato La psicologia del detenuto, il Maresciallo affermava: «In Polonia la prigione è il compagno costante e quotidiano del pensiero umano. È un elemento della cultura intellettuale, della cultura politica, della cultura della vita quotidiana del paese» (cit. in QUERCIOLI 2014: 22).

Nei miei recenti soggiorni a Varsavia (agosto-settembre 2018; agosto-settembre 2019) questo edificio era chiuso per ristrutturazione. La Cytadela verrà inclusa nel faraonico progetto del Museo dell’Esercito Polacco e della Storia Polacca, che dovrebbe svilupparsi per una superficie di 40.000 mq, inglobare, oltre alla Cytadela, il recente Museo di Katyń, e chissà cos’altro ancora. E ci si può ragionevolmente chiedere quale sarà il futuro allestimento delle celle/museo che avevano ospitato leader socialisti e comunisti, come Ludwik Waryński o Władysław Hibner. Concludo quindi il capitolo dedicato a Varsavia con una breve nota sul più recente dei musei/memoriali varsaviani, Cele Bezpieki, Le celle della Polizia Segreta, inaugurato nel 2018. Come il Pawiak appartenente alla rete dei Musei dell’Indipendenza, Cele Bezpieki è una sezione del Museo dell’Insurrezione. Il sito web (Disponibile online) offre la descrizione degli eventi educativi qui proposti: ad esempio laboratori per ragazzi, dove si costruisce su scala 1:72 l’automitragliatrice usata dagli insorti, o viene presentato il nuovo gioco da tavolo Le staffette dell’Insurrezione. L’ingresso alle celle, difficile da trovare, è collocato in uno stretto androne nel retro dell’ex Ministero della Giustizia. Ad accompagnarci nei soliti brevi corridoi bui e disperati, nelle misere celle sbarrate da porte in acciaio, un giovane gentile e molto muscoloso, con una maglietta nera con l’aquila polacca. La narrazione museale, benché qui in apparenza potrebbe sembrare più difficile, segue il solito schema già visto nelle altre istituzioni simili: noi contro loro. Non si tratta però solamente di un’opposizione “noi democratici” e “loro totalitari”. È qui necessaria una breve digressione. L’antisemitismo e il desiderio di sentirsi parte integrante della nazione polacca, a partire in sostanza dall’età moderna, e poi soprattutto dalla fine del XIX secolo, avevano spinto un numero crescente di ebrei a cambiare nome. Uno strattagemma spesso inutile, tanto più che, a differenza che in Italia o in altri paesi mediterranei, in Polonia la fisionomia ebraica è spesso riconoscibile, soprattutto a occhi ben esercitati. Anche ove ciò non avvenga però, e ove solo possibile, il nome “vero” viene continuamente rammentato (vedi ad esempio le molteplici voci in Wikipedia.pl). Va anche menzionato qui il sanguinoso e forse immortale mito del giudo-comunismo, in base al quale solo grazie agli ebrei la Polonia si sarebbe trovata nella sfera di influenza sovietica, e via discorrendo. Ed ecco che Cele Bezpieki, che per altri aspetti potrebbe presentarsi come una seria sede museale, nelle numerose schede personali sui protagonisti delle vessazioni presenta con grande evidenza l’eventuale origine ebraica dei criminali: Józef Światło ovvero Izaak Fleischfarb, Józef Różański ovvero Josef Goldberg…

BERLINO

La maggiore differenza fra Varsavia e Berlino è del tutto ovvia: se ad Est troviamo la narrazione dei crimini orribili subiti dalla nazione, nella capitale tedesca si tratta dei crimini orribili perpetrati dalla nazione. E mentre in una città vediamo reiterato un horror vacui che costringe a riempire ogni spazio di documenti, immagini, monumenti, simboli religiosi, bandiere, edicole votive ecc., in quella tedesca la soluzione architettonica, curatoriale ed etica si articola intorno al vuoto. È vuoto lo spazio di ampie parti del Museo Ebraico di Berlino, capolavoro di Daniel Libeskind (2001); è vuoto lo spazio della Casa Mancante in Grosse Hamburgerstrasse di Christian Boltanski (1990); è vuoto e coperto di detriti il terreno intorno a Topographie des Terrors accanto al Gropius Bau, vuoti gli interstizi fra le lapidi disuguali del Memoriale all’Olocausto di Peter Eisenman (2005), vuote le celle del carcere nazista di Papenstrasse, su cui una fuggevole installazione video proietta, a mala pena visibili, i nomi delle vittime, vuota anche la stanza dove avvenivano le esecuzioni nel memoriale di Plötzensee, privo di simboli religiosi, ma con alcune candele accese: unico ornamento, dei fiori di carta colorata lasciati da visitatori giapponesi.

