Al di là del romanzo: quando la letteratura francese contemporanea varca le soglie della prigione
Abstract
Italiano | IngleseAttraverso le riflessioni prodotte da un corpus di opere che sfugge alle categorie romanzesche, intendiamo interrogare il contributo della letteratura francese contemporanea alla rappresentazione della prigione. Un universo così ‘a margine’ rimane ‘al margine’ della letteratura o partecipa a pieno titolo alle sue forme in un momento in cui esse stesse sfuggono a un codice normativo e si ibridano tra loro? Prison di François Bon, Le bruit des trousseaux di Philippe Claudel, fragmentation d’un lieu commun di Jane Sautière, La grande maison di Michèle Sales, Prof chez les taulards di Aude ci invitano a riflettere sul potenziale di accoglienza da parte della letteratura di un universo così specifico e su una nuova forma di engagement letterario.
Dagli scritti dei detenuti alle lettere dalla prigione, dai racconti autobiografici ai romanzi, la scrittura carceraria non può non intrecciarsi con le tradizioni letterarie che si sono succedute e con la realtà storico-sociale che le ha prodotte. Lungi dal voler proporre un approccio socio-poetico della prigione o disegnare una cartografia della presenza dello spazio prigione nello spazio letterario contemporaneo francese, intendiamo interrogare la letteratura sul suo potenziale di accoglienza di un universo così specifico, attraverso le riflessioni suggerite da un corpus di opere che sfugge alle categorie romanzesche.
Quale, attraverso questi testi, il contributo della letteratura francese contemporanea alla rappresentazione del carcere? Un universo così ‘a margine’ rimane al margine della letteratura o partecipa a pieno titolo alle sue forme in un momento in cui esse stesse sfuggono a un codice normativo e si ibridano tra loro?
Notiamo anzitutto nell’immaginario letterario della contemporaneità la presenza invasiva dell’universo carcerario come metafora, una metafora da cui già si evince il parallelismo tra la scrittura carceraria e la tradizione letteraria. Siamo infatti ben lontani dalla versione romantica che la valorizzava, accostando, come dimostra Brombert in La prison romantique (BROMBERT 1975), la cellula del prigioniero a quella del monaco, poetizzando lo spazio della prigione e la «beauté tragique de la solitude» (BROMBERT 1975: 15), la dimensione atemporale, le possibilità di interiorizzazione che la reclusione permetteva e il conseguente sogno d’evasione. In epoca contemporanea, il potenziale lirico e spirituale della rappresentazione romantica della prigione si risolve in una visione altamente disincantata, dai frequenti tratti distopici.
Al di là dei numerosi romanzi ambientati in penitenziari, l’isotopia carceraria1 che attraversa il contemporaneo si nutre, infatti, di impedimenti, forzature, alienazione, oppressioni e punizioni all’interno di ambienti come la scuola, l’amministrazione, e, in particolare, il mondo del lavoro, specie quello della fabbrica, dove vige lo sguardo invisibile del controllo come nel modello panottico.2
Valenza metaforica e ripresa topografica dello spazio della prigione permeano, inoltre, una specifica diramazione letteraria, quella della letteratura di banlieue. Le torri di cemento imprigionano l’individuo che le abita in un’identità stigmatizzata che è a sua volta uno spazio di reclusione irreversibile e di esclusione sociale, e la prigione, quella vera, appare un destino ineluttabile.
L’identità d’appartenenza rappresenta, non solo nel caso della letteratura di banlieue, una vera e propria prigionia come infatti accade anche per gli autori «trasfughi» di classe (Ernaux, Eribon, Louis) che mettono in scena la loro ‘fuga’ dalla classe sociale di appartenenza. La scrittura, in tal caso, diventa una vera e propria forma di evasione, la stessa che è concessa a quei detenuti che oggigiorno consegnano le proprie memorie alla pagina scritta all’interno di collane editoriali dalle intenzioni «d’ordre humaniste» (PARAVY 2003: 153). Si tratta di un fenomeno piuttosto diffuso ma anche paradossale, come afferma Florence Paravy, in cui l’autore si trova in una situazione schizoide «où il est à la fois condamné à l’enfermement et à la négation de son individualité, et porté sur le devant de la scène où éclate au contraire son absolue singularité » (PARAVY 2003: 154).
