Il controllo e la perdita di libertà nelle ricerche artistiche contemporanee
Abstract
Italiano | IngleseL’articolo ha come centro d’indagine le recenti ricerche dell’arte contemporanea che ruotano intorno alla figura della prigione. Quest’ultima viene indagata tanto nella sua dimensione fisica quanto nel suo significato metaforico, legato in particolare alla società contemporanea. Nelle opere analizzate la cella, la gabbia, il carcere sono metafora di un mondo in cui l’esasperazione della condivisione, a cui ci ha abituato internet, non è andata di pari passo con l’accrescimento di forme liberate di espressione, ma si è configurata piuttosto come una sempre più evidente mancanza di privacy.
Di conseguenza, le nozioni di istituzione, di repressione, di rigetto, di esclusione, di emarginazione non sono in grado di descrivere la formazione, nel cuore stesso della città carceraria, di insidiose dolcezze, di cattiverie poco confessabili, di piccole astuzie, di processi calcolati, di tecniche, di “scienze” in fin dei conti, che permettono la fabbricazione dell’individuo disciplinare. In questa umanità centrale e centralizzata, effetto e strumento di complesse relazioni di potere, corpi e forze assoggettate da dispositivi di “carcerazione” multipli, oggetti per discorsi che sono a loro volta elementi di quella strategia, bisogna discernere il rumore sordo e prolungato della battaglia.
Michel FOUCAULT, Surveiller et punir. Naissance de la prison, 1975 (Trad. A. Tarchetti)
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito della propria libertà in vista del ben pubblico: questa chimera non esiste che nei romanzi: se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo.
Cesare BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1764
In questo intervento1 illustriamo la ricerca e le riflessioni alla base della mostra Please Come Back. Il mondo come prigione? che si è tenuta al MAXXI-Museo nazionale delle arti del XXI secolo a Roma e poi all’IVAM-Institut Valencià d’Art Modern a Valencia nel corso del 2017. Una riflessione che scaturisce dalla constatazione di come gli eventi socio-politici degli ultimi anni − in cui la corruzione economica, la manipolazione politica, l’ingiustizia, la sorveglianza e il controllo hanno eroso velocemente lo spazio della vita pubblica e privata − abbiano profondamente modificato le ultime espressioni dell’arte contemporanea.
La mostra prende il titolo da un’opera del collettivo Claire Fontaine (fondato nel 2004 e di base a Parigi): una scritta al neon – realizzata in varie versioni dal 2008 – che recita appunto Please come back (Torna per favore). Quest’opera nasce da una riflessione degli autori sul mondo del lavoro inteso come spazio di reclusione e sullo sconfinamento della prigione al di fuori delle sue mura. Come dichiarano gli artisti, si tratta di: «una parziale esplorazione del lavoro come interno della prigione e della prigione come esterno del lavoro». Il lavoro, quindi, considerato come opposto della prigione/macchina produttiva e la prigione/macchina di punizione diventa la conseguenza del rifiuto della logica del lavoro remunerato e, più in generale, di ogni tipo di logica economica. Il progetto della mostra ha dunque come centro d’indagine la “figura” della prigione. Quest’ultima viene indagata tanto nella sua dimensione fisica, quanto nel suo significato metaforico, legandola in particolare alla società contemporanea. La cella, la gabbia, il carcere sembrano essere diventati metafora di un mondo in cui l’esasperazione della condivisione, a cui ci ha abituato internet, non è andata di pari passo con l’accrescimento di forme liberate di espressione, ma si è configurata piuttosto come una sempre più evidente mancanza di privacy.
A partire dalla simbologia del muro la mostra è divisa idealmente in tre sezioni: Dietro le mura; Fuori dalle mura; Oltre i muri.
