Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

La chiave educativa di un positivo cambiamento attraverso il teatro. Il corpo del condannato in Gramsci, Genet, Kafka, Foucault.

Vito MINOIA



Abstract

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Lo scritto si ispira ad un’esperienza condotta dall’autore, impegnato in un progetto educativo di elaborazione drammaturgica e scenica con la Compagnia di detenuti e detenute “Lo Spacco” nella Casa Circondariale di Pesaro. Il lavoro trae linfa dalle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, offrendo lo spunto per una riflessione sulle trasformazioni “molecolari” della persona reclusa. La storia dell’immaginario ha spesso avuto opere letterarie ed artistiche tra i suoi documenti privilegiati. La riflessione individua quindi un viaggio comparativo, nella prospettiva della costruzione di un modello culturologico. Limitatamente ad alcuni scritti novecenteschi presi in considerazione (da Genet, Kafka, Foucault), si illustra come l’attenzione dei singoli scrittori sia focalizzata essenzialmente sulle tecniche coercitive che, nell’ambito del “luogo-prigione”, si esercitano sul corpo del condannato ripercorrendo le tappe di un vero e proprio “processo di decorporeizzazione” (con Deleuze) nella strategia del potere di punire.

1. Lettere dal carcere

Era il 2010 quando, nella Casa Circondariale di Pesaro, nell’ambito del laboratorio “La comunicazione teatrale” a cura del Teatro Universitario Aenigma, un gruppo di detenuti e detenute1 della Compagnia penitenziaria “Lo Spacco” si cimenta creativamente sulle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. L’opera dell’intellettuale sardo costituisce una testimonianza umana straordinaria ed un capolavoro letterario: le lettere raccontano gli sforzi compiuti dall'autore per sopravvivere, le speranze, le piccole felicità senza le quali l'uomo non può vivere, le crisi e lo sprofondarsi in abissi terribili. Essere condannato a finire la vita o almeno una grande parte della propria vita in carcere (come per Gramsci) richiede da parte del condannato strategie particolari di sopravvivenza. Ciascuno reagisce in modo diverso, ma tutti devono fare i conti con il regolamento, con le costrizioni che cambiano la sensazione del proprio corpo, dello spazio e del tempo, con la scissione del mondo in un dentro e un fuori e con la crescente difficoltà di tenere insieme questi due mondi.

L’11 aprile 1927, in una lettera a Tatiania Schucht scriveva:

Ecco, vedi; un altro oggetto di analisi molto interessante: il regolamento carcerario e la psicologia che matura su di esso da una parte, e sul contatto coi carcerati, dall'altra, tra il personale di custodia. Io credevo che due capolavori (dico proprio sul serio) concentrassero l'esperienza millenaria degli uomini nel campo dell'organizzazione di massa: il manuale del caporale e il catechismo cattolico. Mi sono persuaso che occorre aggiungere, sebbene in un campo molto piú ristretto e di carattere eccezionale, il regolamento carcerario, che racchiude dei veri tesori di introspezione psicologica (GRAMSCI 1965).

Gramsci ci aiuta con il suo “occhio da antropologo” a scoprire una dimensione nella quale avvengono, come dice lui, trasformazioni “molecolari” della persona. Nello spettacolo trovano spazio e prendono corpo in forma scenica alcune lettere di Gramsci sia alla cognata Tania sia ai figli Delio e Giuliano, alla moglie Giulia, oltre a scritture originali elaborate dagli stessi protagonisti nel tentativo di ricostruire le emozioni più profonde di chi vive l’esperienza della reclusione. Al progetto collabora il sociologo Peter Kammerer che quelle lettere ha tradotto in tedesco e accoglie la proposta di incontrare il gruppo per raccontare la storia di Gramsci e offrire ai partecipanti suggestioni per una elaborazione drammaturgica, rimanendone impressionato per la straordinarietà con la quale quel gruppo di uomini e donne tenta di mantenere il rapporto con la vita attraverso la scrittura.

Ci troviamo in una piccola stanza accanto alla biblioteca del carcere. Il trasferimento delle donne dal “femminile” fino a qui o quello dei maschi richiede sempre molto tempo. Tutto in carcere è complicato, per ogni cosa ci vuole del personale che non sempre c`è. Silvia arriva, ha in mano alcune lettere di Gramsci indirizzate alla moglie. Dice: «Se il mio uomo mi scrivesse così, lo lascerei». Racconta la sua mattina: «La luce nella mia cella sta tra quella di una cantina e un acquario. Stamattina come rumori sentivo un tagliaerba, un cane e un gallo» (KAMMERER 2010:20).

Una trentina sono state le lettere distribuite ai quindici partecipanti, nelle quali Gramsci analizza le trasformazioni fisiche e psichiche che il recluso subisce e come reagisce nel tentativo di rimanere in contatto con il mondo esterno. Nessuno sa chi è Antonio Gramsci e questo consente un clima di libertà interpretativa. Alla domanda “Come immaginate Gramsci?” la fantasia si libera.

Simona ci legge un suo sms: “Ora anima mia ti saluto. X sempre solo tua. Simo”. Stefano: “Gramsci non lo conosco. Ma vedo che in comune con noi ha la detenzione e il dolore. In più lui era in carcere innocente, per le sue idee.” Mohsine: “Leggere le sue lettere mi ha aiutato. Per la prima volta ho scritto a mia madre in Marocco” (Ivi:21).

In ciascuno Gramsci stimola la voglia di mettere in gioco le proprie esperienze e si procede con la scrittura. A ciascuno è affidato il compito di produrre un testo descrivendo quello che sente, soffre, impara. Qualcuno è geloso dei propri sogni, altri si propongono con entusiasmo ma fanno i conti con la rigidità del regolamento penitenziario.