Ma cosa succede quando sono gli stessi letterati a varcare le soglie del penitenziario? In che modo questi contribuiscono in maniera po-etica a modellare una nuova forma di engagement letterario e al tempo stesso a rivelare alcune tendenze letterarie della contemporaneità?
Les œuvres non fictionnelles en prose: una letterarietà condizionata
Prison di François Bon, Le bruit des trousseaux di Philippe Claudel, fragmentation d’un lieu commun di Jane Sautière, La grande maison di Michèle Sales, Prof chez les taulards di Aude Siméon3 costituiscono un corpus specifico di testi che, pur non rinunciando del tutto a una certa dose di finzione, parlano del carcere in un modo altro rispetto alla pura finzione. Queste «œuvre non fictionnelles en prose», come le definirebbe Genette (GENETTE 2004), vanno dal 1997 al 2012 ma in realtà sono ancora più vicine a noi se si considera che François Bon e Aude Siméon promuovono, rispettivamente nel 2014 e nel 2017, une versione augmentée dei propri volumi ad attestare la contemporaneità di un discorso mai concluso su un’esperienza di vita e di lavoro.4
Si tratta infatti di esperienze dirette e del loro racconto: tutti gli autori dei testi hanno lavorato direttamente in carcere: come educatrice, Sautière; come professori, Claudel, Sales et Siméon; come animatore di atelier di scrittura, Bon; come bibliotecaria, Sales. Si noti ancora che, tranne Siméon e Sales,5 gli altri sono autori consacrati nel panorama letterario francese contemporaneo, in particolare Bon e Claudel, ma anche Sautière, conosciuta in Italia per la sua opera Guardaroba (2018).6
Tutte queste opere appartengono a quelle «Littératures de terrain» con cui Dominique Viart (VIART 2018) designa le nuove, o rinnovate, pratiche letterarie che fanno della letteratura uno strumento di sperimentazione della realtà. Convocando, senza alcuna pretesa scientifica, le scienze sociali e contrastando il paradigma realista del XIX secolo, esse vedono lo scrittore implicato direttamente sul campo, attraverso inchieste, atelier di scrittura o racconti dell’esperienza diretta di un luogo e di una comunità sociale.
Si noti ancora come solo uno dei libri del nostro corpus riporta direttamente nel titolo l’esperienza di cui è il resoconto. A quello, più diretto e neutro, del récit di Bon e, indiretto, del testo di Sales, che rimanda solo per i più esperti all’ala della prigione abitata dagli uomini,7 si oppone il titolo più denotativo dell’opera di Claudel, Le bruit des trousseaux, mentre più connotativo appare il titolo scelto da Siméon là dove l’introduzione del termine taulards, proveniente dal linguaggio popolare per dire detenuto, stabilisce sin dall’inizio un parallelismo tra identità e marginalizzazione sociale, e ribadisce un’antinomia tra due tipologie di diversa area d’appartenenza: da un lato la professione, dall’altra un essere in situazione; da un lato il detentore del sapere, dall’altro non l’alunno ma il carcerato. Lo stesso Claudel, che ha insegnato letteratura in una prigione tre volte la settimana per undici anni, evoca tale contrapposizione:
les détenus m’appelaient «Prof». Venant d’eux, cela ne m’a jamais irrité. Je détestais ce nom pourtant. Je le détestais. Mais la prison incite à gommer les hommes et à ne voir en eux que des fonctions : «prof», «surveillant», «chef», «détenus». Il n’y avait qu’une évidence et un fossé. Nous n’étions pas ensemble. (BT: 107)
Se, come afferma ancora Claudel, la prigione non annulla le differenze sociali tra i detenuti e al contempo ha il merito di mettere «en relation des êtres qui au-dehors ne se seraient jamais regardés, jamais parlé. Raymond P., notaire, et Abfdel, petit beur de banlieue, qui se tutoyaient et discutaient en riant» (BT: 51), essa conserva il divario tra chi arriva dall’esterno, l’operatore culturale, e chi vi è recluso, il detenuto.