“Una convincente sintesi fra il riposo, lo svago e la memoria”: così descrive il sito Disponibile online. il Geschichtspark Zellengefängnis Moabit, ovvero il parco storico del carcere di Moabit. Dallo stesso sito (non sono stata in grado di trovare guide a stampa del luogo) apprendiamo che il carcere di Moabit, costruito negli anni 1842-1849, era anche esso il carcere modello della Prussia, progettato sullo schema del britannico Pentonville, a sua volta, come già annotato, modellato sul varsaviano Pawiak. (Vale qui la pena aggiungere che, secondo Gierczyńska, in nessuno di questi casi ci imbattiamo in esempi puri del benthamiano Panapticon, dove il guardiano, in posizione centrale, può controllare contemporaneamente tutte le celle; nessuno di questi edifici infatti avrebbe una struttura completamente centralizzata). La loro novità e il carattere modellizzante risiedono nel fatto che, per la prima volta, invece dei grandi spazi comuni dove i detenuti alloggiavano tutti insieme, in completa promiscuità3 vediamo qui piccole celle singole. A fini “terapeutici” (la “mentalità criminale” era una malattia infettiva, che poteva venir estirpata tramite l’isolamento dei “degenti”) e di controllo, i condannati erano rinchiusi in celle separate, e ne era vietata qualsiasi interazione, anche durante l’ora d’aria, che doveva svolgersi in completo silenzio, spesso con la testa coperta da un sacco, o in minuscoli spazi individuali. A Moabit di tali celle se ne contavano 502; ancora nel 1955, anno della sua chiusura, vi erano rinchiusi 300 detenuti. Nel 1958, seguendo la tendenza caratterizzante almeno il periodo di Adenauer (1949-1963: anni in cui, secondo il detto tedesco, si poteva dire solo “Ja” e “Amen”) a eliminare ogni rimanenza architettonica evocatrice di memorie traumatiche, l’edificio venne raso al suolo. Il 1990 è l’anno della riunificazione tedesca, una data che certifica, anche a livello nazionale e non solo individuale o di gruppo, una potente presa in carico degli aspetti più oscuri e mostruosi della storia nazionale. È in quest’anno che si decide di dedicare l’ampio spazio vuoto lasciato dal carcere a un parco storico, che viene realizzato infine fra il 2003 e il 2006 dall’architetto del paesaggio Udo Dagenbach. Nel 2007 il progetto riceve, fra gli altri, il prestigioso premio tedesco per l’architettura del paesaggio; nelle motivazioni si legge della capacità dello staff di Dagenbach di affrontare il significato storico del luogo, anche «pianificando una collaborazione a lungo termine con i residenti» organizzando seminari storici e incontri, e si rimarca che «l’uso del repertorio ormai ben noto della Minimal- o Land Art nel rendere tangibile lo spazio claustrofobico dell’ex carcere […] non ha influenzato il giudizio della giuria»4.