Che spettacolo straordinario. Con pochi trucchi del mestiere e pochi oggetti di scena gli attori e le attrici sono riusciti a fare gran teatro. Entrano gli attori e si siedono sul lato sinistro e quello di destra della scena che si apre al centro con un grande fondale bianco. Tutti rimangono sempre visibili, qui per necessità, ma anche nello spirito con cui Brecht aveva messo in scena la sua Antigone di Coira nel 1948. La voce di Barbara cita una lettera di Gramsci al figlio Delio: «Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi». Sulla grande tela appare l'ombra di una figura che riassume in poche parole la discussione nel gruppo su chi era Gramsci. Lo spettacolo si sviluppa in nove scene con musiche scelte accuratamente, in un grande montaggio di testi scritti dai detenuti e dalle detenute in risposta a lettere di Gramsci. Sarebbe ingiusto sottolineare singoli aspetti di un lavoro così organico e così di gruppo. Ma non posso non ricordare la tristezza e la comicità straordinaria di Roberto che nella storia del bambino e il topo che Gramsci volle raccontare ai suoi figli presta il suo corpo robusto al bambino, al topo, alla capra, alla fontana, al muratore e alla montagna. Non posso non ricordare la sacralità del momento in cui un ragazzo arabo scrive la sua lettera alla madre o della tenerezza con la quale Silvia si prende cura della sua compagna Daniela. Giovanni, Salvatore, Aurelia, Andrea, tutti essenziali al gruppo. In una cella rapidamente costruita sulla scena Giovanni scalda il latte e Massimo recita un suo “Momento dolce: o llatte ca ciucculata” come se fossero versi del Petrarca. Il finale sfugge al pericolo dei buoni sentimenti che facilmente fioriscono nel carcere. Stefano legge una poesia che le sue figlie hanno scritto per lui, loro in Colombia, lui a Pesaro. E lui risponde con un suo testo. È un momento delicato che finisce in un grande applauso del pubblico visibilmente commosso (Ivi: 21-22).

Si è creato un gruppo che ha dimostrato grande rispetto dell'altro, una grande tenerezza reciproca, un forte impegno fisico e intellettuale. Un gruppo purtroppo destinato a disperdersi per le varie vicende penali di ciascuno ma che a distanza di anni ha prodotto ulteriori significativi risultati: il superamento dell’isolamento introspettivo di Mohsine, la voglia di Silvia, uscita di prigione, di costituire un paio di anni più tardi in Francia un’associazione culturale per avviare un’esperienza di teatro di strada, la carriera di Massimo, che diventerà in prima persona animatore di una compagnia teatrale nel penitenziario a custodia attenuata nel quale verrà trasferito, scrivendo anche del processo di “metamorfosi” vissuta attraverso l’esperienza teatrale (BALSAMO 2013: 126). La memoria della drammaturgia di quello spettacolo (MINOIA 2012: 71-92) è stata inoltre affidata all’Antologia che raccoglie la dodicesima edizione del Premio Gramsci che ad Ales (Oristano) nel gennaio 2011 attribuisce al testo il riconoscimento di migliore opera letteraria in lingua italiana. «Un teatro in carcere come antidoto alla solitudine… nato dall’esperienza di vita dei detenuti, che a loro volta sono diventati protagonisti e personaggi della finzione teatrale dietro le sbarre… nel tentativo di ricostruire le emozioni più profonde di chi vive l’esperienza della reclusione» (SERRA 2012: 7).

2. Carcere e immaginario letterario ed artistico

L’esperienza descritta sulleLettere dal carcere di Gramsci nella Casa Circondariale di Pesaro, ci offre lo spunto per compiere un viaggio comparativo particolarmente interessante nella prospettiva della costruzione di un modello culturologico.

La storia dell’immaginario ha tra i suoi documenti privilegiati le opere letterarie ed artistiche. Proviamo ad analizzare come alcuni autori del Novecento abbiano immaginato il mondo della prigione. Vedremo anche come alcuni di loro abbiano attinto le immagini più forti da una propria drammatica esperienza di reclusione.

Nel nostro excursus, dimostreremo, limitatamente ad alcuni scritti novecenteschi presi in considerazione, come l’attenzione dello scrittore si focalizzi essenzialmente sulle tecniche coercitive che, nell’ambito del ‘luogo-prigione’, si esercitano sul corpo del condannato.

Partiremo con Jean Genet, l’autore che Jean Paul Sartre nel suo Saint Genet Comédien et Martyr (1952) aveva trasformato in “personaggio” elevandolo a modello vivente del suo esistenzialismo. È innegabile che nelle opere di Genet vi sia una sorta di adesione alla prigione, luogo che lo stesso autore considera come qualcosa di materno. La sua è, innanzitutto, una adesione alla morale del “male” e del “criminale”. La galera è in Genet lo spazio di una nuova regalità, dove questa morale “trionfa”. In Haute Surveillance (Vigilanza stretta)(1968) sono molti i dettagli che fanno intravedere, in tutto il suo splendore, la sacralità dello spazio-carcere e del corpo che è da esso segnato (fino alla riproduzione delle stigmate).

Nel testo In der Strafkolonie (Nella Colonia penale) di Kafka (1919), invece, si fa palesemente evidente la centralità delle afflizioni inflitte al corpo del condannato. Protagonista del racconto è una macchina infernale che incide con l’erpice, sul corpo del condannato, il paragrafo di legge che ha violato. La vittima interpreta il testo attraverso le proprie ferite, attraverso le lacerazioni subite. Ancora una volta, mediante l’imitazione del modello del Cristo, è il corpo del suppliziato che dà un senso alla scrittura. Attraverso un processo di spettacolarizzazione, inoltre, il corpo-relè del condannato permette, mediante l’identificazione con il pubblico radunatosi intorno all’evento, la “Consumazione del rituale della Giustizia Eterna”. Il nuovo comandante della Colonia, però, non condivide l’uso che crudelmente l’ufficiale preposto alla effettuazione del supplizio vorrebbe continuare a perpetuare. La Macchina va in pezzi.