Tale distanza sociale si identifica, per l’educatore, in una deliberata distanza relazionale che, almeno a livello progettuale, sembra essere necessaria all’ascolto dell’altro da sé:
26 - La distance. Il faut qu’on garde la distance, laisser place à ce qu’on va entendre. Parce que soi et l’autre, ce n’est pas à confondre. Parce qu’il faudra bien la tenir, la distance, durer, continuer malgré tout. On garde un visage neutre, on n’exprime pas nos émotions, on se retranche (dans les tranchées comme les soldats d’une vieille guerre). (FLC: 37)
Michels Sales la risolve stilisticamente usando il soggetto in terza persona per parlare di sé e dei detenuti, che tuttavia identifica come ‘lettori’, et Sautière si rivolge direttamente ai detenuti di cui parla dando loro de lei (vous in francese8) e invece interpella in modo più confidenziale gli addetti al lavoro rivolgendosi loro con il tu. Tale distanza programmatica è indicativa della riflessione stessa che questi autori fanno sul proprio lavoro e sul proprio ruolo, rinunciando alla fusione, ma non all’attitudine empatica verso l’altro, proponendo una sorta di «objectivation participante», simile a quella di cui parla Bourdieu (BOURDIEU 2003).9 Tale oggettivazione tra prossimità e distanza, si configura come un incontro intersoggettivo e, come tale, presuppone, in una sorta di autoanalisi condotta attraverso l’ascolto dell’altro e lo sguardo sull’altro, un investimento del, e sul, soggetto che guarda.
La ripresa del cliché. L’estetica del frammento
I temi e motivi che attraversano i testi sono per molti versi simili: dal rumore, appunto, delle chiavi nella serratura al pasto di cattivo gusto piuttosto che all’odore nauseabondo della cella e all’evocazione del paesaggio sonoro, «la géographie des bruits» (GM: 42) di cui parla Michèle Sales per rimanere nell’ambito sensoriale,10 alla reclusione ed esclusione nelle sue varie declinazioni. I testi tratteggiano le storie personali dentro e talvolta fuori il carcere (Sautière), lo scorrere del tempo ritualizzato e scandito dalle azioni quotidiane come i colloqui con i famigliari, l’attesa in tutte le sue forme, il rapporto tra i carcerati e gli addetti ai lavori, i crimini e le colpe. Non solo sfondo e cadre della narrazione, il carcere diventa vero e proprio «lieu agissant» (PARAVY 2004: 9) che trasforma il rituale giornaliero. Un’altra costante è la presenza topografica del penitenziario, quasi che l’autore voglia portare con sé il lettore e insieme a lui varcare la soglia della prigione. Non dimentichiamo che il carcere rimane un’eterotopia accessibile a pochi e presuppone «un système d'ouverture et de fermeture qui, à la fois, [l’] isole et [le] rend [pénétrable]. En général, on n'accède pas à un emplacement hétérotopique comme dans un moulin». (FOUCAULT 200411). Gli autori cercano, quindi, di farci visualizzare nel dettaglio lo spazio di questa eterotopia di deviazione, come la definisce sempre Foucault. François Bon, ad esempio, utilizza indicatori spaziali precisi: «On longe le mur d’enceinte de ce qu’ils disent la grande maison. Ici, à gauche, il y a (…), et dedans (…)» (PR: 86), «Juste en avant de la porte à rideau de fer» (PR: 89). «Le mur à droite» (PR: 89), «dans le milieu des grillages» «juste en face», (PR: 90), «à côté» (PR: 90), «Au fond à gauche» (PR: 92), «au débouché du couloir» (PR: 93), «De l’autre côté» (PR: 93), «en haut de l’escalier» (PR: 93), «Le couloir de droite» (PR: 93) per raccontare i suoi movimenti nel percorso labirintico del centro dei giovani detenuti di Gradignan, vicino Bordeaux, e si avvale di procedimenti cinematografici dichiarati per zumare sui luoghi attraversati. Come nel caso del quinto capitolo di Prison in cui compare più volte il termine «Caméra» seguito dalle diverse descrizioni, veri e propri fermi immagine sui luoghi da attraversare senza perdersi perché, come ricorda Sautière, «Trop de symétrie égare» (FLC: 51). A prevalere è l’immagine di un labirinto, un dedalo che per Siméon corrisponde «à l’image du systhème judiciaire dans lequel le coupable se débattra des années avant de recouvrer sa liberté» (PT: pos. 97 di 2466) e che per Sales corrisponde al disorientamento della comprensione.12
