Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Scambio poetico: i drammi delle prigioniere brasiliane narrati da loro stesse

Luciana PAIVA CORONEL


Abstract

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Cercando di ascoltare le voci delle donne incarcerate nel Brasile contemporaneo, praticamente assenti nel boom della Letteratura Carceraria degli anni 2000, presentiamo l’attività culturale ‘Scambio Poetico’. L’attività ha fatto parte della mostra ‘Corpo, Genere, Carcerazione’ nel Centro Culturale di São Paulo (SESC) nel 2018. È stato uno scambio di corrispondenze con le donne della prigione femminile della capitale, uno scambio dedicato alla condivisione di esperienze e affetti. Nonostante qualche problema, si possono conoscere alcune delle loro necessità e sofferenze, a cui si ha offerto ascolto e conforto. Abbiamo confermato la considerazione di Gayatri Spivak (2010) che sostiene che il subalterno è una categoria essenzialmente eterogenea.

	 
  

La prigione è la fine di una linea. Ma la fine nel senso più geografico
della parola - questa donna è una rifugiata dalla casa o dalla strada. Forse dalla vita.

Debora Diniz

Nel boom della scrittura carceraria, sviluppatasi negli anni Duemila in Brasile, praticamente non s'incontrano scrittrici.Si tratta per lo più di un insieme di opere scritte da uomini incarcerati e motivate principalmente dalla necessità di offrire una testimonianza del massacro di Carandiru del 1992, durante il quale, secondo le statistiche ufficiali, furono uccisi 111 uomini. I libri del boom sono: Lettere di libertà (2000), di diversi autori; Memorie di un sopravvissuto (2001), di Luiz Alberto Mendes; Diario di un prigioniero (2001), di Jocenir; Padiglione 9Passione e morte al Carandiru (2001), di Hosmany Ramos e del collega e sopravvissuto al massacro Milton Marques Viana; Sopravvissuto André du Rap (al Massacro del Carandiru) (2002), di André du Rap con la collaborazione del giornalista Bruno Zeni; Vite del CarandiruStorie vere (2002), di Humberto Rodrigues (org); In gabbia (2002), di Pedro Paulo Negrini, che dà voce al prigioniero Rogério Aparecido e Cella forte donna (2003), da Antonio Carlos Prado.

Ho già parlato della condizione di silenzio delle donne incarcerate nell’articolo “Genere e carcerazione: le voci e il silenzio delle prigioniere-autrici” (CORONEL 2018). L’unico modo di sentirlenella Letteratura Carceraria brasiliana dell’inizio del secolo XXI è cercarle in opere collettive istituzionalizzate, nelle quali però non si sentono specificamente le loro voci, come nel caso diLettere di libertà (2000), opera di diversi autori. Questo lavoro è il risultato di un concorso letterario indetto presso il Complesso Carandiru, proposto dalla Segreteria di Pubblica Sicurezza di São Paulo, che si occupa della risocializzazione dei prigionieri, che scrivono sulle loro esperienze di vita, memorie e dolori.

Nel 2015 circa esce una nuova serie di libri sul tema della prigione, e in particolare su quello del carcere femminile. La maggior parte sono stati scritti da donne (sociologhe, giornaliste, avvocatesse e un medico). Tuttavia, non troviamo libri scritti dalle prigioniere: esse sono sempre l’oggetto della narrazione, mai il soggetto. Queste opere sono: Prigione: rapporti sulle donne (2015),di Debora Diniz; Vita e lettura: narrative in prigione femminile (2014), di Ana Arlinda Oliveira; Prigionieri che mestruano (2015), di Nana Queiroz; Prigioniere: vita e violenza dietro le sbarre (2002), di Barbara Soares e Iara Ilgenfritz. A questi si aggiunge il saggio Prigioniere (2017),di Dráuzio Varella.

I libri sulla vita delle donne in carcere – non scritti da loro –confermano la considerazione dell’autrice indiana Gayatri Spivak, la quale afferma:«Se il discorso del subalterno viene cancellato, la donna subordinata si trova in una condizione ancora più periferica a causa dei problemi sottostanti alle questioni di genere» (ALMEIDA in SPIVAK 2010: 14). Prive di voce, le donne del carcere brasiliano hanno come unici portavoce della loro condizione donne intellettuali e medici; si tratta di una condizione evidentemente problematica perché questi, cercando di mettere in luce i problemi, aggiungono il loro punto di vista, mantenendo così il discorso delle prigioniere in una zona di oscurità.

