Incontrarsi in carcere. Implicazione, impegno e azione sociale della creazione artistico-letteraria contemporanea
Indice
Scritture implicate e impegnate
Dispositivi letterari per raccontare il carcere
Abstract
Italiano | IngleseLa presenza degli scrittori e artisti in carcere, e la loro testimonianza delle esperienze di relazione e collaborazione con i carcerati, sono l'oggetto di questo studio. La presentazione di quattro opere, tre testi di François Bon, Philippe Claudel e Aude Siméon, e un libro di testi e fotografie di Bettina Rheims, è accompagnata da una riflessione sull’implicazione della creazione artistica e letteraria francese nella realtà contemporanea e sui suoi esiti. Si illustra come il dispositivo artistico e letterario diventa uno strumento euristico e un mezzo per sviluppare la conoscenza del pubblico.
Entrer en prison ça casse quelque chose.1
Dalla fine degli anni '70, la letteratura francese ha vissuto un notevole momento di rinnovamento, segnato dall'avvento sulla scena letteraria di una nuova concezione della scrittura: con l’estinzione progressiva delle sperimentazioni dell’epoca precedente, la creazione letteraria si è focalizzata nuovamente sugli oggetti esteriori e sulla tangibilità del reale, sul passato o sul presente: il concreto dell’esperienza umana è diventato il materiale predominante della letteratura. Come indicato dal critico Dominique Viart, «non si tratta più, di fatto, di «scrivere» - nel senso assoluto del termine – ma di scrivere qualche cosa che abbia a che fare con la realtà, il soggetto, la Storia, la memoria, il legame sociale, o ancora con la lingua» (VIART 2004: 289).
Questo ritorno a una letteratura «transitiva» (VIART 2013: 11) si manifesta in particolare attraverso pratiche “in situ”2, che testimoniano il riavvicinamento tra lo scrittore e la società; generalmente grazie al contatto tra un autore e un luogo diverso dagli spazi ufficiali della produzione e della diffusione artistica. Centri culturali, scuole, biblioteche, teatri, ma anche carceri, porti e tribunali diventano spazi per la creazione, per la condivisione e la diffusione democratica della creazione artistica e letteraria. In molte occasioni (residenze, festival, progetti in contesti speciali), gli scrittori hanno l’opportunità di sperimentare forme di «letteratura che si fa (…) "in contesto" e non nella sola comunicazione scritta, sia nella solitudine dello studio o sia in quella della lettura silenziosa e appartata dei testi»3 (D.RUFFEL 2010: 62). Inoltre, in questi contesti si sviluppano forme letterarie ibride, forse più adatte a rispondere alle esigenze di un pubblico di lettori non specialisti, e che possano rispondere all’impellenza di raccontare la realtà nel momento stesso in cui questa si svolge. Si tratta di racconti che sono accompagnati dai risultati di inchieste, di interviste in cui la parola è riportata in tutta la sua autenticità, di riflessioni critiche accompagnate da testimonianze e da racconti inventati. In questi contesti, gli scrittori non praticano necessariamente la finzione letteraria, ma sperimentano generi dove la narrazione diventa uno strumento per render conto di eventi e situazioni realmente accaduti come il reportage, il documentario e l’indagine di stampo giornalistico e sociologico, e che ibridano il loro lavoro con altre discipline o attività, come l’inchiesta e la ricerca sul campo proprie delle scienze umane e sociali. Queste nuove pratiche testimoniano, inoltre, il desiderio di estendere l'attività di scrittura oltre la portata del libro, che non è più considerato un prodotto, vale a dire un obiettivo finale e concreto della creazione letteraria ma, piuttosto, come una fase di un più articolato processo della produzione artistica.