Come per i contenuti, una certa omogeneità di fondo caratterizza la struttura delle opere citate. Tutte narrazioni senza intreccio che ostentano la propria frammentazione, mostrando l’impossibilità di dare coerenza al discorso. Tra i testi, quello di Francois Bon risulta indubbiamente il più complesso con la sua struttura di inclusione e emboîtement che realizza nello spazio del testo la stessa complessa topografia degli spazi di detenzione popolati da «bâtiments intérieurs qui s’emboîtent les uns dans les autres» (GM: 133) e da «routes [qui] s’enchevêtrent en un paysage unique» (GM: 151). I sei capitoli che strutturano Prison sono indipendenti l’uno dall’altro senza che nessuna prefazione dia istruzioni di lettura. L’autore non si limita al racconto di ciò che ha visto e vissuto, ma restituisce l’esperienza dell’atelier di scrittura attraverso i testi scritti dagli stessi detenuti a partire da un tema o da un verso d’autore che propone ai suoi allievi, generando così una sorta di dialogo a più voci, un’enunciazione polifonica che si realizza per mezzo di un montaggio tra la parola dei giovani reclusi, la loro scrittura, la ritrascrizione negli appunti dell’autore narratore e una versione più rielaborata degli stessi. La stessa istanza narrativa si muove dal ruolo a margine del racconto, quale quello del testimone, a quello più centrale, in una costante «diffraction des énoncés» (ADLER 2012) che si manifesta in una sintassi narrativa spezzettata, in una frase complessa, una paratassi ricca di incisi. Venendo spesso a mancare i marcatori dell’enunciazione, la lettura si complica. Non si tratta infatti di offrire il resoconto di un’esperienza totalizzante alla maniera del romanzo realista, quanto di mettere in scena i movimenti stessi di questa esperienza.
Se nelle opere degli altri autori la scrittura risulta molto più semplice e leggibile di quella di Bon, la frammentazione del discorso rimane un tratto costante negli scritti del nostro corpus. Le modalità sono diverse: dai capitoli più o meno lunghi e privi di titolo di Michèle Sales, sketch di vita senza continuità, all’esperienza di Siméon, che propone tra l’altro una riflessione sul mestiere di insegnante in carcere e che accompagna i capitoli con citazioni erudite in esergo - l'autore più citato è Dostoevskij -, alla frammentazione vera e propria dei cento paragrafi numerati che strutturano il testo di Sautière, o ai microracconti di Claudel separati da un semplice spazio bianco. Quell’estetica del frammento che caratterizza il contemporaneo di cui riflette la perdita di certezze, quel «genre de l’absence de genre» (SUSINI-ANASTOPOULOS 1997: 50) si presta a raccontare la pluralità delle storie e delle situazioni, e al tempo stesso a dissociarle da un prima e dopo che rimangono aperti e sfuggono alla fissazione di una situazione e di un senso. Ogni paragrafo diventa una sorta di cella che racconta solo uno squarcio di vita, ma l’insieme rende conto della molteplicità e della circolazione delle storie. La successione dei microracconti si offre già a prima vista come il dispositivo visuale che riproduce nei testi la segmentazione cellulare caratteristica dell’architettura penitenziaria. Al contempo, lo spazio tra un frammento e l’altro può costituire, come vorrebbe Sautière, un momento di silenzio atto ad ospitare il pensiero del lettore.