Please Come Back, che apre idealmente il percorso espositivo, è stata concepita dal collettivo in risposta a un fenomeno molto semplice, ma che può diventare tanto ossessionante da risultare opprimente: in attesa di un incontro con l’ignoto, bisogna decidere se restare o andarsene. Come dichiarano gli artisti, «l’opera si riferisce in modo generico alla nostalgia e all’assenza di qualcuno/qualcosa che desideriamo ardentemente. Il rapporto diretto con la prigione è rappresentato dal font K, che deve il nome a Kafka e che […] si riferisce a luoghi disciplinari».2 Nel contesto di «luoghi disciplinari come scuole, fabbriche, ospedali e prigioni», il «desiderio di qualcuno che se n’è andato» può di certo essere interpretato come una resistenza e un rifiuto verso il sistema di controllo stesso. In effetti, Please Come Back − presentata insieme ad altri lavori di Claire Fontaine che affrontano la stessa tematica, come Untitled (Tennis Ball Sculpture) − è stata generalmente interpretata in relazione al problema del controllo sociale, dell’esclusione e dell’incarcerazione. L’opera può infatti sottintendere una richiesta emotiva di liberazione di familiari incarcerati o una sorta di volontà nostalgica di riunirsi oltre lo spazio disciplinare. Inoltre, in tale contesto, potrebbe proporci di avventurarci nell’ignoto, nell’incerto, nell’indeterminato e quindi nella libertà stessa. È una rivendicazione sociale particolarmente importante e pertinente in quest’epoca di sorveglianza e controllo totali, in cui è forte il dominio della cultura della paura e la biopolitica, per usare la celebre definizione di Foucault, impone una nuova condizione di coesistenza forzata. Ciò ci ricorda che c’è sempre stato un rapporto intimo – intenso e interattivo – tra l’arte e il controllo sociale, tra la libertà e l’oppressione politica e, più specificamente, tra le pratiche creative e la prigione.3
La “rete aperta” della prigione
Oggi possiamo vedere la prigione non soltanto come un’evidente forma di contenimento architettonico, ma anche una “rete aperta” che penetra in ogni angolo delle nostre traiettorie quotidiane, persino nei nostri sogni. A metà fra pubblico e privato, gli spazi urbani, e addirittura la natura stessa, sono sottoposti a una sorveglianza e un’osservazione costanti da parte dei sistemi di potere. Dall’invenzione del panopticon nel diciottesimo secolo a quella della televisione a circuito chiuso alla fine del ventesimo, fino all’odierna e generalizzata sorveglianza del pianeta via satellite, il controllo sociale ricorre essenzialmente alla produzione di una visione, e al controllo della visione stessa. In altre parole, le tecnologie di sorveglianza hanno la tendenza a concentrarsi sulla creazione di un certo tipo di immaginario, o di illusione, di una totale trasparenza della nostra vita, così da convincere il pubblico che una percezione “corretta e perfetta” del mondo come luogo sicuro sia la prova della vera sicurezza e dell’assenza di pericolo. Parlando di prigioni, celle, spazi di correzione, luoghi di identificazione o di controllo temporaneo, le ricerche artistiche non illustrano, quindi, solo ambienti estranei alla vita della presunta parte sana della società, ma della pericolosa e inquietante inconsapevolezza delle nostre stesse vite.
Le ultime ricerche artistiche presentate in Please Come Back affrontano alcuni temi cruciali della contemporaneità in un racconto per capitoli successivi, che dal modulo basico della cella – lucidamente descritto da Gramsci nei suoi Quaderni – passa a quello della città, luogo in cui si attua in modo sempre più evidente il controllo sui nostri movimenti, fino ad arrivare allo spazio del cielo, che ha perduto l’aura di verginità e potenza immaginifica che gli era propria, per acquisire anch’esso tratti inquietanti di sorveglianza.
Le tre sezioni della mostra
Il movimento dal modulo della cella alla virtualizzazione della prigione è descritto nelle tre sezioni che compongono questo racconto. Della prima, Dietro le mura, fa parte la grande già menzionata scritta al neon Please Come Back, che, come abbiamo visto, gioca sul carattere grafico utilizzato negli istituti di controllo – prigioni, ospedali, scuole – e nella sua secchezza definisce il proprio carattere di segnale normativo e non fraintendibile. La frase però rimanda anche a un messaggio di richiesta di ritorno di qualcuno o qualcosa che ci è stato sottratto. Allo stesso tempo dunque la sua struggente malinconia convive semanticamente con un claim utilizzato negli spazi commerciali come invito ai clienti a tornare a comprare. In questo modo l’opera si situa all’incrocio di un’alleanza che risponde perfettamente al bisogno di controllo sul tempo, solo apparentemente libero, con cui gestiamo una vita che, da privata, si è fatta pubblica.