Il racconto di Kafka colloca l’azione nel passaggio da uno stadio ad un altro della formazione del potere. Sarà Michel Foucault in Surveiller et punir. Naissance de la prison (Sorvegliare e punire. Nascita della prigione) (1975) a cogliere la verità emersa dalla Colonia penale di Kafka, le tracce di un graduale processo verificatosi nella Francia dei secoli XVIII e XIX. Il passaggio dal rituale dei supplizi pubblici, voluti dal sovrano, alla istituzione dei penitenziari, in grado di infliggere pene generalizzate all'“anima da rieducare” del condannato.

La pena diviene incorporea. Nasce una nuova strategia del potere di punire. Secondo Foucault anche quando i sistemi punitivi non si richiamano a castighi violenti e sanguinosi ma utilizzano metodi “dolci”, rinchiudono o correggono, è pur sempre del corpo che si tratta, del corpo e delle sue forze, della loro utilità e docilità, della loro ripartizione e sottomissione.

Foucault teorizza l’esistenza di una tecnologia politica del corpo diffusa all’interno del penitenziario ed enuncia il “Panoptismo”, erigendolo a immagine-simbolo del nuovo modello, non solo architettonico (il nuovo spazio di reclusione ideato da Bentham), ma, in forma astratta, anche sociale.

Il Panopticon di Bentham è la figura architettonica di questa composizione: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella un condannato. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla torre, stagliantesi esattamente, le piccole silhouette prigioniere nelle celle della periferia. (FOUCAULT 1975: 218)

Il carcere, infatti, funge da modello analogico per tutti i luoghi di segregazione, attraverso i quali passa l’individuo nelle moderne “Società disciplinari”.

Gilles Deleuze si spinge ancora più avanti di Foucault, fino ad ipotizzare la fine della necessità della prigione. Il nuovo “diagramma” delle “Società di controllo” (questa volta il termine è suggerito da Burroughs) permette la ricerca di pene sostitutive, almeno per la piccola delinquenza, e l’uso di collari elettronici tali da imporre al condannato di restare in casa in certe ore (cfr. Deleuze in Pourparler, 1990).

Lo stesso Deleuze ricorre all’aiuto di Kafka che con grande profetismo aveva già prefigurato tutto in Der Prozess (Il Processo) (1925), dove sembra che al giovane impiegato di banca Joseph K., processato da un enigmatico tribunale per una colpa indefinibile, verrebbe concessa come unica alternativa alla morte quella di scontare una pena “differibile all’infinito”. Il processo di decorporeizzazione si completa.

3. Adesione alla prigione di Jean Genet e il corpo come simulacro

Tutta l’opera di Genet è segnata da una sua profonda adesione al mondo del male, alla figura del criminale; egli arriva a considerare la colonia penale di Mettray, dove fu rinchiuso nel corso della sua adolescenza, come qualcosa di materno.

Si figura in quel tempo che essa gli appaia con tutto ciò che è solo delle donne: tenerezza, fiati un po’ nauseabondi della bocca socchiusa, seno profondo che la risacca solleva, insomma tutto quanto fa sì che la madre sia madre.(SARTRE 1972: 9).

Abbandonato dopo la nascita e affidato a una coppia di contadini che abitano nel paesino di Alligny en-Morvan, dove trascorre i suoi primi tredici anni di vita, Genet vive una prima infanzia tranquilla e coccolata, in un mondo essenzialmente caratterizzato dalla presenza femminile. Presto arriveranno le vicende che, dalla Colonia correzionale di Mettray alla Legione Straniera, dai viaggi attraverso l’Europa al diventare mendicante e ladro di professione, lo porteranno ad essere arrestato più volte e a rischiare di restare a lungo in prigione per recidività.

Agli inizi degli anni Quaranta, dunque, da reietto, vagabondo, ladro, omosessuale, dedito alla prostituzione, costruitosi una mistica dell’abiezione e del capovolgimento dei valori, si rivela in carcere poeta, letterato e drammaturgo di eccezionale qualità. Dovrà la sua libertà alla protezione di alcuni influenti scrittori, tra cui Cocteau e Sartre, che avvieranno una petizione al fine di ottenere una grazia definitiva in suo favore, quando era ancora passibile di due anni di reclusione per vecchi reati. Ormai potrà dedicarsi continuativamente al suo lavoro di scrittura, grazie soprattutto all’aiuto di Sartre che pubblicherà ampi stralci delle sue opere sulle pagine di Temps Modernes, facendole conoscere e apprezzare da un vastissimo pubblico.

Anche se la critica, a volte, disdegna la lettura biografica, nel caso di Genet è difficile far tacere il sospetto che i suoi rifiuti culturali traggano forza, umori e significato da rifiuti di vissuto e da esperienze esistenziali. Sono infatti in tanti a ripercorrere l’itinerario tracciato, una volta e per tutte, da Sartre.«Impossibile sfuggire alla spirale: l’opera di Genet rinvia al ‘Personaggio Genet’, il quale esiste solo a motivo di quest’opera» (DORT 1990: 13).Nel 1952, infatti, Sartre pubblica Saint Genet Comédien et Martyr (Santo Genet, Commediante e Martire) con lo scopo di creare l’introduzione più qualificata alla lettura dei romanzi e del teatro di Genet. In realtà quest’opera rappresenta l’effettivo momento dialettico tra esistenzialismo e marxismo così come essi sono vissuti nell’opera dello stesso Sartre.