Scritture implicate e impegnate
Dunque, situandosi all’incrocio tra la pratica letteraria e l’implicazione attiva nella realtà contemporanea, i progetti di alcuni scrittori possono ascriversi a una nuova forma di scrittura che Dominique Viart designa come «littérature de terrain» (VIART 2018 e 2019). Il corpus di opere che prenderò in esame in questo studio offre alcuni spunti per la riflessione sulla «letteratura sul campo» e dimostra una relazione particolare degli scrittori e degli artisti al mondo nel quale vivono - un tempo si sarebbe parlato di engagement -, che si focalizza nell’ambiente specifico del carcere. Il concetto di impegno è cambiato in epoca recente, perché siamo ormai lontani dall’idea e dalla pratica di impegno promossi da Jean-Paul Sartre, dove l’intellettuale ha il dovere di denunciare le situazioni corrotte, i comportamenti sbagliati, le azioni distruttive, e deve farsi portavoce della società per metterne alla luce gli errori e le mancanze (B. Denis 2015). Gli scrittori oggi sono sempre partecipi delle aporie e delle problematiche della società che descrivono e che interrogano per mostrarne le problematiche e le specificità; la loro posizione, però, è diversa perché non intendono proporre soluzioni ai problemi, ricette facili per situazioni complesse, ma si limitano a indicare le realtà scomode, a metterle in luce e a svelare così i lati oscuri della vita e del mondo di oggi. Questo atteggiamento può essere considerato come un impegno ‘disimpegnato’ contemporaneo (BRICCO 2015), che determina comunque un approccio etico alla scrittura e all’azione letteraria e artistica, distante dalle grandi ideologie, con un approccio in sordina, apparentemente sottotono ma decisamente implicato.
Questa postura autoriale (MEIZOZ 2007), costituita dalla presenza critica che non si propone esplicitamente come tale ma che costruisce il suo discorso in modo da indurre il lettore a comprendere sia la situazione presentata, sia il punto di vista critico dell’autore, si rileva in libri che raccontano le esperienze di scrittori e insegnanti all’interno del carcere, e che costituiscono il corpus di opere che prenderò in esame in questo studio: Prison di François Bon, Le bruit des trousseaux di Philippe Claudel, Prof chez les taulards di Aude Siméon; e in un album fotografico con testi della fotografa Bettina Rheims, che, tra settembre e novembre 2014, ha fotografato donne carcerate in quattro prigioni francesi.
Tutte le esperienze raccontate in questi libri riguardano periodi più o meno lunghi di frequentazione regolare delle carceri e dei carcerati, da parte degli autori che, in periodi diversi e per motivi legati alla loro professione o a progetti culturali e artistici in cui sono implicati, oltrepassano i cancelli dei penitenziari. Aude Siméon è docente di lettere e si occupa della formazione di studenti carcerati, sui diversi livelli della scuola secondaria, per la preparazione degli esami di stato, e per le ammissioni a percorsi universitari4. Come lei, anche Philippe Claudel è docente di lettere, insegna in carcere, sviluppando anche progetti di scrittura creativa. François Bon entra in carcere per animare atelier di scrittura5 come accompagnamento alla didattica istituzionale. Bettina Rheims è fotografa e lavora a un progetto culturale di fotografia d’autore, che prevede la partecipazione attiva delle detenute che saranno poi le protagoniste dei ritratti presentati in una mostra e in un libro.