Dietro le mura
In Dietro le mura viene analizzato come la figura del carcere sia entrata nell’iconografia dell’arte contemporanea secondo una molteplicità di direttrici: sociale, politica, esistenziale, simbolica. Dietro le mura della prigione l’arte è arrivata spesso in maniera diretta attraverso un’esperienza personale di reclusione dell’artista. Se in questi casi è prevalsa la dimensione cronachistica legata alla vita quotidiana, in altri episodi gli artisti hanno adottato un’ottica storica, concentrandosi su momenti emblematici come la costruzione del carcere di Santo Stefano o le battaglie per l’abolizione della prigione. Spesso la prigione è interpretata come riflesso della storia del proprio paese, esplorando il complesso intreccio fra sguardo, potere e tecnologia.
È quanto accade sedendosi sulla scultura The Cage the Bench and the Luggage di H.H. Lim, posizionata, in occasione della mostra, all’ingresso del museo: un invito a ripensare la nostra possibilità di guardare verso nuove prospettive uscendo da spazi domestici che, piuttosto che svolgere una funzione protettiva, custodiscono tesori che diventano una costrizione, un impedimento a poter gestire liberamente la propria individualità. Come i monitor che costellano le Control Room del pianeta, i lavori di Mikhael Subotzky, utilizzando immagini prese dall’alto o “rubate” alle telecamere a circuito chiuso, propongono un cambio di punto di vista: immagini che costantemente documentano i movimenti nello spazio urbano e tramutano la città da luogo di condivisione e azione sociale a quello di reclusione e controllo.
Fuori le mura
La stessa riflessione prosegue nella seconda sezione della mostra, Fuori le mura, in cui sono state raccolte alcune opere che riflettono su come lo spazio della prigione si estenda alla realtà urbana. Su questi aspetti si è concentrata in particolare l’architettura radicale, che fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento ha sviluppato una progettualità sotto il segno dell’utopia. Il tema del muro ritorna più recentemente nel lavoro di Carlos Garaicoa, che prende spunto da una vicenda quotidiana per ripercorrere la storia dei muri, simbolo di divisione politica e strumento di reclusione. E sempre il teatro urbano è quello scelto per la messa in scena di azioni e performance con cui Lin Yilin riproduce una scena di privazione di libertà vista casualmente, come una sorta di test per sfidare le reazioni di fronte a comportamenti estremi, ponendo a confronto due contesti urbani diversi come la città cinese di Haikou e Parigi.
Nell’opera di Jill Magid sembriamo invece apparentemente liberi di godere i benefici di una società che si autoritrae come laica e liberale, in un processo di brandizzazione della città stessa, un luogo funzionale alla competizione, residenza ideale di una popolazione in perenne migrazione. L’invito a fidarsi, in Trust, è accompagnato dalla consapevolezza che quella che stiamo seguendo è una voce anonima, fredda, inquietante nel suo essere apparentemente rassicurante.
Queste e altre opere confermano quanto la ricerca artistica stia rispondendo in maniera estremamente fertile alle modifiche sociali e tecnologiche, partendo dalla riflessione sul modulo base del controllo: la cella e la sua estensione nel progetto della prigione.