Dall’emboîtement di Bon ai frammenti paragonabili a tante celle distinte di Sautière, la struttura del testo si fa metafora della prigionia, della sua realtà spaziale e umana.
La fragmentation del cliché. L’etica del frammento
Il titolo di Sautière è a questo proposito emblematico. Non si tratta solo di anticipare nell’elemento paratestuale la struttura morcelée del testo; la fragmentation (nel senso di frantumazione) è al cuore dell’intenzione e non solo del discorso.
Cosa vuol dire fragmenter un luogo comune? Se intendiamo con luogo comune il cliché vuol dire mandarlo in mille pezzi, scardinare la visione stereotipata della prigione come luogo di criminali e punizione dovuta, per far emergere l’identità spezzata, appunto, di coloro che abitano un luogo comune, quello su cui non ci si interroga, ma che dovrebbe essere luogo della comunità. Proprio come per Levinas il volto dell’altro disfa le forme del già noto e le categorie della mente, per entrare in carcere, suggerisce Michèle Sales, occorre liberarsi non solo di oggetti ma anche «Se départir (…) des savoirs, des certitudes, des références» (GM: 123).
L’estetica del frammento si fa, quindi, etica dell’éclatement del modo comune di pensare. Spogliato delle proprie certezze, il primo a sperimentare la frantumazione del luogo comune è, nei testi scelti, lo stesso autore/narratore che, contravvenendo spesso a quell’obbligo di neutralità che si è imposto, misura, e ci fa misurare, tramite la scelta di un aggettivo, e altri procedimenti stilistici, l’empatia che prova per l’altro. E raccontare dell’altro significa raccontare di sé, quasi che il carcere fosse una sorta di apprendistato che sicuramente cambierà l’individuo che lo frequenta dall’esterno, portandolo a rivalutare e godere pienamente della propria libertà - «J’ai compris à ce moment-là que j’avais vécu jusqu’alors dans la jouissance d’une liberté dont j’ignorais l’étendue et les plus communes applications, voire l’exacte et quotidienne dimension» (BT: 11-12) -, oppure facendolo sentire in pace con la propria coscienza – «Moi-même, que suis-je venu faire en prison pendant si longtemps, sinon acheter à crédit ma part de sommeil du juste?» (BT: 56).
«Mon temps terminé, je sortais de la prison. Je ne sortais pas de prison. Jamais je n’ai senti aussi intensément dans la langue l’immense perspective ouverte ou fermée selon la présence ou l’absence d’un simple article défini» (BT: 34), afferma Claudel evidenziando l’impatto che una simile esperienza ha sull’individuo, una sorta di apprendistato che per Bon passa proprio attraverso il linguaggio.
Il testo di Bon si apre con l’autore che all’uscita del carcere apprende dalla guardia che «Brulin a été planté»: "Et vous avez su que Brulin a été planté? "(…) "C’était dans le journal ce matin. Dans un squat, un nommé Tognasse, que nous connaissons aussi"» (P: 7). Non si tratta qui dello choc della notizia, o non solo di essa; si tratta piuttosto dell’apprendistato di un linguaggio che l’impaginazione del testo della prima pagina mette in scena ponendo l’accento su due vocaboli che di per sé rimandano a una marginalità sociale. «Planté», «squat», appartengono a un lessico altro che rivela la nostra incompetenza e la fragilità dei nostri saperi. Non a caso, la prime righe del testo recitano: «Car nous ne savons rien de clair, nous errons» (P: 7).13
Entrare in prigione significa entrare in un mondo altro, condividerne codici e linguaggio, scoprire i propri limiti e scoprire qualcosa di sé attraverso l’altro: la visita alla prigione implica l’erranza del soggetto detentore del sapere. Questa letteratura sul campo che si vuole quindi decentrata rispetto al luogo comune del letterario, ricentra il soggetto nel corpo del testo e nel corpo dell’altro. Interessante notare a questo proposito la definizione che Sautière dà del proprio lavoro: «Peut-être suis-je votre greffe, là où s’inscrit la procédure ; là aussi où l’on sauve la peau ?» (FLC: 9) (si) chiede rivolgendosi ai detenuti. Ora il termine greffe indica nel linguaggio giuridico il cancelliere ma è anche il termine atto a indicare il trapianto, l’innesto, a conferma del legame vitale che lega l’io e l’altro. Allora, la terza persona usata da Sale, il tu e il lei usato da Sautière si fondono in un Noi mai dichiaratamente assunto e sempre latente. Siamo quindi in presenza di un enunciatore incarnato nel discorso e nell’esperienza, o ancora di un “con-dividuo” secondo la definizione dell’antropologo Francesco Remotti (REMOTTI 2019).