Dispositivi letterari per raccontare il carcere
Questi libri possono essere considerati come dei dispositivi, nel senso che Michel Foucault dà a questo termine: «col termine dispositivo, intendo una specie - per così dire - di formazione che in un certo momento storico ha avuto come funzione essenziale di rispondere a un’urgenza. Il dispositivo ha dunque una funzione eminentemente strategica...» (FOUCAULT 1994: 299). L’urgenza che sentono gli scrittori e gli artisti è quella di testimoniare su una realtà misconosciuta e troppo sovente stigmatizzata negativamente, ed è significativo che Foucault sviluppi questa riflessione sul dispositivo proprio a partire dallo studio dei luoghi di sorveglianza e controllo. In Surveiller et punir (FOUCAULT 1975) egli si focalizza ad esempio sull’analisi e interpretazione del Panopticon ideato dal filosofo inglese Jeremy Bentham nel 17916, allo scopo di dimostrare che «disciplina e controllo vengono esercitai in termini puramente ottici» (PINOTTI e SOMAINI 2016: 178). Non è un caso perché dimostra che la prigione, in quanto luogo di reclusione per punizione, sia in effetti il frutto di un’intensa valutazione sulle possibilità di esercitare il controllo nel modo migliore e più efficace. È a partire da questo principio, ovvero che il dispositivo è un oggetto pensato e costruito per uno scopo, che si è allargato il campo semantico del termine, e la nozione di dispositivo è utilizzata nell’ambito degli studi culturali per designare oggetti compositi, ibridi, ideati e realizzati a partire da materiali eterogenei la cui funzione è di suscitare una reazione nell’osservatore (ORTEL 2008-1). Dalla prigione all’oggetto artistico, il dispositivo ricopre così diversi ambiti di attenzione. Più recentemente, anche Giorgio Agamben ha dedicato la sua riflessione a questa nozione, ormai diventata un concetto chiave delle pratiche artistiche contemporanee e della loro analisi. Nel breve testo della conferenza Cos’è un dispositivo, il filosofo ha iniziato il suo discorso con una definizione: «chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (AGAMBEN 2006: 22). Ancora Agamben, parafrasando Foucault, spiega che il dispositivo è «un insieme di pratiche e meccanismi (insieme linguistici e non linguistici, giuridici, tecnici e militari) che hanno lo scopo di far fronte a un’urgenza e di ottenere un effetto più o meno immediato» (AGAMBEN 2006: 14). I testi qui presi in esame possono essere considerati come dispositivi perché sono il frutto di un’esperienza in carcere e dimostrano, nella loro composizione, nel progetto che illustrano e nello spazio di qualche centinaia di pagine, la necessità di raccontare l’indicibile, il molteplice e la complessità della vita reclusa. Sono dispositivi perché sono il risultato di un progetto: possono essere considerati dei tentativi di rispondere alla domanda sulla possibilità di descrivere la realtà della vita nella prigione, l’esistenza giornaliera della popolazione di donne e uomini che vi trascorre una porzione sostanziale, sia quantitativamente sia qualitativamente, della propria esistenza.
I quattro libri possono essere considerati dispositivi anche dal punto di vista più specifico della critica letteraria così come ha illustrati Philippe Ortel nel suo lungo articolo sulla «Poétique des dispositifs»:
Nella sua forma più elementare, un dispositivo può essere unicamente tecnico (I), [...] il vivere in società associa generalmente a questo basamento fisico due componenti, una pragmatica (II), fondata sullo scambio tra attori, che può concernere la comunicazione, ma anche, più ampiamente le cose umane [...], l'altra simbolica (III) che corrisponde all'insieme dei valori semantici e assiologici che la accompagnano. (Ortel 2008-2: 39)7
L’articolazione di queste tre componenti e la loro composizione determina il funzionamento del meccanismo e la sua efficacia, in relazione, naturalmente, con il disegno primigenio dell’autore e con la necessaria intermediazione del lettore. Infatti, un dispositivo testuale letterario «mobilita dei mezzi tecnici, plastici o poetici per figurare una realtà (I), che trasmette poi a un pubblico (II), posto nella posizione di apprendere e di giudicare (III)»8 (Ortel 2008-2: 46).
Dal carcere al libro: il racconto spezzato
Alla convergenza tra la riflessione di Foucault sul dispositivo ottico ideato per controllare al meglio in situazioni di reclusione, e quella sul dispositivo testuale inteso come «costruzione che attualizza e integra alcuni elementi in vista di un obiettivo» (VOUILLOUX 2008: 16)9, i quattro libri che presento possono essere accostati perché contengono alcuni elementi in comune (I), primo tra tutti il carcere come luogo in cui si sviluppa l’azione e alcune tematiche ricorrenti, successivamente alcune similitudini dal punto di vista della costruzione del discorso. La presentazione di questi elementi accompagnata dalla loro sistemazione che mira a costruire la figurazione e formare un discorso (II), sarà poi percepita e interpretata dal lettore che potrà, all’occorrenza, individuare la volontà di illustrazione critica di una certa situazione da parte dell’autore (III).