Il Parco di Moabit si trova di fronte alla Hauptbahnhof, appena al di là della frontiera che separava le due Berlino. Una zona centrale, ma ben distante dai fasti del Kurfürstendamm. Una caratteristica forse berlinese, e che troviamo sia a Moabit che a Plötzensee: a pochi passi dal carcere/memoriale se ne erige un altro, ben attivo. Il carcere di Moabit è il più grande carcere maschile della regione, quello di Plötzensee è invece un altrettanto grande carcere minorile. La contiguità fra il memoriale e l’istituzione tuttora in uso suscita sensazioni contrastanti. E, sarà solo impressione, o forse proprio per la vicinanza della grande istituzione carceraria, i passanti di Invalidenstrasse o di Lehrterstrasse, dove si aprono gli ingressi al Parco, sembrano diversi dagli altri berlinesi, più malinconici e trasandati. Hanno un aspetto dimesso anche i tabelloni esplicativi posti ai tre ingressi al Parco, con brevi cenni storici sul carcere dal momento della sua inaugurazione. Forse appositamente dimessi, perché nulla deve esserci, in questo luogo, di rutilante, di gridato, di esagerato, nulla che muova esplicitamente alle lacrime. Se non la grande scritta con il frammento di Haushofer riportato in esergo, le cui parole, che coprono quasi l’intero perimetro interno del Parco, sono impossibili da venir percepite nel loro insieme: possiamo leggerne una per volta, il che può forse amplificarne l’impatto: dolore, mura, ferro.

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Fig. 7 Il Parco di Moabit

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Fig. 8 Il Parco di Moabit

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Fig. 9 Il Parco di Moabit

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Fig. 10 Il Parco di Moabit

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Fig. 11 Plotzensee

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Fig. 12 Papenstrasse

Dunque, se uscendo dalla futuristica Haptbahnhof berlinese sulla destra troviamo lo Hamburger Bahnhof, fra i più importanti musei di arte contemporanea a livello europeo, procedendo sulla sinistra vediamo un muro di mattoni, dal 1992 monumento nazionale, e uno strano ingresso che ricorda gli stilemi dell’architettura brutalista, che non si capisce se inviti a entrare o a restar fuori, o se non voglia addirittura rinchiudersi come un gigantesco tappo alle nostre spalle, una volta varcato quel confine. Nella mia ultima visita al Parco, nel luglio 2018, appena varcato l’ingresso sul prato bivaccavano un paio di famiglie rom. In mezzo ai consueti fagotti, buttati a terra, degli strumenti musicali. Come nel poema Madre, Patria di Bożena Keff:

Sulle rive del vuoto di Babilonia sedevo
senza piangere senza toccare gli strumenti della musica e senza ricordare
perché ciò che avrei dovuto ricordare forse che
sulle rive del vuoto sedevo
senza piangere e senza toccare gli strumenti della musica e senza ricordare
perché cosa avrei dovuto
(KEFF 2011b: 26)

A Moabit non sono stati assassinati dei rom. Molti oppositori al nazismo, certo. Fra cui il già citato Haushofer, autore fra l’altro dei celebri in Germania Sonetti di Moabit, o Dietrich Bonhöffer, o i partecipanti all’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944. Ma forse uguale risalto nei cartelli esplicativi e nei siti web ufficiali vi hanno la memoria del Capitano di Köpenick, al secolo Wilhelm Voigt, le cui vicende tragicomiche sono narrate in un film premio Oscar nel 1956 (Der Hauptmann von Köpenick di Helmut Käutner), o di Berthold Wehmeyer, che gode del dubbio vanto di essere stato l’ultimo criminale condannato a morte a Berlino (nel 1949). Perché quello che racconta il Parco di Moabit non sono la lotta contro il nemico, la perseveranza, la capacità di sopravvivenza, ma la struttura di una memoria che può solo articolarsi per frammenti sparsi, a prima vista dal significato ambiguo o poco intelligibile, che emergono fra il verde e gli alberi ad alto fusto come dall’oblio o dall’inconscio. Pilastri di cemento indicano la posizione dell’edificio centrale, da cui si potevano monitorare i detenuti. Due muri paralleli rammentano i lunghi corridoi. Forme di cemento a terra ripetono, qua e là, il perimetro delle celle. Degli alberi di faggio mostrano la posizione degli edifici amministrativi. Due muri ad angolo acuto, uno stretto triangolo privo di base, ricalcano la sagoma dello spazio destinato all’ora d’aria: 10 metri quadrati. È proprio dal carcere di Moabit che origina un detto ancora in uso in Germania: in Dreieck springen, “saltare nel triangolo”, ovvero impazzire di rabbia. Era questo il triangolo in cui il detenuto, per la mancanza di spazio e per il controllo assoluto a cui era sottoposto poteva appunto impazzire di rabbia: e molte cronache raccontano di carcerati che prendevano a calci questi muri, vi sbattevano contro la testa.