Opere sui generis
I racconti sfiorano così il genere autobiografico, per lo meno quell’autobiografia che da tempo ha rinunciato al patto teorizzato da Lejeune a favore di scene di vita senza soluzione di continuità, segmenti di esperienze nei frammenti di testo. Ne è un esempio il frequente uso del pronome personale di prima persona nel testo di Claudel o il quarto capitolo di Prison dedicato a un detenuto in particolare, Ciao, che ha partecipato a un atelier di scrittura. L’intero capitolo è costituito, come annuncia il titolo, dalla disquisizione sull’Idée de la route, dai sentimenti espressi dal ragazzo che si sente realmente vivo solo percorrendo la strada e dal ricordo che questi riattivano in Bon. L’autore evoca, infatti, un giorno della propria vita in cui, mentre si recava al carcere, aveva raccolto un autostoppista che gli ricorda proprio il giovane detenuto.
Al tempo stesso, il racconto autobiografico incontra altre forme del letterario come la testimonianza. La difficoltà di situare queste opere in un genere definito è attestato dal loro paratesto: Bon specifica che Prison è un récit, Siméon che si tratta di un témoignage, «ni un documentaire exhaustif ni un manifeste, mais seulement la relation honnête d’une longue expérience» dedicata a tutti i suoi studenti dietro le sbarre.14 Se nessuna indicazione generica apre il testo di Claudel, ritroviamo una dichiarazione di appartenenza all’interno del volume: «Ce peut être un témoignage ou, plus exactement, un faux témoignage, car il me manque quelque chose d’essentiel pour parler de prison, c’est d’y avoir passé une nuit» (BT: 116). Per Michèles Sales invece non si tratta « ni [d’]un roman, ni [d’]un essai, ni [d’]un documentaire. Peut-être [d’]une tentative pour dire la réalité de ce que j'ai vécu toutes ces années en utilisant le langage de la littérature (…)».15
Generi e forme diverse vengono così convocate: autobiografia, testimonianza e ancora intermedialità dal momento che il testo di Sautière è stato messo più volte in scena, o ancora «littérature exposée» (ROSENTHAL e RUFFEL 2010),16 come il reportage sonoro di Olivia Rosenthal, Maison d’arrêt Paris Santé, per il progetto da lei concepito «architecture en parole».17
Tra l’altro, Olivia Rosenthal è stata invitata,
con la stessa Sautière, a dare il proprio contributo a una mostra fotografica
sulle prigioni parigine promossa nel 2010 dal museo Carnavalet di Parigi
di cui troviamo traccia nel catalogo dell’esposizione.18
Non è solo la letteratura, quindi, che ricorre al reale per raccontarlo,
ma la realtà che ricorre al linguaggio della letteratura, «le seul qui peut
rendre sensible les choses vues»,19
per raccontarsi.
Lo dimostra ancora il testo Passé par la case Prison (2014)20 patrocinato dall’Observatoire International des prisons che contiene due serie di fotografie di otto detenuti prima e dopo il carcere, intervallate da un’intervista agli stessi e dalla rielaborazione letteraria delle loro storie ad opera di scrittori noti, tra cui, oltre allo stesso Claudel, compaiono le firme di Nancy Huston, Virginie Despentes, Marie Darrieussecq. La varietà dei generi diventa un modo per dire, forse, che la verità non è più nella forma ma tra le forme, all’interno di quella che, come direbbe Genette, in un’espressione di cui il nostro contesto amplifica il senso, è una “littérarité conditionnelle” (GENETTE 2004: 108).