In ogni caso, grazie a questi racconti, si possono conoscere le storie di vita delle donne incarcerate, tutte molto simili tra di loro: «giovani, povere, nere, poco scolarizzate, tossicodipendenti, donne il cui crimine è il risultato dell'economia familiare» (DINIZ 2015: 211). La maggior parte viene arrestata per traffico di droga, di solito perché i lavori precedenti (casalinghe, venditrici ambulanti, domestiche) sono sottopagati, o a volte addirittura non pagati. Il racconto è uno solo, anche se i nomi cambiano. Dalla violenza nasce altra violenza e le istituzioni pubbliche - la polizia e il sistema carcerario - non bloccano il circolo: al contrario, agiscono come mediatori che riproducono la stessa dinamica perversa. Dal padre al marito, dalla polizia alla guardia carceraria, la grammatica del dolore e dell'umiliazione continua, fedele alla logica autoritaria.

Alcune donne imparano questa lingua, la incorporano e adottano pratiche analoghe a quelle che hanno imparato nella vita. La violenza si impara e la scuola della violenza è davvero dura. Durante lo scambio di corrispondenza con le donne della prigione femminile di San Paolo mi sono accorta di quanto la condivisione di affetti possa essere difficile per loro. Il danno subito è irreparabile. In una delle situazioni a cui ho assistito non ho potuto fare nulla. Ci sono prigioniere che hanno perso la capacità di fidarsi e si chiudono in un mondo che già da tempo è stato chiuso per loro.

«La prigione è una macchina di abbandono nella quale molteplici sono le manifestazioni di violenza» (DINIZ 2015: 210): l’assenza di visite, l’abbandono da parte dei mariti (pochi vanno a visitarle, molto spesso sono stati incarcerati prima delle mogli), il dramma per la perdita di contatto con i figli (che rimangono alla cura dei parenti o di qualche istituzione). Ci sono testimonianze di maltrattamento tanto da parte della famiglia quanto all’interno della prigione. La loro disperazione si traduce in una necessità di affetto: «Le persone hanno il diritto di non visitarmi?» (DINIZ, 2015: 27), si chiede Fatima, che è arrivata con la faccia graffiata: «Me lo sono fatto perché mio figlio non viene a visitarmi, nessuno parla con me» (DINIZ 2015: 27).

Secondo Barbara Soares e Iara Ilgentritz, «le prigioniere che diventano madri in carcere soffrono perché hanno messo in prigione un innocente» (SOARES, ILGENFRITZ 2002: 27). Quando i bambini se ne vanno, le donne rimangono con l’incertezza sulla possibilità di rivederli. La legge consente a un bambino di vivere in carcere fino ai sette anni e gli garantisce il diritto all'istruzione prescolare, ma lo Stato brasiliano non può offrire questo servizio. I bambini devono uscire all’età di 6 mesi, a causa della povertà delle condizioni. In prigione il parto avviene con le manette ai polsi, così come l’allattamento. Tutte le donne incarcerate hanno già avuto drammi familiari e dopo l’arresto la violenza continua ad essere il filo conduttore della loro vita.

Alcune giovani, intervistate dagli autori, raccontano di essere nate in prigione; abbandonate dalla famiglia, hanno commesso infrazioni minori, per passare poi a delitti più gravi, che le hanno portate in prigione appena raggiunta la maggiore età. «Diverse generazioni di donne condannate sono nate e hanno partorito in prigione» (SOARES, ILGENFRITZ 2002: 27). Si dice che «chi conosce la culla in prigione nasce già condannato» (DINIZ 2015: 38), come il destino cieco che porta in prigione le donne povere e nere, le cui vite sono sempre marcate da una serie di precarietà: madri che lasciano la stessa pena alle loro figlie, in modo indefinito e irreversibile.

«Gli uomini tornano a casa quando escono dalla prigione. Le donne devono ricostruire il loro mondo», racconta Nana Queiroz (2016: 77). La battaglia per riguadagnarsi la custodia dei bambini dopo aver lasciato la prigione è una delle sfide più difficili che devono affrontare. Dráuzio Varella, medico con lunga esperienza in prigioni maschili e femminili, racconta in Prigioniere (2017) che il pregiudizio sociale nei confronti delle donne incarcerate è addirittura più grande di quello verso gli uomini incarcerati: «La società è in grado di affrontare con compassione l'arresto di un parente maschio, mentre la donna svergogna tutta la famiglia» (VARELLA, 2017: 38).