Mostrare i limiti dell’interpretazione psicoanalitica e della spiegazione marxista, soltanto la libertà può rendere conto di una persona nella sua totalità; far vedere codesta libertà alle prese col destino, dapprima schiacciata dalle proprie fatalità e poi vi torna sopra per digerirle a poco a poco; dimostrare che il genio non è un dono, ma la soluzione che si inventa nei casi disperati; ritrovare la scelta che lo scrittore fa di sé stesso, della propria vita e del senso dell’universo, fin nei caratteri formali del proprio stile e del proprio comporre, fin nella scrittura delle proprie immagini e nelle particolarità dei propri gusti; rintracciare dettagliatamente la storia di una liberazione: ecco quel che ho voluto fare (SARTRE 1972: 63).

È vero anche, però, che il saggio di Sartre conosce l’opera di Genet solo parzialmente. Secondo Bernard Dort, infatti:

Il teatro porta Genet dal sé totalizzante riscontrabile nell’autobiografismo, camuffato e traslato dei romanzi e ancora avvertibile delle due prime opere drammatiche (‘Le Serve’ e ‘Vigilanza Stretta’), agli altri, alla visione degli altri, colti, molto soggettivamente, nella loro oggettività ed estraneità (a partire dal ‘Balcone’). Un semplice dato può essere rappresentativo: la distribuzione di Haute Sorveillance (Vigilanza Stretta) allinea quattro personaggi di cui soltanto tre essenziali; quella di Les Paravents (I Paraventi, ultimo dramma scritto da Genet) ne conta oltre sessanta, con un’altissima percentuale di solisti (MORTEO 1987: VI).

Una conferma rivelatrice del passaggio dalla soggettività dell’autore all’idea di occuparsi degli altri ed una certa distanziazione dello stesso Genet dall’interpretazione di Sartre ci arriva dalla testimonianza del regista Roger Blin, che ha curato la messa in scena di alcune opere di Genet:

Dopo averlo conosciuto Genet è diventato molto amico di Sartre. Si vedevano spesso. Non so se Genet fosse al corrente di quello che Sartre stava preparando su di lui; è probabile. Genet aveva molte cose da dire, e le ha dette nelle sue opere, ma le diceva anche durante la conversazione, sempre molto ricca e divertente. Più tardi Sartre ha sicuramente lavorato sui loro colloqui per scrivere Saint Genet Comédien et Martyr.
Genet mi aveva confessato un giorno che il testo di Sartre gli aveva fatto molto male e che aveva deciso di abbandonare i testi in prosa, i romanzi e l’aspetto autobiografico che si riscontrano nei suoi primi libri (in Nostra signora dei fiori o in Querelle de Brest, per esempio), in seguito al libro di Sartre. Mi ha detto che si era sentito completamente denudato. Poi Genet si è rivolto al teatro e ha scritto, uno dopo l’altro, Il Balcone, I Negri, I Paraventi. Il rapporto amichevole tra Sartre e Genet è durato ancora, ma in seguito si sono visti meno (BLIN 1985: 202).

Vigilanza Stretta, scritto nel 1947, è il testo teatrale che meglio chiarisce, nell’ottica dello scrittore e del drammaturgo, l’adesione di Jean Genet alla prigione e che fa parte di quei testi che hanno delineato, all’inizio della sua attività, la partecipazione totale ad una ben determinata scelta di vita. L’intreccio di Vigilanza Stretta è molto esile. L’azione si svolge in una cella tra tre detenuti: Lefranc, Maurice ed Occhi Verdi che ha ucciso una ragazza e che probabilmente sarà condannato a morte e giustiziato. Lefranc e Maurice lottano tra loro per ottenere i suoi favori, ma Occhi Verdi riconosce solo Palla di Neve, un negro, anche lui assassino. Per farsi riconoscere da Occhi Verdi, per diventare uguale a Palla di Neve, Lefranc sgozza Maurice, ma questo non gli serve a nulla. Dunque, un atto d’amore (criminale) frustrato.

Culto della bellezza fisica (vanità), forza e relative gerarchie, scaltrezza, bisogno di sentirsi personaggi (parlare di sé in terza persona), di esistere agli occhi di qualcuno, e quindi gelosia, emulazione e senso dell’onore sono i temi principali della vicenda. In questa opera il penitenziario, spazio della riprovazione, assurge a luogo sacro. Gli stessi personaggi del dramma sogneranno una eroicizzazione, una sacralità, alla ricerca di una regalità criminale, prigionieri dei modelli del Re, del Santo, del Cristo.

Nel celebrare il tradimento, il furto, la pederastia, l’omicidio, per edificare un nuovo ordine attorno a quelle virtù teologali nuove che incarnano le Figure della riprovazione, egli dà ad essi la forma dei modelli eroici o sacri dell’immaginario dominante, lasciandoli sognare una passione capovolta e una regalità nel male (BORIE 1990: 58).

Secondo Monique Borie in alcuni segni ricorrenti all’interno dell’opera sono riconoscibili tali modelli dominanti: i segni ai polsi e alle caviglie di Lefranc fanno pensare ad un santo, ad un martire.

MAURICE. […] Ieri, quando il cappellano era là, nessuno aveva intenzione di prenderti in giro, eppure maledizione, si vedeva abbastanza che non eri lontano dal crederti santo. E questo per colpa dei tuoi segni ai polsi […] (GENET 1987:12).

La sovranità alla quale si accede attraverso l’assassinio è quella di un Re, pilastro centrale, ‘prigione’ stessa:

OCCHI VERDI. […] Uditemi, io sono la fortezza! Le mie celle sono piene di omaccioni, di teppisti, di soldatacci e di saccheggiatori! Occhio! Non sono affatto sicuro che le mie guardie e i miei cani riescano a trattenerli se ve li lancerò contro! Ho corde, pugnali, scale! Occhio! Vigilano sentinelle, nei miei cammini di ronda. Sono la fortezza, e mi trovo solo al mondo […] Dispongo le esecuzioni. Impartisco gli ordini di scarcerazione […] (Ivi: 22).