Verso un nuovo engagement: «être là»
Si tratta, come abbiamo visto, di testi che contribuiscono a disegnare nuove diramazioni della letteratura nello stesso modo in cui la letteratura contribuisce a disegnare una nuova prospettiva dell’universo carcerario.
Al di là delle superate dicotomie tra finzione e realtà, verità e menzogna, che qualsiasi logica testimoniale chiama in causa, le opere che abbiamo interrogato si inscrivono all’interno di quella «littérature déconcertante» (VIART e VERCIER 2005: 8-11) che, frantumando appunto i luoghi comuni, tenta di dire il reale e «déranger les consciences d’être au monde» senza tuttavia rinunciare alle forme. L’arte di scrivere e quella di vivere, definendo i valori di una ‘po-etica’ che presta voce alle figure marginali della società, partecipano, in particolare, a una nuova forma di engagement che, tra l’altro, convoca il lettore chiamato a riempire gli spazi bianchi della narrazione.
L’impegno degli scrittori contemporanei non è, infatti, necessariamente legato a un’ideologia politica e, come fa notare Alexandre Gefen, non combatte per una causa particolare. Alla ‘littérature engagée’ di Zola o Sartre, si sostituisce oggi ‘l’engagement littéraire’: «d’engagements pour une cause, nous sommes passés à un engagement pour autrui, dans autrui, pourrait-on dire» (GEFEN 2005) in un momento in cui il realismo non consiste nel rappresentare il mondo ma nel mescolarsi ad esso. Non è un caso che l’imperativo che muove i propositi di Jane Sautière sia proprio un atto di presenza. Il frammento inaugurale del suo testo lo specifica: «1 - J’ai commencé ce texte lorsque je vous ai écoutés. Il ne s’agit pas d’écrire une souffrance (la vôtre ou la mienne). Il s’agit d’être là».
E allora, declinando la celebre formula di Jean Ricardou, il racconto contemporaneo sul carcere non è né la scrittura di un’avventura come nel romanzo realista tradizionale, né l’avventura di una scrittura come nel Nouveau Roman, bensì una vera e propria avventura umana, di cui il carcere si fa dispositivo etico ed estetico.
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Note
↑ 1 Per quanto riguarda l’isotopia carceraria in ambiti diversi dalla Francia si confronti M. Fludernik (1999).
↑ 2 Un’immagine fornita anche dalla cinematografia contemporanea: si pensi ad esempio al film di Stéphane Brizé, La lois du marché, 2015.
↑ 3 Di seguito elencate nel testo con le seguenti abbreviazioni: Prison (P), Le bruit des trousseaux (BT), fragmentation d’un lieu commun (FLC), La grande maison (GM), Prof chez les taulards (PT).
↑ 4 François Bon propone nel 2014 il «Livre numérique Prison - suivi de "Écrire en prison"» (con un nuovo aggiornamento nel 2015) presso la casa editrice Tiers Livre da lui fondata (cfr. http://www.tierslivre.net/spip/spip.php?article1062).
↑ 5 Michèle Sales si è occupata dal 1992, per conto dell’agenzia regionale della Coopération des bibliothèques en Aquitaine (CBA), della promozione della lettura e della cultura all’interno delle prigioni dell’Aquitania.
↑ 6 Si tratta della traduzione di Dressing. Nel 2019 l’autrice è stata anche ospite del festival della letteratura di Mantova.
↑ 7 «La grande maison, c’est le nom qu’ils donnent au bâtiment du quartier des hommes, établissant ainsi la hiérarchie» (GM: 145).