Il medico racconta nel suo rapporto che le file dei visitatori nel carcere maschile e femminile sono fondamentalmente composte da donne. I prigionieri di solito possono contare sulla presenza delle madri, della mogli o delle fidanzate, che aspettano in lunghe file il momento di rivederli, con borse piene di cibo. La situazione delle prigioniere è totalmente diversa: queste sono quasi sempre dimenticate e abbandonate dai loro partner: «In undici anni di lavoro volontario nel penitenziario femminile, ho notato che ci sono poche persone che aspettano per le visite, con la stessa predominanza di donne e di bambini; la minoranza maschile è composta da uomini anziani, di solito padri o nonni» (VARELLA 2017: 39). Il dottor Dráuzio Varella spiega anche che questi uomini non perseverano nelle visite alle prigioniere: «Compaiono la prima domenica; due o tre fine-settimana dopo non ne rimane nemmeno uno» (VARELLA 2017: 40).

Forse a causa della solitudine, le opere sul carcere femminile evidenziano la centralità delle lettere nella vita sentimentale delle prigioniere. Unica forma di contatto con il mondo esterno, «la posta muove l'universo del desiderio, della tristezza e della speranza» (DINIZ 2015: 19). Pezzi di lettere strappate sono stati trovati vicino alla cassetta della posta della prigione Talavera Bruce, a Rio di Janeiro. Si trattava di brani di corrispondenza con familiari che non erano mai arrivati nelle loro mani. Secondo Barbara Soares e Iara Ilgrenfritz, «le lettere delle prigioniere sono state trattenute anche perché contenevano denunce di atti di violenza accaduti in prigione» (SOARES, ILGENFRITZ 2002: 23).

Debora Diniz afferma che nella biblioteca del Distrito Federal si verificava la stessa situazione: «C'erano molte scatole con lettere inviate, ricevute, archiviate. […] Lì la tecnologia della posta elettronica viene ignorata. Settecento prigioniere, quasi duecento lettere alla settimana. Ci sono chat, lettere d'amore, lettere nostalgiche, lettere scritte dai bambini, lettere erotiche e anche cattive» (DINIZ 2015: 18). Sappiamo di lettere di protesta inviate ad importanti autorità del paese, come ai ministri del Tribunale Federale o alla presidente Dilma Rousseff.

Sapevo già quanto fossero importanti le lettere nella vita in carcere quando ho deciso di partecipare al progetto ‘Scambio poetico: corpo, genere, carcerazione’, che ha avuto luogo a latere della mostra ‘L'incarcerazione in massa è giustizia?’, organizzata a San Paolo dal Centro Culturale SESC, in collaborazione con la rete della Giustizia Criminale. La mostra si prefiggeva lo scopo di riflettere sulla Giustizia come questione che riguarda l'intera società e che consiste in una responsabilità collettiva che tenga presente i diritti umani. Riflettere sulla Giustizia attraverso una mescolanza classi sociali, generi e diverse origini etniche, provocando il dibattito sul tema dell’incarcerazione in Brasile con l’aiuto di workshop, video, danza, teatro e musica.

Nell’ambito del progetto ‘Scambio poetico’, alcune donne sono state invitate a uno scambio di corrispondenza con altre che si trovavano nella prigione femminile. Si è trattato di uno scambio di materiali come lettere, illustrazioni, piccoli quaderni, ecc., per comunicare esperienze, idee, desideri con le donne in carcere. Il corso ha avuto luogo un sabato al mese, da luglio a ottobre, più specificamente nelle date 21/07, 18/08, 15/09 e 06/10, dalle 15 alle 18. Mi sono preparata a conoscere ogni prigioniera individualmente, il suo modo di vivere e di sopravvivere dietro le sbarre, la sua solitudine in mezzo alla vita sociale collettiva della prigione. Mi sono preparata ad entrare nel mondo sconosciuto di queste donne e a provare a renderlo meno ostile attraverso questo nostro incontro.