Come anticipato, ognuno dei quattro dispositivi letterari presi in esame presenta l’incontro degli autori con il carcere, con i carcerati e le carcerate e, sebbene in misura minore, vi appare anche il personale che lavora nel carcere, operatori sociali, medici, personale di sorveglianza. In ogni caso, lo scopo della presenza degli autori all’interno della struttura penitenziaria è di apportare un servizio, svolgere la propria attività lavorativa e artistica. I tre testi-documento contengono le relazioni sul lavoro svolto insieme alle persone che hanno partecipato alle attività proposte e rendono conto delle relazioni umane che si sono stabilite, delle difficoltà di penetrare attraverso spazi fisici chiusi e spazi mentali ripiegati su se stessi. Ogni lavoro contiene aneddoti, racconti di situazioni, impressioni degli autori e poi i dialoghi con i carcerati, le loro storie, i racconti delle loro giornate, le loro aspirazioni – elaborate in relazione alla durata della pena quindi rispetto al tempo da trascorrere in prigione-, la loro quotidianità, le relazioni all’interno e all’esterno, il crimine commesso, la percezione della colpa e il rapporto con l’idea della reclusione. I testi pongono il lettore dinanzi a situazioni umane. Senza incorrere nella costruzione di facili vittimismi e nella proclamazione di denunce a priori, al termine della lettura si è attraversata una realtà cruda, squallida e poco sociale. Infatti, la socialità nel carcere è difficile perché indotta, essendo le persone accomunate dalla comune reclusione e non necessariamente desiderose di stabilire relazioni personali tra loro. E, forse, è proprio la solitudine sordida l’elemento che appare come il più devastante, quello che mina giorno per giorno le personalità e le certezze, quello che scorre inesorabile attraverso i racconti e le situazioni, quello che è poi confermato nelle foto di Bettina Rheims. [Cliccare per vedere le immagini]
Dato questo sostrato comune del racconto, l’elemento formale più consistente di tutti i dispositivi presentati è la frammentazione della narrazione. La giustapposizione degli aneddoti, l’accostamento delle testimonianze e dei racconti dei carcerati, lo scorrere delle fotografie tutte uguali nella forma perché scattate nello stesso luogo e nella stessa posizione, ma così diverse nella sostanza delle espressioni e delle pose assunte. La rottura del ritmo del raccontare, la negazione di un filo conduttore e il privilegio dell’accostamento, falsamente casuale perché ricercato con cura, possono essere i sintomi della necessità di dire senza raccontare, di documentare perché la realtà è talmente complicata e contraddittoria che è impossibile da spiegare, meglio allora appare darne alcuni spunti, meglio procedere con l’esibizione di spicchi di verità. E, forse, la frammentazione di una narrazione che procede a intermittenza mira a fornire un’idea del carcere nella sua totalità, a raccontare la vita che vi si conduce nella sua dispersione, a creare un’impressione, seppur monca e parziale.
Ogni libro presenta forme di frammentazione diverse: Philippe Claudel produce piccole porzioni di testo, talvolta sono frasi uniche separate da spazi bianchi. Si tratta di brevi stralci del racconto della vita del carcere dove le situazioni e gli argomenti diversi vissuti dall’autore o raccontati dai suoi interlocutori sono giustapposti. L’effetto prodotto dall’accostamento, quasi uno scontro tra i frammenti, è una sorta di vertigine nel lettore, costretto a riempire gli spazi vuoti, a immaginare i legami e le giunzioni, come accade nei due brani che seguono, dove la realtà della vita quotidiana è presentata dal vivo, ma dove sono molto evidenti anche il commento e il punto di vista critico dell’autore:
Mensare: la parola esiste solo là. Il dizionario la ignora, come se gli elementi della vita in carcere sfuggissero alla lingua ammessa, ne fossero esclusi, restassero proprio innominabili. Mensare, è prevedere, sognare, acquistare in anticipo, fare una lista, fare una scelta di cibo, supporre un avvenire. Si poteva mensare tutto o quasi.