Il Geschichtspark Zellengefängnis Moabit raggiunge, secondo me, la «true authenticity» che dovrebbe designare luoghi simili:«In the case of prison museum true authenticity [...] implies an inclusive curatorial approach that gives substantive voice to those most wronged or harmed by the institution and whom the social memory has most neglected» (WYLSON e BOYLE 2017: poss. 10722-10726; secondo corsivo mio).

Lo spazio non concede di soffermarsi sugli altri carceri/memoriali berlinesi, già menzionati a inizio paragrafo; il più antico di essi è il Memoriale di Plötzensee, istituito già nel 1952, e dove, fra il 1933 e il 1945 vennero giustiziate almeno 3000 persone, quasi esclusivamente membri della resistenza, metà dei quali tedeschi.


Nel 2012 è stato inaugurato nella sua forma attuale Topographie des Terrors (Disponibile online), nel sito ove sorgeva l’ufficio centrale della Gestapo, delle SS e per la Sicurezza del Reich, raso al suolo negli anni Cinquanta e la cui enorme area, un tempo adiacente il muro fra le due Berlino, era rimasta per decenni ignota e inesplorata. Topographie des Terrors è il frutto di una straordinaria iniziativa popolare (Aktive Museum è la sigla cappello che riuniva 19 associazioni, fra cui quelle degli omosessuali, dei socialdemocratici perseguitati da regime nazista, della gioventù evangelica di Berlino e molte altre; cfr. HASS 2012: 31), iniziata già nei primi anni Ottanta, e che aveva trovato anche una certa opposizione da parte del governo centrale. Risale infine al 2013 l’inaugurazione della mostra permanente a Papenstrasse, già carcere delle SA, l’unico rimasto inalterato dal periodo del terrore, e che gli autori della sua guida definiscono «un primo campo di concentramento a Berlino» (Disponibile online).

Collocato negli enormi spazi un tempo desertificati di Berlino est, già sede di uno Speziallager sovietico, e quindi centro di detenzione del Ministero della Sicurezza Nazionale della RDT, meriterebbe un capitolo a parte il Museo della Stasi, ovvero il Memoriale Berlin Hoheschönhausen (Disponibile online). Il suo amplissimo sito web ne consente anche una breve visita virtuale, accompagnati, come sempre in questo museo/carcere/memoriale, da un ex detenuto; in questo caso si tratta di una donna, Edda Schönherz.

The most weighty issues of justice, and societal integrity, ˗ scrivono Wilson e Boyle ˗ had to be addressed, with few certainties as to what was the best plan for Germany’s future, but with a central imperative to their deliberations: the restoration in the nation’s make-up of a sense of the paramountcy of human rights. [...] The Stasi Prison today stands as a significant institution of Germany’s heritage, and as such provides a salutary reminder of the inestimable value of participatory citizenship, democratic sovereignty and the rule of law (WILSON e BOYLE 2017: pos 10859).

ROMA

Come nota il già citato Robert Traba in un articolo sul carattere “bilaterale” della cultura della memoria: «Il problema essenziale nella reciproca collaborazione [fra Polonia e Germania, NdA] è l’asimmetria, espressa da quattro categorie che organizzano la memoria. Da parte tedesca si tratta dell’universalizzazione della narrazione sulle vittime, e l’individualizzazione dell’approccio al passato. Da parte polacca è il senso di comunità e il concentrarsi sulla propria cultura nazionale» (TRABA 2018: 61). Se, comunque, i carceri/memoriali mostrano, a Varsavia e a Berlino, esempi di una narrazione sostanzialmente unitaria sul passato nazionale5, via Tasso a Roma sembra riassumere l’immagine di una società profondamente frammentata, che può trovare un discorso comune solo appellandosi a sentimenti basilari, come l’orrore e la pietà:

L’horreur et la pitié ˗ scrive Ersilia Alessandrone Perona, già direttrice dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza ˗ : le même code avait été adopté par le musée de la libération de Rome ou la geôle de la Gestapo en via Tasso, en elle-même un document historique, abritait les images et les souvenir de la résistance romaine. […] C’était un choix presque obligé, car le deuil, le plus traditionnel des languages, est aussi le plus acceptable par une communauté encore foncièrement divisée (PERONA 2005: poss. 2235-2241).