Nel primo giorno di attività dello Scambio poetico, il 21 luglio 2018, le quattordici donne presenti sono state informate sul progetto proposto, sulle condizioni di vita delle prigioniere nel Penitenziario dello stato di San Paolo e anche sulla loro necessità di ascolto e di affetto. Sono state motivate a entrare nella zona di oscurità dei bisogni materiali e affettivi di una donna che si trova in carcere. Con queste informazioni, abbiamo scritto lettere alle prigioniere in modo astratto, come se buttassimo una bottiglia nel grande oceano della loro solitudine. Ciascuna di noi ha deciso di creare una relazione di affetto capace di superarele mura del penitenziario per la durata di quattro mesi, con una successione di una lettera al mese, per un totale di due lettere inviate alla prigioniera e due lettere di risposta, come programmato.

La proposta non era solo quella di uno scambio di parole scritte. Potevamo anche usare fogli colorati per scrivere, incollare nastri e tessuti di varie trame per personalizzare le lettere con copertine fatte a mano, secondo le nostre capacità individuali. L'affetto poteva essere trasmesso attraverso tutti gli strumenti che erano a nostra disposizione. Le coordinatrici non ce ne hanno parlato, ma l’abbiamo capito. Forse per il fatto che le quattro donne che avevano creato la proposta ‘Scambio Poetico’ erano artiste di vari ambiti, fin dall'inizio del progetto è stato chiaro che avremmo dovuto creare un linguaggio caldo in termini non solo verbali ma anche grafici e materiali.

Le coordinatrici erano Sandra Ximenez (o Sandra-X), cantautrice impegnata nella produzione di musica elettronica in dialogo con la parola scritta e Beatriz Cruz, performer, artista-educatrice e produttrice culturale, entrambe membri del Coletivo Teatro Dodecafônico di San Paolo; Letícia Olivares, attrice, direttrice e una delle creatrici del Coletivo Rubro Obseno, che sviluppa un teatro con un forte aspetto sociale; infine Vânia Medeiros, artista visuale il cui lavoro si materializza in diversi formati come libri, installazioni e interventi urbani. Guidate da queste donne, abbiamo non solo scritto le lettere, ma abbiamo anche cominciato, già dal primo giorno, a confezionare borse di feltro da inviare alle prigioniere, contenenti oggetti che potessero comunicare la nostra esistenza nella vita privata e professionale.

Durante il secondo giorno dello Scambio poetico, il 18 agosto 2018, ho ricevuto la risposta alla mia prima lettera. La prigioniera che mi aveva scritto, di nome Camila, era una studentessa laureata in pedagogia che stava per cominciare i suoi studi post-laurea in Disturbi cognitivi,quando fu portata in prigione. Rappresentava un’incredibile eccezione a livello di istruzione, perché la maggior parte delle prigioniere non riesce a completare la scuola elementare. Aveva 41 anni, una figlia di 10 anni ed era tossicodipendente. Mi ha raccontato in confidenza: «Amica Luciana, visitavo parenti in prigione, negli ultimi sette anni andavo a visitare il padre di mia figlia. Ho saputo che se n'è andato, ha abbandonato nostra figlia, oggi sta con un'altra donna che è incinta. Gli uomini fanno in fretta».

Con parenti incarcerati, l’ex marito incarcerato, Camila aveva una storia marcata dalla trasgressione. Fin dall’infanzia il carcere era stato presente nella sua vita a causa delle esperienze familiari. Tuttavia, era riuscita a rompere le barriere e si era laureata all’università, si era iscritta alla scuola di specializzazione e aveva costruito, grazie allo studio, un percorso molto diversificato per sé stessa e per la figlia. Ad un certo punto aveva però ceduto alla tentazione di quello che le sembrava il modo più semplice per superare le avversità, lasciandosi trascinare da quel flusso di comportamenti e costumi che in molti pensano possano portare ad un guadagno “facile”. Più forte della sua forza di inaugurare una nuova vita, improbabile per una donna con basi così precarie, il modello di origine si è riprodotto e la donna si è ritrovata parte del gruppo di carcerati di cui era composta la sua famiglia.

Le difficoltà economiche e la volontà di dare condizioni più confortevoli a sua figlia l'avevano portata a entrare nel traffico di droga. Camila in qualche modo si giustifica per l'atto illecito commesso quando parla delle condizioni materiali in cui viveva: «Sembrava surreale e inadatto per una maestra d’asilo dormire sul pavimento con una bambina, con un televisore antico di 2.1 pollici e un armadio vecchio e rotto». Non accetta la precarietà della sua vita e mi racconta i suoi piani per il futuro: «Amica Luciana, il mio sogno è quello di partecipare al game show ‘Casa Dolce Casa’, di Luciano Huck. Ma che sciocchezze! Chi darebbe un’opportunità ad una prigioniera? Sarebbe inaudito e assurdo che questa lettera raggiungesse quel presentatore così altruista».