Molti detenuti parlavano con il cappellano, in mancanza d’altro, per la mancanza di altre orecchie e di altri cuori. Questo prete aveva tratti del missionario esaltato, e una sorta di franchezza ruvida, che forse è la cifra della grande bontà. Finì per andare in pensione, e non tornò più. (BT, p.60)10
Lo sviluppo del racconto di François Bon è diverso perché non troviamo un narratore che racconta in prima persona le sue esperienze, quel che ha visto e le parole che ha raccolto, leggiamo piuttosto la relazione di quanto è emerso durante gli atelier di scrittura che lo scrittore ha animato. In queste situazioni, egli proponeva la lettura di una serie di testi con l’obiettivo di far scaturire la scrittura dei partecipanti11. Secondo l’argomento proposto questi rispondevano più o meno efficacemente. In ogni caso lo scrivere permetteva loro di raccontarsi, di fermarsi a pensare sulla loro situazione, nel tentativo di svolgere un’attività che non conoscevano, di mettersi alla prova, di agire e quindi di sentirsi attivi. Nel suo libro lo scrittore si fa portavoce di quanto inteso e letto, percepito e saputo, riportando talvolta anche stralci di testi scritti dai carcerati, in una lingua spesso approssimativa. In genere egli riscrive e anonimizza i risultati degli sforzi che gli autori dilettanti hanno fatto per esprimere le proprie idee, emozioni e pensieri:
Prima non sapevo scrivere, e adesso imparo a scrivere. Quando sono uscito dalla scuola, sapevo scrivere solo il mio nome e il mio cognome e la mia data di nascita. Prima, non sapevo scrivere. Adesso, so scrivere il mio nome e delle parole che scrivo un po’. Ci sono cose che non sapevo, e che adesso so. Questo mi insegna a riflettere nella testa, di cose che avevo in testa e che non potevo dire prima, ed escono meglio. Adesso, va bene.12 (P, p.79)
Il racconto della prigione è arduo, Aude Siméon spiega ad esempio che «Non è facile essere detenuto, è ingrato essere guardia»13 ( PT, Kindle pos.54-55). Come lei anche Philippe Claudel è insegnante e settimanalmente si reca dentro le mura per fare scuola. La vita dei carcerati affiora nei piccoli brani che riferiscono di esperienze, incontri, episodi vissuti e raccontati dai protagonisti. Il punto di vista del narratore è unico e la sua esperienza del carcere apre il racconto e crea lo spazio della narrazione a partire dall'entrata in prigione con i portoni, le griglie, le serrature che scattano, le chiavi che fanno rumore, le telecamere e l’attesa che qualcuno venga a prenderlo per accompagnarlo; la classe arredata con mobilio scolastico, e poi i detenuti e la loro umanità:
Lo sguardo verso l’esterno, il detenuto che sorprendevo nell’aula, entrato prima di me e che, dalla finestra, guardava i binari della ferrovia, la strada, il ponte dei Fucilati, le macchine, i pedoni lontani curvi sotto la pioggia, le sferzate della pioggia sui marciapiedi, e che chiudeva gli occhi, non avendomi sentito arrivare, e respirava molto forte, molto a lungo, l’aria bagnata, l’aria di quel di fuori che passava le sbarre ed entrava nell’aula.14 (BT, p.59)
La relazione con l’esterno è naturalmente l’argomento principale che ritorna nei discorsi dei detenuti. Si tratta di esprimere la loro pena per quel che hanno lasciato fuori, spesso accompagnata dal rimpianto per aver perso i contatti con la famiglia lontana, che ha deciso di proseguire la vita altrimenti. Ma è soprattutto la routine quotidiana che stupisce i visitatori esterni e che riempie le pagine dei detenuti: la cella dove si svolge la vita dal mattino alla sera e il far niente che corrode, la mancanza di prospettive per il futuro:
Non è così semplice: sei sfruttato quando lavori qui, hai una paga da miseria, e in più i prodotti mensati (comprati all’interno della prigione) sono molto più cari che all’esterno. E poi, l’effetto che fa vedere quelli che hai conosciuto continuare la loro vita, con una donna, dei figli, dei progetti. È bloccato per noi. Non c’è più niente per noi fuori. E qui, c’è sempre la diffidenza dell’amministrazione se si vuole chiedere o proporre qualsiasi cosa.15 (PT, Kindle pos.1424-1427)
Piano piano, la vita del carcere con le sue miserie si impone con tutta la sua durezza e si conoscono i discorsi, si percepisce la realtà quotidiana, le miserie di essa. La mancanza di libertà è vissuta da tutti e tutte come una perdita dell’identità, come una disumanizzazione. Lo racconta bene la fotografa Bettina Rheims quando spiega la sua esperienza artistica:
Le carcerate erano diffidenti: la prigione rompe la fiducia ed è difficile ritrovare un po’ della stima di sé. Esse provano la sensazione di non essere più donne da quando nessuno le guarda più. Sono donne spezzate, con i nervi a fior di pelle, è difficile per loro posare per le fotografie. Ognuna si siede sullo sgabello e deve far uscire qualcosa, provocare emozioni, ritrovare un resto di piacere in fondo a se stessa.16
Il dispositivo messo a punto dalla fotografa prevede la stessa situazione per tutti gli scatti: il soggetto ritratto posa seduta davanti a uno sfondo neutro, in uno spazio senza colore che sembra asettico. Le detenute sono sedute o appoggiate a uno sgabello che rende la loro posizione incerta e poco naturale, ma è proprio in questa situazione imposta e costrittiva che si manifestano i caratteri, le scelte estetiche, la verità delle detenute, la loro personalità. [Cliccare per vedere le immagini]
Alla fine del volume, dopo aver percorso le 68 fotografie, Bettina Rheims rende conto, in una serie di brevi testi descrittivi intitolati Fragments, dell’incontro/scontro con le sue modelle, che per l’occasione si sono vestite e preparate da sole, con i propri abiti o quelli che hanno potuto prendere in prestito da altre detenute. La fotografa spiega che le donne appaiono negli scatti in tutta la loro autenticità. Infatti, l’esperienza di posare davanti a una macchina fotografica ha permesso loro di riprendere contatto con il proprio aspetto fisico: di guardarsi allo specchio di cui le celle sono sprovviste, di pensare alla propria immagine e alla costruzione di essa. Dopo questa fase di preparazione delle modelle, la seduta di posa poteva durare anche alcune ore e, in questo spazio di tempo sottratto alla routine della vita in carcere, un dialogo si è instaurato naturalmente tra loro e la Rheims. Nelle note finali quest’ultima rende conto di un breve contatto:
È qui da sei anni e mezzo. Da allora, ha visto i suoi figli solo una volta. Abitano lontano. Adesso, ha problemi di schiena. Anche lei parla di ricostruirsi. «Qui si parla molto di tutto questo. Non siamo criminali perché ci fa piacere. All'inizio, non sapevo quel che avevo fatto, era come se avessi dimenticato che era tutto vero. Non riuscivo a rimettere insieme i pezzi. Sono passati quattro mesi prima che sapessi che avevo ucciso mio marito. Non sapevo più scrivere, non sapevo più leggere. È come se fossi diventata una bambina di 7 anni. Bisognava rimparare tutto.»17 (D, p.157)
L’esigenza di raccontare