Il corpo del prigioniero diviene simulacro non solo della ‘fortezza’, ma di un intero spazio-cosmo. E ancora, sembra che un potere divino, mitico e sotterraneo, domini Palla di Neve, che al cospetto di Occhi Verdi: «ha la fortuna di essere un selvaggio, il diritto di uccidere la gente e persino di mangiarsela» (Ivi: 16). L’avventura nel male si spinge fino al cannibalismo.

Se volessimo leggere nell’opera di Jean Genet una precisa, sotterranea operazione estetica, ma anche morale, è possibile citare, in conclusione, due significative affermazioni.

La prima è di Sartre relativamente ad una preghiera per un uso corretto di Genet: «[…]si tratta di far apparire il soggetto, il colpevole, la bestia mostruosa e miserabile che in ogni momento rischiamo di diventare: Genet ci tende lo specchio, in esso dobbiamo guardarci» (SARTRE 1972: 577).

La seconda è di Bernard Dort, il quale, in rapporto al problema sul pretendere o meno di risolvere per mezzo del teatro i problemi del mondo, riprende le parole dello stesso Genet: «Nessun problema affrontato dovrebbe essere risolto nel campo dell’immaginazione, specie quando la soluzione drammatica punta verso un ordine sociale compiuto. Sulla scena, invece, esploda il male, ci denudi, ci lasci quanto più è possibile sgomenti e privi di altro rifugio che in noi stessi». (DORT 1990: 15)

4. “Nella Colonia Penale” di Kafka e il fallimento della metamorfosi del corpo

Il corpo del condannato è anche al centro dell’attenzione di Kafka in Nella Colonia Penale, scritto nel 1914. La novella ci svela i meccanismi che regolano i metodi disciplinari quando questi si appellano ad un significante supremo: l’oppressione prende a sostegno una trascendenza (la Giustizia) e trova eco in corpi obbedienti. Tutti i personaggi del racconto sono in attesa che la crudeltà porti loro un’estasi redentrice. La storia è concentrata intorno alla descrizione di una macchina che produce una “Metamorfosi del corpo”. Questa macchina applica le pene a cui i colpevoli sono stati condannati da un ufficiale, che è anche giudice, tribunale e responsabile del funzionamento di quello stesso marchingegno. La pena consiste nel legare il condannato ad un letto, perché poi un erpice incida la norma violata sulla pelle del condannato. Nel racconto, ad un soldato che ha osato ribellarsi agli ordini del suo capitano il paragrafo assegnato è: “onora il tuo superiore”.

L’erpice traccia i segni secondo modelli disegnati dall’inventore della macchina (il vecchio comandante): disegni illeggibili, tanto le lettere sono arzigogolate e complicate da arabeschi.

«È opera sua anche l’intero ordinamento nella colonia, a tal punto concluso che il suo successore non avrebbe potuto mutarlo» (KAFKA 1986:129) dice l’ufficiale incaricato di eseguire la sentenza al viaggiatore straniero, invitato, suo malgrado, ad assistere all’esecuzione. «Il condannato non conosce la sua sentenza, comunicargliela sarebbe inutile. La sperimenterà sulla propria carne…Egli non sa neppure di essere stato condannato, né ha avuto nessuna possibilità di disperdersi» (Ivi: 133).

Ma allo stesso tempo: «mostrava una tale canina rassegnazione che si sarebbe potuto lasciarlo correre liberamente fino al momento della esecuzione, quando un fischio sarebbe bastato a farlo tornare» (Ivi: 127).

Senza dubbi, attraverso l’iscrizione del paragrafo si esprime una lingua esoterica ed ermetica, la sola in grado di veicolare il Senso. Prima di procedere all’esecuzione, l’ufficiale ostenta un’attività incessante che somiglia ad un rito erotico: tutto nella macchina deve essere accuratamente messo a posto, gli oscillatori, le punte dell’erpice, le molle, come se il minimo intoppo ne minacciasse il funzionamento. La macchina diventa un’esperienza spirituale, è l’incarnazione di una regola pratica, che realizza la mediazione fra il testo sacro (il pezzo di carta con la frase che deve essere incisa) ed il corpo grossolano (del condannato). La sua tecnica consiste nel mettere in opera una energia che “sveglia” il corpo del condannato per giungere alla fine alla rivelazione della presenza del Senso della Giustizia (GIL 1977: 1145).

Tutto diventa più evidente nell’accurata descrizione che l’ufficiale dà al viaggiatore, nel tentativo di convincerlo del livello di perfezione di quello strumento:

Ha capito come funziona? L’erpice comincia a scrivere; quando ha completato il primo tracciato della iscrizione lo strato di ovatta si arrotola e così fa lentamente girare il corpo su di un fianco per offrire nuovo spazio all’erpice. Intanto le piaghe prodotte dalla scrittura si premono sull’ovatta. Questa, grazie al trattamento speciale che ha ricevuto, arresta immediatamente l’emorragia, preparando così una ulteriore incisione della scrittura. Questi denti che qui vede sull’orlo dell’erpice vengono strappando l’ovatta dalle ferite, man mano che il corpo ruota; la gettano nella fossa e l’erpice riprende a lavorare. E così, per dodici ore, incide sempre più a fondo. Durante le prime sei ore il condannato vive pressappoco come prima; con la differenza che soffre. Dopo due ore, il tampone viene tolto, perché l’uomo non ha più la forza di gridare. In questa ciotola che è riscaldata elettricamente ed è posta accanto alla testa, viene versata una poltiglia di riso, calda; quando ne ha voglia, l’uomo può prenderne quanta riesce a leccarne con la lingua. A questa possibilità non rinuncia nessuno… È raro che l’uomo inghiotta l’ultima boccata; si limita a rigirarsela in bocca e la sputa nella fossa… Ma dopo la sesta ora, come diventa silenzioso! Anche nel più ottuso spunta l’intelligenza, comincia dagli occhi. Si diffonde di là una vista tale che uno potrebbe sentirsi tentato di mettersi sotto l’erpice, accanto al condannato. Non che succeda qualcosa di nuovo, l’uomo però comincia a decifrare la scritta, stringe le labbra come ascoltasse. Lo ha visto, con gli occhi non è facile decifrare la scrittura, ma il nostro uomo la decifra con le ferite. Certo è un lavoro lungo; sei ore ci vogliono per portarlo a compimento. Ma l’erpice allora lo passa da parte a parte e lo getta nella fossa dove va a sbattere tra l’ovatta e l’acqua sanguinosa. A questo punto, giustizia è fatta; e noi, io e il soldato, lo sotterriamo (KAFKA 1986: 139-140).