Nel corso dei secoli le organizzazioni interne degli spazi architettonici che, a vario titolo, sono state funzionali a riunire persone ritenute pericolose, o da isolare a scopo deterrente, hanno subito variazioni minime: riprendendo la forma del fortilizio e, internamente, quella della basilica con corridoio centrale. L’importanza del controllo visivo nasce ontologicamente con la cella, ben prima dell’introduzione del panopticon: poter osservare chi ha perso la libertà è già di per sé un’intimidazione. Allo stesso tempo, il circuito aperto fra chi guarda e chi è guardato è (inconsapevolmente) analogo alla relazione estetica che l’opera crea fra l’artista e chi la esperisce. La cella – e in senso lato la prigione – è un dispositivo di presentazione del carcerato alla società che lo ha allontanato. Essi nascono non solo come costrizioni fisiche, ma per creare un contesto simbolico rassicurante per coloro che sono rimasti fuori. Accanto e prima delle prigioni virtuali in cui viviamo, continuano a sussistere prigioni fisiche, abbandonate o provenienti da un passato prossimo non ancora metabolizzato. Il carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano, che Rossella Biscotti fa diventare pelle di un corpo non più esistente, è una rovina che accoglie oggi, oltre al nostro immaginario di resistenza civile, la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo. Mentre per Elisabetta Benassi la cella è quella con cui ci si protegge: il modulo antiproiettile utilizzato da Angela Davis in uno dei suoi discorsi pubblici. Il confino può agire in due direzioni, arrivare dall’esterno o essere originato da esigenze private. In entrambi i casi funziona come limitazione, uno spazio che rimane celato e in cui possono verificarsi episodi costantemente rimossi, poiché non assimilabili dalla morale accettata.
Oltre i muri
Nella terza sezione, le opere di Jenny Holzer, Gülsün Karamustafa e Shen Ruijun agiscono smascherando questo aspetto del rimosso ed evidenziando come le informazioni coperte da segreto di Stato siano una modalità del sistema non solo per proteggersi, ma per espellere dalla propria autonarrazione elementi non funzionali. In queste opere, le prigioni in cui viviamo, costantemente monitorati, sono le nostre città, dove ogni tipo di manifestazione di alterità viene controllata e mappata in un enorme archivio che può essere usato contro di noi, pur nascendo in apparenza per proteggerci. L’immaginario distopico legato allo spazio urbano è stato generato in parallelo a quello che lo vede come soluzione utopica per la convivenza degli esseri umani. Le opere di Rem Koolhaas e di Superstudio sono una presa di consapevolezza fondamentale della violenza e disomogeneità della forma-città, un luogo costruito per incasellare vite che si vogliono uniformi, per poterle gestire meglio in un cortocircuito fra immaginario fantascientifico e vacillazioni dell’ottimismo del pensiero moderno. Si tratta di un tipo di approccio che è stato indagato nell’ultima sezione della mostra, Oltre i muri, che raccoglie opere che individuano nella sorveglianza contemporanea un carattere di pervasività, portando la prigione al superamento del dominio fisico. Su queste pratiche erano fondati storicamente i regimi autoritari, come l’ex Repubblica Democratica Tedesca: lo sfondo – tuttavia non esplicitamente dichiarato – del video di Dora García.
Il cambio di paradigma dell’11 settembre
L’11 settembre ha certamente segnato un cambio di paradigma nell’ambito del fenomeno della sorveglianza. Questo nuovo orizzonte è stato esplorato dalle ricerche artistiche soprattutto di area anglosassone: la politica americana della cosiddetta “guerra al terrore” è oggetto della vasta analisi di Jenny Holzer, che ha lavorato su documenti desecretati; mentre le rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di controllo della National Security Agency hanno suggerito il progetto di Simon Denny, incentrato sulla nuova estetica tecnologica; l’invisibilità su cui si fonda l’apparato di controllo viene decostruita da Trevor Paglen, che rende visibili dispositivi come i satelliti o i sistemi di cablaggio sottomarini, evocando la tradizione della pittura di paesaggio e dell’astrazione. Quella aerea ha rappresentato una fra le aree di maggiore espansione della sorveglianza negli ultimi anni, con lo sviluppo di una estetica del drone: l’opera di Jananne Al-Ani riproduce la prospettiva del velivolo simbolo delle guerre del ventunesimo secolo, investigando diverse tipologie di siti in Medio Oriente.