Nel suo saggio sull’Estetica relazionale, il critico e curatore d’arte Nicolas Bourriaud spiega che nella società odierna dove le relazioni interpersonali sono fluide a causa dello sviluppo delle tecnologie digitali e della dispersione dei soggetti nella mediasfera, l’arte contemporanea può farsi carico di rendere conto dell’incontro tra le persone e di quel che accade. Nel momento in cui gli individui entrano in relazione, all’esterno dello specifico ambito artistico, magari inaspettatamente, sorge la spontaneità nella condivisione del momento presente. Bourriaud considera la sfera delle relazioni umane come una « forma artistica in tutto e per tutto» e, di conseguenza, «un’opera può funzionare come un dispositivo relazionale che comporti un certo grado di aleatorio, una macchina per provocare gli incontri individuali o collettivi»18 (BOURRIAUD 2001: 30). Le quattro esperienze presentate si possano leggere come altrettanti «dispositivi relazionali», dove realtà e persone diverse entrano in contatto e dal loro incontro scaturisce l’opera testimoniale e documentaria. Il terzo momento della creazione del dispositivo secondo Philippe Ortel, quello nel quale il lettore è chiamato a fare la sua parte, a riempire le aporie della narrazione, a comprendere i sottintesi, ad attivare la funzione euristica della creazione letteraria e artistica, è così attivato e pienamente operativo. I dispositivi di François Bon, Philippe Claudel, Bettina Rheims e Aude Siméon hanno messo in gioco diversi elementi e strumenti, li hanno composti e così facendo hanno messo a nudo il loro personalissimo punto di vista: la loro implicazione personale ed empatica ha consentito la trasmissione della conoscenza su una realtà sempre troppo circoscritta e nascosta.
BIBLIOGRAFIA
Opere studiate
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Note
↑ 1 Intervista con Bettina Rheims di Nathalie Renoux, 9.02.2018.Disponibile in rete. «Entrare in prigione rompe qualcosa. » Tutte le risorse online sono state consultate il 13/3/2020, e tutte le traduzioni sono mie.
↑ 2 Cfr. Il numero della rivista Littérature dedicato alla “Littérature exposée”, (2010/4 - n°160) dove O. Rosenthal e L. Ruffel trattano di tutte le forme in cui la pratica letteraria «esce dal libro» e si confronta con la realtà: performance, residenze di scrittura, letture pubbliche, mostre, ecc.
↑ 3 « Littérature qui se fait (…) "en contexte" et non dans la seule communication in absentia de l’écriture, du cabinet de travail ou de la lecture muette et solitaire des textes. »
↑ 4 Nell’Avant-propos del suo libro l’autrice spiega le circostanze della sua attività di insegnante in carcere e anche le motivazioni dei suoi allievi, che decidono spontaneamente di studiare.
↑ 5 La pratica dell’atelier di scrittura in ambito carcerario si è molto sviluppata in Francia, ma solo recentemente è stata oggetto dell’attenzione della critica universitaria: ne rende conto Jean-Lucien Sanchez in «Les ateliers d’écriture en milieu carcéral», [Disponibile in rete.]
↑ 6 Cliccare per vedere l'immagine.
↑ 7 «Sous sa forme la plus élémentaire, un dispositif peut être uniquement technique (I), [...] la vie sociale associe généralement à ce soubassement physique deux composantes, l'une pragmatique (II), fondée sur un échange entre actants, qui peut relever de la communication, mais aussi, plus largement des affaires humaines[...], l'autre symbolique (III), correspondant à l'ensemble des valeurs sémantiques et axiologiques s'y attachant.»
↑ 8 «[…] mobilise des moyens techniques, plastiques ou poétiques pour figurer une réalité (I), qu'elle transmet ensuite à un public (II), placé en position d'apprendre et de juger (III).»