Qui la trasformazione dell’energia si attua mediante la sofferenza; e nel momento del “rivolgimento” in cui cominciare la beatitudine, il corpo intero diventa presente a sé stesso nella presenza rivelata del senso («decifra lo scritto con le sue ferite»).E la rivelazione non è solo individuale. Il modo in cui si rivela la presenza (Kafka è indubbiamente influenzato dalla Halakhah ebraica) è, in definitiva, collettivo: quel corpo decifra il senso della legge solo perché è “la scrittura evidente della sofferenza”; quello che il condannato rappresenta per sé è spiegato unicamente dal discorso dell’ufficiale e di tutto il pubblico:

Fin dalla vigilia del supplizio tutta la valle era piena di gente; venivano tutti, solo per poter vedere. Di prima mattina arriva il comandante, con le sue signore; le fanfare svegliano tutto l’accampamento; i membri della società locale -nessun funzionario importante avrebbe potuto mancare- prendevano posto intorno alla macchina. Sotto centinaia di sguardi -tutti gli spettatori, fin lassù sulle alture si alzavano sulle punte dei piedi- era il comandante in persona a mettere il condannato sotto l’erpice. Ed ecco che cominciava l’esecuzione (Ivi: 144-145).

L’espressione del condannato può essere trasmessa, perché il fatto di essere incomunicabile costituisce il legame principale della nuova comunità di fedeli. Si è quindi a conoscenza di una Scienza esoterica2 consapevoli di non poterla esprimere (non saper dire o che cosa dire) e, in quel silenzio, far parlare il corpo è il modo di comunicare fra tutti gli astanti che si affollano intorno alla macchina: «C’erano di quelli che non guardavano neanche, si stendevano sulla sabbia ad occhi chiusi, tutti capivano: ora si sta facendo giustizia. Nel silenzio, si udiva soltanto il gemito del condannato smorzato dal tampone» (Ivi:145).

Nell’espressione di gioia del torturato, l’interno del dolore viene riassorbito, mutato in trasparenza per tutti coloro che lo vedono. Gli spettatori in quel rapimento leggono la propria salvezza, come al tempo delle esecuzioni pubbliche, quando la pelle beneficiava di una specie di processo salutare per procura, o di aggiornamento della propria morte: il senso tenebroso della morte, scandito dal rumore di una ghigliottina o dal tonfo del corpo del condannato di Kafka che cade nella fossa, assorbe nella sua pura sonorità a-significante tutto il senso della nostra morte così domata, ridotta.

La metamorfosi si compie: il corpo grossolano del condannato muore, ma raggiunge l’immortalità perché si incide sulla superficie di iscrizione della Giustizia Eterna, che la sua morte fa vivere perennemente. Lo scopo della macchina è di produrre i segni di quel rapimento «che trasfigurava quel corpo martoriato», quei sospiri che agiscono come una morte collettiva. Nello spettatore il segno impresso nel corpo di un altro diventa il marchio della gioia. Il nuovo corpo collettivo, attraverso un gioco di rimandi e di specchi, nel movimento, rende un corpo singolo il relè di un altro corpo nel ripetersi delle esecuzioni, delle feste, del cerimoniale pubblico.

Questo spiega perché, quando la catena collettiva rischia di rompersi definitivamente -perché il nuovo comandante vuole proibire l’uso della macchina nella colonia penale (lo stesso viaggiatore sembra essere stato invitato ad assistere alla esecuzione per poter esprimere un senso di disapprovazione)- l’ufficiale, l’ultimo a difendere ancora quei metodi, decide di affrettarne la rottura, sottomettendosi alla prova della trasfigurazione. La macchina va a pezzi: «L’erpice non scriveva, trafiggeva soltanto e il letto non faceva ruotare il corpo: lo sollevava soltanto, oscillando contro gli aghi… Quella non era più una tortura, quale l’ufficiale aveva voluto infliggersi, era un vero e proprio assassinio» (Ivi:159,160).

Questa disfatta era dovuta al fatto che non c’era più nessuno per assicurare il relè con l’ufficiale: l’esploratore, l’unico che avrebbe potuto farlo, non era in grado di aiutarlo.

Nella colonia penale colloca l’azione in un preciso stadio della formazione del potere: fallimento della metamorfosi del corpo, fine di un’epoca, passaggio ad un nuovo regime di segni.

5. Dal supplizio all’addestramento del corpo con Foucault

Una incredibile coincidenza avvicina il lavoro di Kafka allo studio storico-filosofico Sorvegliare e punire. Nascita della prigione condotto nel 1975 da Michel Foucault sulla realtà sociale francese nell’epoca moderna. Foucault, studioso dei meccanismi del potere e della formazione del sapere (la sua ricerca è già ben delineata nell’opera Archeologia del sapere del 1969), in Sorvegliare e punire analizza i metodi punitivi non come semplici conseguenze di regole di diritto, ma come tecniche per la formazione del potere. L’analogia con lo scritto di Kafka si colloca proprio nella individuazione di un passaggio da uno stadio ad un altro della formazione del potere: dai supplizi, perpetrati in pubblico, sotto il regime monarchico, all’istituzione dei penitenziari nel secolo XVIII. Simultaneamente a tale passaggio, il diritto penale e le scienze umane, nel loro incrociarsi, attuano un processo di formazione epistemologico-giuridico, una nuova tecnologia del potere come principio di umanizzazione della pena. L’ingresso dell’anima (alla quale sembra che la punizione tenda a rivolgersi) sulla scena della giustizia penale, e con esso, l’inserzione nella pratica giudiziaria di tutto un sapere “scientifico”, è l’effetto di una trasformazione del modo in cui il corpo stesso è investito dei rapporti di potere.