Il Museo della Liberazione di Roma (Disponibile onlineit/, e anche Disponibile online) è stato inaugurato relativamente molto presto, già nel 1955, ed è frutto di una battaglia quasi senza esclusione di colpi all’interno dell’arco politico italiano. Dice Antonio Parisella, già professore di Storia contemporanea all’Università di Parma e presidente del Museo dal 2001: «Perché il museo nasce proprio in quel momento? Le elezioni del 1953 vengono ricordate per la cosiddetta Legge truffa, ma andrebbero nominate forse anzitutto perché è allora che si presenta la novità di un Movimento Sociale Italiano, forte e pieno di soldi. Lo MSI si richiama all’onore militare. La DCI reagisce candidando importanti militari nelle sue file. Il piccolo Museo è dunque frutto di questo terribile scontro»6. Sì, perché via Tasso «è l’unico luogo in Italia dove vengono i ricordati i militari (il fronte militare clandestino era ovviamente più rilevante a Roma); tutti gli altri musei della Resistenza sono dedicati unicamente ai partigiani». Situato al primo, secondo e al terzo piano di una palazzina di abitazione terminata di costruire nel 1939, fra la Basilica di San Giovanni e viale Manzoni, già sede degli uffici culturali dell’ambasciata tedesca, durante l’occupazione di Roma via Tasso era poi divenuta la Hausgefängnis (lett: carcere di casa, carcere in casa) più celebre della capitale. Vi furono detenute e torturate circa 2000 persone, fra cui Don Pietro Pappagallo, Giuliano Vassalli, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, di cui si può visitare a piccola cella “privata”. Dal punto di vista narrativo la figura di Montezemolo è quella centrale; il museo nasce anzitutto come un sacrario militare sui generis, in cui si commemorano le stragi (Fosse Ardeatine, Forte Bravetta, La Storta), e colui che fu «il personaggio chiave della presenza militare italiana nella clandestinità» (PARISELLA 2013: 31). [Per le immagini di questa sezione ringrazio il direttore del Museo della Liberazione di Roma, Antonio Parisella, e Francesco Piccirillo, resp. sezione audiovisivi.]

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Fig. 13 Via Tasso

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Fig. 14 Via Tasso, la cella di Montezemolo

Le pareti hanno conservato quasi inalterato un patrimonio unico di graffiti e iscrizioni (vi ha dedicato un libro Stanislao G. Pugliese della Hofstra University: Desperate Inscriptions: Graffiti from the Nazi Prison of Rome, 1943-1944). Fra ristrettezze economiche quasi grottesche (sempre sul punto di chiudere per mancanza di fondi ˗ e opposizioni politiche ˗, il Museo non è neanche stato in grado di acquisire i piani superiori della palazzina al civico 145, tuttora dedicati ad abitazioni private, e dove pure erano collocate le celle), attentati fascisti (il 23 novembre del 1999, fortunosamente senza danni, firmato da un sedicente “Comitato Antisionista”, l’attentato risale al periodo in cui, dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo, si andavano organizzando Forza Nuova e Casa Pound. Solo tre giorni dopo, con la stessa firma, un altro attentato al cinema Nuovo Olimpia, nei pressi del Parlamento, dove veniva proiettato il film di Eyal Sivan.Uno specialista sul processo Eichmann), il Museo di via Tasso ha una piccola rivalutazione nel 2001, quando l’allora Ministro per la Cultura, Giovanna Melandri, vi inaugura una sala al secondo piano dedicata alle persecuzioni antiebraiche e vi viene approntata la strumentazione (non funzionante) per consultare le interviste video della Fondazione Spielberg. Dalla metà degli anni Ottanta, però, sempre secondo Parisella, «l’idea centrale diventa sempre più quella del museo-movimento». Le scuole, la Comunità Ebraica di Roma, il Gruppo Martin Buber Ebrei per la Pace, i centri sociali, l’ANPI e l’ANED. A questi si uniscono gli avvocati e le associazioni dei desaparecidos cileni e argentini. Anche i curdi, quando Abdullah Ocalan era a Roma (1999), si incontravano in via Tasso grazie all’associazione Ararat.