↑ 8 «Je dis “tu” lorsqu’il s’agit d’un collègue (surveillant, ou un autre travailleur social) et “vous” lorsqu’il s’agit d’une personne condamnée. Au début, ça m’a paru simple: le “tu” était la marque de la proximité des places, le “vous” la marque du respect et de la distance professionnelle. J’étais très attachée à ce vouvoiement. En réfléchissant, je me suis rendue compte que le “tu” est l’altérité du “je” et le «vous» l’altérité du “nous”. C’est cela que je cherchais empiriquement, une altérité du nous, Jane Sautière / fragmentation d'un lieu commun un entretien inédit, des extraits, deux lectures http://remue.net/cont/sautiere.html. (Tutti i siti citati riportati nella bibliografia finale sono stati consultati nel periodo che va dal 1 settembre 2019 al 1 marzo 2020).
↑ 9 «L’observation participante désigne, il me semble, la conduite d’un ethnologue qui s’immerge dans un univers social étranger pour y observer une activité, un rituel, une cérémonie, et, dans l’idéal, tout en y participant», discorso pronunciato da Bourdieu il 6 dicembre 2000 in occasione della consegna della Huxley Memorial Medal al Royal Anthropological Institute di Londra, e pubblicato nel 2003.
↑ 10 «Bruits hostiles, insupportables, de plus en plus insupportables, quand on comprend que c’est désormais le bruit ordinaire à subir, celui qu’on n’a pas choisi. Insupportables les grilles claquées qui vibrent, les cris des autres, les ordres, le raclement des barreaux, les chariots métalliques des repas qu’on roule sur les carrelages, la rumeur cathodique» (GM: pp. 42-43).
↑ 11 Si tratta di «Des espaces autres», discorso pronunciato da Foucault il 14 marzo 1967 a Parigi presso il Cercle d'études architecturales, e ripreso in Empan, 2004. Nello stesso testo, Foucault definisce le eterotopie di deviazione «celle dans laquelle on place les individus dont le comportement est déviant par rapport à la moyenne ou à la norme exigée. Ce sont les maisons de repos, les cliniques psychiatriques, ce sont bien entendu aussi les prisons».
↑ 12 «Toute cette maison est un labyrinthe minuscule, et on se sent perdu, désorienté dans cet espace pourtant si réduit, incapable d’en comprendre les plans et le logiques» (GB: 40).
↑ 13 Si confronti a proposito di questo apprendistato della parola la bella analisi proposta da Aurélie Adler (ADLER 2012).
↑ 14 Siméon dedica il suo testo a «tous [ses] étudiants derrière les barreaux»; la dedica di Claudel «pour Vous» potrebbe essere intesa nello stesso senso ma anche includere il lettore tra i suoi destinatari.
↑ 15 «Michèle Sales», http://ecla.aquitaine.fr/Ecrit-et-livre/Annuaire-des-professionnels/Auteurs/Sales-Michele.
↑ 16 Olivia Rosenthal e Lionel Ruffel dedicano nel 2010 un numero della rivista Littérature a «La littérature exposée. Les écritures contemporaines hors du livre», definita dagli autori nell’introduzione come «ces pratiques littéraires multiples (performances, lectures publiques, interventions sur le territoire, travaux sonores ou visuels) pour lesquelles le livre n’est plus ni un but ni un prérequis» (O. ROSENTHAL e L. RUFFEL 2010).
↑ 17 Olivia Rosenthal, pièce sonore «Maison d’arrêt Paris-La Santé», 42 rue de la Santé, 75014 Paris, registrata per il Musée Carnavalet in occasione della mostra dedicata nel 2019 alle prigioni parigine.
↑ 18 L'impossible photographie, prisons parisiennes 1851-2010, musée Carnavalet, 10 février - 4 juillet 2010.
↑ 19 «Michèle Sales», http://ecla.aquitaine.fr/Ecrit-et-livre/Annuaire-des-professionnels/Auteurs/Sales-Michele
↑ 20 Ritroviamo ancora la firma di Claudel nella prefazione a Lectures de prison 1725-2017. Inoltre, lo stesso autore sostiene l’ascendenza che ha avuto la sua esperienza all’interno della prigione sulla scrittura dei romanzi successivi e sulla sua cinematografia (CLAUDEL 2008).