Tecnologia e controllo
Nelle finte macchine di Simon Denny l’estetizzazione della tecnologia viene denunciata in maniera spiazzante: citando direttamente l’estetica dei server e intervallandola con inserimenti di immagini il cui linguaggio richiama quello delle réclame commerciali, l’artista incrina un sistema visivo che si basa sull’aggiornamento continuo della tecnologia che lo produce e lo diffonde, invitando a riflettere sull’obsolescenza digitale che sta caratterizzando in maniera sempre più evidente i cicli produttivi. Un potere segreto che volutamente sceglie di rimanere in secondo piano per poter agire con maggior efficacia e che si basa anch’esso sulla raccolta dei dati. L’opera si propone, quindi, come un enorme e potenziale archivio, la cui effettiva funzionalità non è importante determinare: il suo solo essere nello spazio le garantisce di essere ossequiata come un Moloch. In ultima istanza l’artista tenta di indagare il problema stesso della libertà della creazione artistica e dei limiti istituzionali.
Durante la preparazione della mostra, Trevor Paglen ha proposto la sua opera Autonomy Cube. Si tratta di un server internet, che consente agli utenti di trasmettere i propri messaggi in forma anonima, il che, secondo le leggi vigenti, è problematico. Dopo molti tentativi del team curatoriale e legale del museo, si è giunti alla conclusione che era troppo rischioso, per l’istituzione, permettere all’opera di funzionare effettivamente. In maniera paradigmatica e paradossale, l’opera ha tuttavia raggiunto il suo scopo: chiamando in causa l’istituzione, testando la sua tenuta rispetto ai limiti imposti e creando un cortocircuito fra il ruolo del museo come garante di un territorio di sperimentazione e quello di necessaria protezione delle cose e delle persone che lo abitano. Quando l’arte della libertà affronta il limite della libertà stessa, qual è la soluzione?
Conclusioni
Nelle opere descritte la cella, la gabbia, il carcere diventano metafora di un mondo in cui l’esasperazione della condivisione, a cui ci ha abituato internet, non è andata di pari passo con l’accrescimento di forme liberate di espressione, ma si è configurata piuttosto come una sempre più evidente mancanza di privacy. Ma se nello scenario attuale sembra ormai impraticabile qualsiasi proposta di filosofia politica di condivisione sociale e urbana, l’arte continua a rivendicare la possibilità di farsi agente di cambiamento.
Bibliografia
BONAMI, F., (a cura di), YouPrison: Riflessioni sulla limitazione di spazio e libertà, cat. mostra (Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 12 giugno-12 ottobre 2008), Torino, The Bookmakers, 2008.
FOUCAULT, M., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 2011 (prima edizione, Parigi 1975), p. 339 (trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014).
LEVIN, T. Y., FROHNE, U., WEIBEL, P. , (a cura di), CTRL [SPACE]: Rhetorics of Surveillance from Bentham to Big Brother, cat. mostra (ZKM – Zentrum fur Kunst und Medien Karlsruhe, 13 ottobre, 2001-24 febbraio, 2002) Cambridge, Mass., MIT Press, 2002.
PARISER, E., Il filtro. Quello che Internet ci nasconde, Bologna, Il Saggiatore, 2012.
ZUBOFF, S., «Big other: Surveillance capitalism and the prospects of an information civilization», Journal of Information Technology, vol. 30, n. 1, p. 75-89, marzo 2015.Disponibile online.
Photo Giorgio Benni
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Note
↑ 1 Di cui una prima versione è stata pubblicata in Hou Hanru, Luigia Lonardelli(a cura di), Please come back. Il mondo come prigione? Milano, Mousse Publishing, 2017.
↑ 2 Questa citazione, così come le seguenti, sono tratte da una conversazione fra Claire Fontaine e Hou Hanru via e-mail, 20-21 novembre 2016.
↑ 3 Ad esempio, per quanto riguarda il rapporto fra prigione e scrittura vedi il testo fondamentale di Victor Brombert, La prigione romantica. Saggio sull’immaginario, trad. it. A. Pasquali, Bologna, Il Mulino, 1991 (La prison romantique. Essai sur l’immaginaire, Paris, José Corti 1975).