Ma la cosa più singolare di via Tasso, ciò che rende questo museo un luogo unico, è ancora una volta la sua architettura. Non vi troviamo corridoi sotterranei, cemento, porte blindate. Qui non è nelle segrete, nelle cantine maleodoranti, nelle allucinate strutture alla Piranesi che si annida il male, ma nel più banale degli interni borghesi. L’anonima palazzina razionalista è probabilmente un esempio straordinario di quello che Anthony Vidler definisce The Architectural Uncanny: le stanze adibite a prigione e luogo di tortura mostrano ancora le insulse tappezzerie fiorate; la cucina trasformata in cella (qui era rinchiuso Montezemolo) è piastrellata in un ingenuo azzurrino, vi si vedono un’innocua cappa fumaria, un lavello in marmo; le finestre murate riproducono le grandi aperture regolari che si aprivano sul lato interno dell’edificio, a cui ci si poteva appoggiare, innaffiare gerani, appendere la biancheria. È una sorta di evoluzione al suo massimo grado delle vicende ottocentesche dei bambini terribili di Pierino Porcospino ovvero Struwwelpeter, dove la rispettabilità borghese mostra, senza veli, la sua propensione al male, alla violenza, alla vendetta priva di causa prima (su questo tema cfr. ad es. HANDLER SPITZ 2001: 45 sgg).

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Fig. 15. Via Tasso

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Fig. 16. Via Tasso

Il carcere dei nemici di Roma

«Nel carcere vi è un luogo chiamato Tulliano, un poco a sinistra salendo, sprofondato a circa 12 piedi sotto terra. Esso è chiuso tutt'intorno da robuste pareti, e al di sopra da un soffitto, costituito da una volta in pietra. Il suo aspetto è ripugnante e spaventoso per lo stato di abbandono, l'oscurità, il puzzo»
Gaio Sallustio Crispo, De Catilinae coniuratione

Un’architettura altrettanto unica è quella del Carcere Mamertino, sotto il Campidoglio e la Rupe Tarpea; datando dai tempi di Anco Marzio (VII sec. p.e.v.), si tratta probabilmente del più antico edificio carcerario esistente. L’orrore del carcere vi si presenta nella sua più cruda e crudele essenza. La memoria dei tanti nemici di Roma che vi vennero trucidati o lasciati morire di fame: i seguaci dei Gracchi, Giugurta, i congiurati di Catilina, il difensore di Gerusalemme Shimon bar Giora, Vercingetorige e migliaia di altri, si confonde con la ben nota leggenda della presenza, in questo luogo, degli apostoli Pietro e Paolo. È grazie a questa tradizione che dobbiamo la salvezza del luogo, che nel 314 smise di essere un carcere e fu trasformato in chiesa, san Pietro in Carcere. Affacciandoci sul perimetro della fossa profonda in cui giacevano i condannati vediamo ancora, sul fondo, scorrervi dell’acqua. I detenuti «vi venivano abbandonati alle potenze degli inferi, risucchiati dalla terra e come tali cancellati dall'esistenza» (Patrizia Fortini, citata in G. SILVESTRI 2010).

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Fig. 17. Carcere Mamertino, livello intermedio con l'altare di Pietro e Paolo. Per le immagini del Carcere Mamertino ringrazio sentitamente il dott. Carlo Munns.