Scompare il corpo suppliziato, squarciato, amputato simbolicamente, marchiato sul viso o sulla spalla, e con quello scompare lo ‘spettacolo’ della punizione… Il boia rassomiglia sempre di più ad un criminale ed i giudici ad assassini… La certezza di essere puniti e non più l’obbrobriosa rappresentazione, deve tener lontani dai delitti… È la condanna a marchiare il delinquente…; l’esecuzione della pena tende a divenire un settore autonomo. Insieme allo spettacolo che cessa è anche la presa sul corpo ad allentarsi. Il castigo passa da un’arte di sensazioni insopportabili ad una economia dei diritti sospesi… Se è ancora necessario, per la giustizia, manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano, con decenza, secondo regole austere, e mirando ad un obiettivo ben più ‘elevato’… Nasce un’utopia del pudore giudiziario, una penalità “incorporea” che deve imporre pene libere dal dolore (FOUCAULT 1976: 10-14).

Nonostante non si tratti di un passaggio così rapido (è avvenuto nel corso di quasi due secoli), è pur vero che nei meccanismi moderni della giustizia penale permane uno sfondo “suppliziante”: la prigione, come pura privazione della libertà, non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizione che concerne proprio il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione sessuale, cella di isolamento. Il cambiamento comunque è sostanziale: alla espiazione che strazia il corpo deve succedere un contagio che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità. La pena stabilisce la sua presa sull'“anima”.

Da quando, centocinquanta o duecento anni fa, l’Europa ha dato vita ai nuovi sistemi penali, i giudici, poco a poco, si sono messi a giudicare qualcosa di diverso dai reati: l’anima dei criminali …istinto, inconscio, eredità, ambiente di chi ha commesso il reato, alimentano le ragioni di tutto un esercito di tecnici che ha dato il cambio al boia: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori (Ivi: 22).

Una cosa singolare nella giustizia penale moderna è che essa si carica di tanti elementi extragiuridici. Per mezzo del sapere, la giustizia criminale è votata oggi ad una riqualificazione. L’emissione di un verdetto, l’emanazione di una punizione, costituiscono una via per dire che si vuole una guarigione.

All' “homo economicus”, ed al suo principio del lavoro, il modello inglese di penitenziario (Hanaway 1775) aggiunge come condizione essenziale della correzione l’isolamento, la trasformazione dell’anima e della condotta. Infine il modello di Filadelfia (Walnut Street 1790) divenne il più celebre, perché appariva legato alle innovazioni politiche del sistema americano. Qui la vita è inquadrata secondo un impiego del tempo assolutamente rigoroso, sotto una sorveglianza ininterrotta. Al sorvegliante, dunque, viene assegnato un compito fondamentale: attraverso il controllo si deve tendere ad operare una trasformazione del comportamento. La prigione diventa una sorta di osservatorio permanente.

Attraverso il super-obiettivo della trasformazione del colpevole, nasce una tecnica “correttiva”. Gli strumenti utilizzati sono delle forme di coercizione, degli schemi di costrizione applicati e ripetuti. Attraverso degli ‘esercizi’ si cerca di ricostruire, non tanto il soggetto di diritto, quanto il soggetto obbediente, piegato alla forma di qualunque potere. Una autorità si esercita continuamente intorno a lui: egli deve lasciare che essa funzioni automaticamente in lui. Si attua una presa in carico meticolosa del corpo e del tempo del colpevole, un inquadramento dei suoi gesti, delle sue condotte.

Egli riesce ad individuare una nuova concezione del potere, ad abbandonare un certo numero di postulati che hanno segnato la posizione tradizionale della sinistra. Il potere, più che una proprietà di una classe che l’aveva conquistato, è una strategia, i suoi effetti sono attribuibili a disposizioni, manovre tattiche, tecniche, funzionamenti; lo si esercita più che possederlo: è un effetto d’insieme delle sue posizioni strategiche.

Una delle idee essenziali di Sorvegliare e punire è che le società moderne possono essere definite come società ‘disciplinari’: la disciplina non può identificarsi né con un’istituzione, né con un apparato, perché è un tipo di potere, una tecnologia che attraversa ogni sorta di istituzione, per far sì che si esercitino in modo completamente nuovo (DELEUZE 1987: 34)3.

La micro-analisi funzionale di Foucault si sostituisce a quanto vi è ancora di piramidale nella immagine marxista. Le tecniche disciplinari formano segmenti che si articolano gli uni sugli altri e nei quali gli individui di una massa passano o rimangono corpi e anime (famiglia, scuola, caserma, fabbrica e, all’occorrenza, prigione).

Il Panoptismo, immagine chiave nell’opera di Foucault, mette in evidenza la forma del visibile nella sua differenza con la forma dell’enunciabile. Definendo il Panoptismo, a volte, Foucault lo determina concretamente come il concatenamento ottico o luminoso che caratterizza la prigione, a volte, astrattamente, come una macchina che non solo si applica alla materia visibile in generale, ma attraversa anche, in generale, tutte le funzioni enunciabili. Quindi la forma astratta del Panoptismo, non è più «vedere senza essere visti», ma «imporre una condotta qualunque ad una molteplicità umana qualunque» (DELEUZE 1987: 42).