Camila mi sorprende. Per ricostruirsi, non sogna nuove opportunità di lavoro, e nemmeno nuove prospettive amorose. Anche per il fatto di aver studiato e di possedere una laurea, progetta il suo futuro sullo schermo televisivo, più di una volta menzionato nella sua lettera. Questo dimostra la centralità dei mass media nella formazione del suo immaginario. Scrivendo dalla prigione (la posizione più lontana dalla società), Camila riproduce i valori della società di consumo senza poter acquistare i beni materiali che desidera possedere. Per avere accesso a dei bei mobili e a una televisione moderna per la sua camera da letto, riproduce i valori del patriarcato, chiedendo a un uomo ricco ed ‘altruista’ di aiutarla, come un principe azzurro in grado di proteggere la sua povera principessa, aprendole le porte per una nuova vita.

Questa studentessa del post-laurea pensa al futuro non in base agli strumenti concettuali dei libri letti all'università, ma con gli ingredienti di una fiaba, e vuole essere la Cenerentola del programma ‘Casa Dolce Casa’, passando dall'oscuro anonimato della sua cella direttamente alla celebrità dello schermo, senza uno sforzo maggiore di quello di essere selezionata dagli organizzatori del programma, titolari delle speranze nutrite della ragazza e identificate con una nuova camera da letto e con la fama. Gaiatry Spivak offre una spiegazione per interpretare l'insolito episodio: «Se il discorso del subalterno viene cancellato, la donna subordinata si trova in una situazione ancora più periferica a causa dei problemi sottostanti alle questioni di genere» (SPIVAK 2010: 14).

Camila dimostra quanto sia intricato l’universo della coscienza dei soggetti che si trovano in posizione subalterna, le cui voci replicano i valori derivati dall'ideologia capitalista, la stessa ideologia che, di fatto, aveva privato la prigioniera dei suoi benefici. Il soggetto subalterno «è irrimediabilmente eterogeneo», come scrive Spivak (2010: 57), definizione che la porta a concludere il suo studio sulle prospettive di un discorso proveniente dai livelli silenziati, al di fuori dei discorsi egemonici, con un categorico «Il subalterno non può parlare». Anche se Camila mi rivolge parole di fiducia, non usa il linguaggio allo scopo di rappresentare sé stessa e la sua situazione di vita in modo autonomo, e nemmeno potrebbe farlo. E’ un classico esempio di soggetto in posizione subalterna, o più specificamente, è un membro della «fascia più bassa della società caratterizzata da meccanismi specifici di esclusione dal mercato, dalla rappresentanza politica e legale e dalla possibilità di diventare parte dello strato sociale dominante» (SPIVAK 2010: 2). L'esclusione sperimentata sul piano economico, politico e sociale si estende all'interno del regno dell'immaginario, creando una mentalità divisa.

Nella mia lettera avevo chiesto a Camila che cosa si potesse fare fuori dalla prigione per rendere la sua vita più interessante, e lei mi aveva risposto: «Avere maggiore visibilità. Vogliamo avere voce. Siamo invisibili, siamo qui con i piedi e le mani legati, dimenticate, in un grande deposito di vite umane, strappate, incomplete». La sua firma è Camila Simões Brito, numero di matricola 1087436-0, padiglione II, ala 90. Proprio al fine di far uscire le prigioniere dalla loro oscurità sociale e far sapere loro che non erano state dimenticate era stato creato il progetto ‘Scambio Poetico’. La nostra corrispondenza doveva contemplare la necessità di concentrarsi sul mondo esterno, ma il senso di visibilità della prigioniera con cui ero in grado di interagire era più ampio: lei desiderava essere vista su una rete televisiva nazionale nella quale, come in un trucco di magia, le sue richieste sarebbero state soddisfatte.