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Fig. 18. Carcere Mamertino. Il Tullianum livello inferiore

Il Mamertinum/Tullianum era infatti situato sopra una fonte, probabilmente un luogo dedicato a una divinità ctonia. L’acqua, tortura per i condannati, che vi erano perennemente immersi fino alle ginocchia, è anche simbolo di vita, rinascita, di purificazione. Come se anche in quei tempi antichi (e qui ci troviamo veramente di fronte al «profondo pozzo del passato» di cui scrive Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli) la punizione fosse, forse, collegata a un rituale di purificazione e rinascita. Ma anzitutto, come accenna Patrizia Fortini, che per la Sovrintendenza di Roma ha coordinato il restauro del Mamertino nel 2010 (cfr. FORTINI 2012), abbiamo qui forse un’ulteriore conferma della geniale intuizione di George Santayana, ripresa da Leo Spitzer, di come la Chiesa cattolica abbia veramente costruito «Santa Maria sopra Minerva» (SPITZER 1975: 316): il rituale dell’acqua, agito dagli apostoli nel battezzare i loro carcerieri Processo e Martiniano, si situerebbe armonicamente all’interno della tradizione precedente.

Due grandi lapidi, al piano superiore a quello del carcere, portano iscrizioni dall’eloquenza maestosa: «Qui perirono vittime / dei trionfi di Roma […] [qui seguono i nomi] E molti altri oscuri o meno illustri / caduti tra i gorghi / degli odi e degli eventi umani […]. O tu che passi venera in silenzio / gli echi terribili o gloriosi / di venticinque secoli di storia».

Oltre all’orrore e alla pietà di cui ha scritto Ersilia Perona, vediamo qui come una narrazione straordinariamente disomogenea e decentrata, come quella dell’Italia e della sua capitale, trovi forse la sua unica possibile compattezza nel fasto, nella leggenda, nel mito.

***

Ed è forse proprio (anche) in questi angusti spazi che, come auspicato da Aleida Assmann (Cfr. ASSMANN 2002), la memoria eroica dei vinti (degli eroi, dei martiri) si trasforma in quella delle vittime. Una memoria che non si lega al desiderio di rivalsa e di vendetta, ma alla necessità del riconoscimento reciproco, grazie alle quale, come argomenta Assmann, la memoria dei traumi può evitare il destino di ereditarsi di generazione in generazione, trasformandosi in una cicatrice perenne, ma diventare fonte di elaborazione e maturazione civica condivisa. È, forse, necessario attendere il passaggio dei secoli, come ci indica il pozzo del carcere Mamertino, oppure, forse, una potente e dolorosa presa di coscienza collettiva, e un’altrettanto potente e nuova soluzione artistica e morale, come quella in cui ci imbattiamo nelle strade di Berlino7.

Bibliografia

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Note

↑ 1 In realtà l’ala femminile, detta “Serbia”, fu costruita solo negli anni Ottanta dell’Ottocento (Cfr. GIERCZYŃSKA 2014: 21).

↑ 2 Sull’affermarsi dell’idea-binomio ovvero del peculiare sillogismo polacco=cattolico (ed anche, in seguito, cattolico=polacco), vedi ad es., in italiano, Luigi Marinelli, Chi sono i polacchi, “Limes” n. 1, 2014, pp. 57-65; e Stanisław Obirek, Polonia: Il messianismo è finito sul selciato, “Limes” 2, 2020, pp. 123-127..

↑ 3 Carceri del genere esistevano in Europa, ad esempio in Unione Sovietica, ancora durante la seconda guerra mondiale; vedi le case di detenzione di Zamarstynów e di Saratov descritti in WAT: 2013.

↑ 4 https://web.archive.org/web/20101115073543/http://www.bdla.de/seite24.htm.

↑ 5 Non si pretende certo in questo breve testo sussumere le cosiddette “identità nazionali” dei singoli paesi (anche Polonia e Germania sono, al loro interno, società profondamente divise, come probabilmente ovunque in Europa), ma si cerca di identificare la narrazione principale dei peculiari memoriali presi in esame.

↑ 6 Le affermazioni di Parisella, questa e le seguenti, mi sono state rilasciate durante un incontro personale svoltosi a via Tasso il 18 novembre del 2019; dichiarazioni analoghe si trovano nel suo volume Cultura cattolica e resistenza nell’Italia repubblicana, Roma, AVE, 2005, e nelle sue varie pubblicazioni successive.

↑ 7Questo articolo è parte del progetto finanziato dall’Istituto Italiano di Studi Germanici – Roma dal titolo Intermedialità, storia, memoria e mito. Percorsi dell’arte contemporanea fra Germania e Polonia.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482