Una nuova dimensione informale, alla quale Foucault dà il nome di “diagramma”, come se fosse una cartografia coestensiva a tutto il campo sociale. Egli si richiama alla nozione di diagramma in rapporto alle nostre moderne società di disciplina, in cui il potere opera un “quadrillage” dell’intero campo: se c’è modello, questo è il modello della “peste”, che fa la quadrettatura della città malata e si estende sino al più piccolo dettaglio. Altro diagramma è il modello della “lebbra”, dove una forza si esercita su altre forze, per dividere delle masse più che per ritagliare il dettaglio. La forma è quella generale della grande carcerazione. Gilles Deleuze, criticando chi ha voluto vedere in Foucault il filosofo dell’internamento e ripercorrendo il suo pensiero afferma che:

La prigione nelle società sovrane esiste solo ai margini degli altri concatenamenti di punizione, poiché riesce ad effettuare il diagramma della sovranità solo ad un basso grado […] in uno stadio successivo si diffonde, invece, in tutte le direzioni e non assume su di sé solo gli obiettivi del diritto penale: impregna gli altri concatenamenti, poiché realizza ad un grado elevato le esigenze del diagramma di disciplina[…] Ma non è detto che le società disciplinari, nel caso in cui riescano a trovare nella loro evoluzione altri mezzi per realizzare i loro obiettivi penali e per effettuare il diagramma in tutta la sua estensione, permettano che la prigione conservi questo coefficiente elevato: di qui il motivo della riforma penitenziaria che invaderà sempre più il campo sociale e che, al limite, è in grado di destituire la prigione dalla sua esemplarità (Ivi: 49).

6. Il superamento della prigione verso le nuove “Società di controllo” con Deleuze

Gilles Deleuze individua con chiarezza la fine della necessità della prigione e di tutti i regimi di tipo segregazionale. Foucault ha collocato nei secoli XVIII e XIX le “Società disciplinari”, che giungono al loro apogeo agli inizi del XX secolo con la costituzione dei grandi luoghi di segregazione. Concentrare, suddividere nello spazio, ordinare nel tempo, formare nello spazio-tempo una forza produttiva i cui effetti siano superiori alla somma delle forze elementari che la compongono: questo è il progetto ideale di ambiente di segregazione. Secondo Deleuze, lo stesso Foucault conosceva altrettanto bene la durata di tale modello. Sarebbe caduto in crisi «a vantaggio di nuove forze, dapprima lentamente inseritesi nel processo, e poi, dopo la seconda guerra mondiale, divenute precipitosamente attive: le società disciplinari, in sostanza, erano ciò che noi non eravamo più, ciò che già cessavamo di essere» (DELEUZE 1990: 72). Tutti gli ambienti di segregazione sono entrati in crisi, in una fase di turbamento generalizzato. «I ministri competenti continuano ad annunciare riforme che si suppongono necessarie. Riformare la scuola, l’industria, l’ospedale, le forze armate, il carcere: ognuno sa, tuttavia, che queste istituzioni avranno finito di esistere a più o meno lunga scadenza» (Ibidem).

“Controllo” è il termine che Deleuze mutua da William Burroghs per designare il nuovo mostro. Foucault, dal canto suo aveva già riconosciuto che ad esso è ormai legato il nostro destino.Sarà ancora Kafka ad ispirare Deleuze, questa volta con Il processo (1925), dove vengono messe in luce le dimensioni della colpa “indefinibile” e della pena “differibile all’infinito”. Kafka, secondo Deleuze si collocava alla giunzione fra i due tipi di società, descrivendo in quel testo le forme più temibili che può assumere la Giustizia. L’assoluzione apparente da parte della società disciplinare (fra due momenti di segregazione), da un lato, e il dilazionamento all’infinito da parte della società di controllo, dall’altro, costituiscono due forme assai diverse di prassi giuridica. Già molti critici che si sono dedicati alla sua interpretazione (tra i quali Benjamin e Adorno), hanno giudicato l’opera di Kafka come un ‘caso di profetismo’ che dischiude la chiave metafisica della realtà moderna. Le “Società disciplinari”, gli ambienti chiusi sono dei modelli, degli stampi distinti. I “Controlli”, la cui natura è invece quella delle modulazioni, sono quasi dei crogiuoli autodeformantisi di continuo nel tempo, «a mo’ di setaccio a maglie che qua e là si modificano».

Secondo Deleuze, con avanzamento alternato, siamo all’inizio di qualcosa di nuovo «con una trasformazione che investe anche il settore carcerario attraverso ricerca di pene “sostitutive”, almeno per la piccola delinquenza, o l'uso di collari elettronici tali da imporre al condannato di restare in casa in certe ore» (DELEUZE 1990: 72).

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Vito Minoia con gli attori della Compagnia Lo Spacco - Casa Circondariale di Pesaro 2010. Ph. Franco Deriu

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Compagnia Lo Spacco - Casa Circondariale di Pesaro 2010. Ph. Franco Deriu

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Compagnia Lo Spacco - Casa Circondariale di Pesaro 2010. Ph. Franco Deriu

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Vito Minoia con detenuti e preadolescenti in dialogo - Casa Circondariale di Pesaro 2010. Ph. Franco Deriu


Note

↑ 1 La modalità del gruppo misto composto da uomini e donne costituisce una particolarità di questa esperienza a partire dal 2006 (4 anni dopo l’avvio della sperimentazione) ed ininterrottamente praticata fino ad oggi.

↑ 2 Come nei saperi prescientifici, dove il corpo diventa, di volta in volta, il mezzo, il fuoco centrale e l’oggetto di un sapere il cui scopo è di ristabilire i contatti con le energie dell’universo (Cfr. GIL 1977: 1096-1162).

↑ 3 In questo saggio Deleuze ripercorre tutte le opere di Foucault, tracciando un profilo delle sue idee subito dopo la sua scomparsa.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482