Insieme alla lettera di Camila ho ricevuto la notizia del fatto che, durante la preparazione delle lettere nella prigione femminile, un ago era scomparso dal materiale offerto dalle organizzatrici. Queste hanno dovuto informare dell’accaduto i loro superiori. Le autorità della prigione hanno deciso di continuare il progetto con altre donne, e le 15 prigioniere matricolate sono state rimosse come punizione. Il rapporto con Camila finisce. Insieme alla frustrazione derivante da questa rottura durante il primo tentativo di approccio tra il carcere femminile e il mondo esterno, si percepisce anche che diverse donne dall'esterno non avrebbero più partecipato, per innumerevoli motivi.

Nel secondo giorno di attività eravamo solo in quattro donne, non più le quattordici del primo giorno. Avevamo quattordici lettere nostre con le loro risposte, ma era tutto cancellato. Ci hanno detto di inviare una prima lettera ad una nuova prigioniera. Poiché a questo punto eravamo poche, ne abbiamo dovuto scrivere più di una. La possibilità di un dialogo più intenso con una prigioniera era stata interrotta. Mancavano solo due incontri. Quindi, con questa nuova prigioniera, ci sarebbe stata solo la possibilità di una lettera inviata da me e un’altra inviata da lei, esattamente come era avvenuto con Camila. Un contatto breve tra due donne diverse, ma non la possibilità di approfondire la relazione.

Nel terzo giorno dello Scambio Poetico, il 15 settembre, abbiamo ricominciato le attività: ho scritto una nuova lettera ad una nuova donna in carcere e ho messo nella borsa che avevo già preparato alcune cose che servivano per spiegare alla mia nuova amica chi sono e che cosa faccio. Dato che sono professoressa, ho scelto piccolo libro, un piccolo quaderno, delle penne e anche alcune piccole conchiglie, visto che vivo vicino al mare. Purtroppo le conchiglie non sono potute entrare nella prigione (l’ho scoperto più tardi), per ragioni di sicurezza che ancora oggi mi sfuggono.

Nel quarto e ultimo giorno dello Scambio Poetico, il 6 ottobre, ho ricevuto una risposta interrotta da parte di Jaqueline, la mia nuova amica. Mi racconta che ha 54 anni, 3 figli, 4 nipoti, ed è divorziata. Mi racconta anche che aveva un buon marito, fino a quando nella sua vita non sono entrate le droghe. «Insomma, la vita ci sorprende. Ha ha ha»: la sua lettera finisce così, con ironia e senza un addio. Ho saputo in seguito che tutte le altre prigioniere che avevano partecipato all’attività (Edivania, Maria Gabriela, Suellen, Mercedes, Renata Joseane, Eliane, Monica) si erano arrabbiate perchè non mi aveva risposto educatamente e aveva terminato il nostro rapporto in un modo intempestivo.

Quindi, esattamente come le donne libere, fuori dalla prigione, anche lei aveva smesso di partecipare prima della fine del progetto. Per compensarmi del comportamento della collega, le altre prigioniere mi hanno mandato diversi biglietti, per non farmi sentire abbandonata. Questa gentilezza da parte di persone che hanno già perso tutto è stata commovente. Queste donne mi impedivano di sentirela solitudine che le soffocava. Mi sono emozionata e mi sono sentita gratificata dalla loro attenzione. Intuivo che dal profondo del mondo sociale arrivava una rete di protezione che noi, donne libere, non sapevamo estendere. Queste donne danno di più di quello che ricevono, per questo sono così facili da abbandonare, tanto che anche le donne che erano entrate volontariamente nel corso avevano desistito ed erano quindi venute meno alla responsabilità di aiutare le donne più sole del mondo.

Conclusione

Esiste un abisso di incomprensione tra i due gruppi di donne. Mi sembra insormontabile. Non conosciamo le necessità delle prigioniere come pensavamo di sapere. Offriamo ascolto, eppure una di loro aveva più bisogno di un ago che di qualsiasi altra cosa. Cercando di aiutarle, gli organizzatori avevano messo a rischio la sicurezza della prigione femminile. Le altre prigioniere non hanno denunciato la collega che aveva rubato l'oggetto tagliente perché il rigido codice etico che le unisce impedisce loro di accusarsi davanti alle autorità. Sono state punite in gruppo e escluse dall'attività, come si è visto. Siamo tutte rimaste con una sola lettera di ricordo di questo scambio d'affetto iniziale.