↑ 9 «Agencement actualisant et intégrant des éléments en vue d'un objectif».
↑ 10 Il termine « cantiner » è un derivato di cantine, mensa, che ho reso con “mensare”, formato nello stesso modo, ma sicurmente potrbbe essere reso meglio e forse esiste anche un traducente italiano utilizzato in carcere. «Cantiner: le mot n’existe que là-bas. Le Robert l’ignore, comme si les éléments de la vie carcérale échappaient au langage admis, étaient exclus par lui, restaient proprement innommables. Cantiner, c’est prévoir, rêver, acheter par avance, dresser une liste, faire un choix de denrées, supposer un avenir. On pouvait tout cantiner ou presque. / Beaucoup de détenus parlaient à l’aumônier, faute de mieux, par manque d’autres oreilles et d’autres cœurs. Ce curé avait les traits d’un missionnaire exalté, une sorte de franchise abrupte aussi, qui est peut-être la marque de la grande bonté. Il finit par prendre sa retraite, et ne revint jamais. »
↑ 11 Esperto animatore di ateliers di scrittura in contesti diversi, François Bon ha scritto uno dei primi manuali in lingua francese: Tous les mots sont adultes (Paris, Fayard, 2005).
↑ 12 «Avant, je ne savais pas écrire, et maintenant j’apprends à écrire. Quand je suis sorti de l’école, je ne savais écrire que mon nom et mon prénom et ma date de naissance. Avant, je ne savais pas écrire. Maintenant, je sais écrire mon nom et des mots que j’écris un peu. Il y a des choses que je ne savais pas, et que maintenant je sais. Ça m’apprend à réfléchir dans ma tête, des choses que j’avais dans ma tête et que je ne pouvais pas dire avant, et ça sort mieux. Maintenant, ça va.»
↑ 13 «Il n’est pas facile d’être détenu, il est ingrat d’être surveillant.»
↑ 14 « Le regard porté sur le dehors, le détenu que je surprenais dans la salle de cours, entré avant moi et qui, par la fenêtre, regardait les voies de chemin de fer, la rue, le pont des Fusillés, les voitures, les piétons lointains courbés sous la pluie, les gifles de la pluie sur les trottoirs, et qui fermait les yeux, ne m’ayant pas entendu venir, et respirait très fort, très longtemps, l’air mouillé, l’air de ce dehors-là qui passait les barreaux et entrait dans la salle. »
↑ 15 « C’est pas si simple : on est exploité quand on travaille ici, on a un salaire de misère, et en plus les produits cantinés (achetés au sein de la prison) sont bien plus chers qu’à l’extérieur. Et puis, l’effet que ça fait de voir ceux qu’on a connus continuer leur vie, avec une femme, des enfants, des projets. C’est bouché pour nous. Y a plus rien pour nous dehors. Et ici, y a toujours la méfiance de l’administration si on veut demander ou proposer n’importe quoi. »
↑ 16 Entretien avec Bettina Rheims par Nathalie Renoux, 9.02.2018, Disponibile in rete
↑ 17 « Elle est là depuis six ans et demi. Depuis, elle n’a vu ses enfants qu’une seule fois. Ils habitent loin. Maintenant, elle a des problèmes de dos. Elle aussi parle de se reconstruire. «Ici on discute beaucoup de tout ça. On n’est pas des criminelles pour le plaisir. Au début, je n’ai pas su ce que j’avais fait, c’était comme si j’avais oublié que tout était vrai. Je n’arrivais pas à recoller les morceaux. Ça a duré quatre mois avant que je sache que j’avais tué mon mari. Je ne savais plus écrire, je ne savais plus lire. C’est comme si j’étais devenue une enfant de 7 ans. Il fallait tout réapprendre. »
↑ 18 « Une œuvre artistique à part entière ». « Une œuvre peut fonctionner comme un dispositif relationnel comportant un certain degré d’aléatoire, une machine à provoquer des rencontres individuelles ou collectives »