Rimango con la lettera di Camila, la cui alterità mi sfida. Avrei saputo come continuare il nostro rapporto? Cosa le avrei detto, se le avessi inviato la seconda lettera? Forse, per me, il grande insegnamento tratto da questa esperienza è stato quello di dover rinunciare alla comprensione e scommettere tutto su un sentimento costruttivo.Non giudicare è per Debora Diniz la premessa di base per il contatto con le donne in carcere: dopo tutto «le prigioniere sono già state condannate; ora stanno pagando per quello che hanno fatto» (DINIS 2015: 205). Questo è molto di più di quanto pensavo di poter imparare da queste donne senza speranza.

Dall’altra parte noi, donne libere, non abbiamo saputo dimostrare lo stesso spirito di gruppo delle donne incarcerate. Molte delle partecipanti hanno desistito dall'impegno con le prigioniere. Lo stesso ha fatto la mia seconda amica prigioniera che, non essendo capace di sostenere un dialogo con me, ha interrotto la corrispondenza. Come mai l’ha fatto? Mi è rimasta un’incertezza insormontabile, quello che volevo tentare di comprendere mi è scappato dalle mani. Questa donna si è rifiutata di raccontarmi la sua vita. Ha smesso di parlare e mi ha lasciata con un senso di frustrazione che sicuramente lei per prima ha provato molte volte. Si è vendicata del mondo attraverso di me, come se io fossi una rappresentante di questo mondo. Ha imparato il linguaggio della violenza e lo riproduce con maestria. In ogni caso, vedo in lei la trasgressione di quell'ideale di «femminilità pacifica» di cui parla Nana Queiroz (2016: 19).

Dráuzio Varella tratta l'argomento affermando che le donne, in confronto agli uomini, sono meno in grado di sottomettersi ai superiori. La sua lunga esperienza con le prigioni gli consente di individuare modalità di socialità molto diverse tra le prigioni maschili e femminili: «L'imposizione di regole e rapporti di comando, così lineari tra gli uomini in carcere, acquistano complessità incomparabile nel caso delle donne, perché le emozioni hanno lo stesso peso della razionalità» (VARELLA 2017: 20). La gelosia tra di loro è un motivo accettabile per giustificare le insubordinazioni che, nel caso degli uomini, li porterebbero a punizioni esemplari, commenta il dottore.

 Anche se una delle prigioniere aveva smesso di scrivermi, tutte le altre prigioniere, la seconda volta, si sono comportate come un gruppo, sostituendola nel compito e scrivendomi parole di conforto. Non c'è stato tempo per nient’altro. Non ho potuto nemmeno ringraziarle per avermi dato un abbraccio collettivo e solidale, come poche volte esse hanno ricevuto del mondo esterno. Il corso è finito. Noi, le donne libere, ci siamo salutate e siamo partite. Io, donna intellettuale, con un grande senso di responsabilità derivato da quest’esperienza, mi assumo il compito di far sentire la voce silenziata di queste donne a cui, secondo Gayatri Spivak (2010: 165), non si attribuisce "un qualsiasi valore come oggetto degno di rispetto nella lista delle priorità globali". L’idea è che questa situazione possa cambiare gradualmente dimostrando quello che pensano e sentono le donne nelle prigioni brasiliane, ancora coperte da un’opprimente "collezione di silenzi" (QUEIROZ 2016: 17) chedev’essere affrontata ormai da molto tempo.

Bibliografia

CORONEL, Luciana. “Gênero e encarceramento: as vozes e o silêncio das presidiárias-autoras”. In: GOMES, Gínia. Alteridades em trânsito: estética e representação na narrativa brasileira do século XXI. 1ed. Porto Alegre: Metamorfoses, 2018, v. 1, p. 222-239.
DINIZ, Deborah. Cadeia: relatos sobre mulheres. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2015.
OLIVEIRA, Ana Arlinda. Vida e leitura: narrativas na penitenciária feminina. Cuiabá: Ed. UFMT, 2014.
QUEIRÓZ. Nana. Presos que menstruam. 6.ed. Rio de Janeiro: Record, 2016.
SOARES, Barbara, ILGENFRITZ. Iara. Prisioneiras: vida e violência atrás das grades. Rio de Janeiro: Garamond, 2003.
SPIVAK, Gayatri Chakravorty. Pode o subalterno falar? Tradução de Sandra Regina Goulart Almeida, Marcos Pereira Feitosa, André Pereira Feitosa. Belo Horizonte: Ed. UFMG, 2010.
VARELLA, Dráuzio. Prisioneiras. São Paulo: Cia das Letras, 2017.


 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482