Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Dall'afflizione alla riabilitazione... e ritorno?

Luca ZEVI



Abstract

Italiano  | Inglese 

Il percorso della pena si sviluppa, nel corso dei secoli, dalla punizione corporale alla reclusione alla (speriamo) riabilitazione. Nella prospettiva di procedere risolutamente nella direzione di un reinserimento dei detenuti nella società, è importante ripensare gli istituti penitenziari esistenti da “città proibite” a organismi polivalenti, capaci di ospitare non soltanto la funzione residenziale segregata, ma anche il lavoro, la formazione, la creatività, la formazione, la socialità. E’ infine essenziale andare oltre il carcere, trasformandolo da “discarica del malessere sociale” a extrema ratio per coloro che non possono essere riabilitati attraverso misure alternative alla detenzione.




Lo spazio e il carcere

Lo spazio, nelle varie accezioni possibili, rappresenta la vera posta in gioco nella genesi della detenzione. Perché, a ben vedere, qualcuno viene arrestato? Perché ha occupato uno spazio diverso da quello che la società gli ha assegnato. Di conseguenza gli viene sottratta una porzione più o meno grande dello spazio originariamente previsto, per compensare la tracimazione precedente.

Questa compensazione avviene storicamente in vari modi, che vanno dalla punizione corporale, a un estremo, fino alla riabilitazione a una funzione sociale positiva attraverso misure alternative alla detenzione, all’estremo opposto. Fra i due estremi si articolano le modalità di erogazione della pena (Cfr. BAUMAN 2011).

Abolizione dello spazio

Dunque, sottrazione di libertà a chi ne ha abusato. Sottrazione totale, tradizionalmente, attraverso la reclusione in un unico spazio – individuale ma più spesso collettivo e non di rado sovraffollato – nel quale esercitare tutte le funzioni vitali, dal dormire al mangiare al trascorrere inoperoso dell’intera giornata, a eccezione dell’“ora d’aria”. Una sottrazione – condita o meno da afflizioni corporali e sempre sostenuta da un intervento educativo di natura religiosa o politica – destinata a fungere da minaccia per il trasgressore, che si presume ne emerga timoroso di replicare il crimine commesso, o anche un altro, per evitare una nuova condanna alla detenzione.

Tutti i presunti o provati colpevoli di reato vengono storicamente sottoposti a questa condizione di privazione e la differenza fra i trattamenti punitivi comminati ai singoli prigionieri risiede soprattutto nella durata della permanenza, piuttosto che nella natura della detenzione. In questa prospettiva il prigioniero deve sottoporsi a una rigenerazione spirituale – della quale l’afflizione corporale può essere strumento – che lo conduce a frequentare, oltreché la cella, un luogo di culto religioso e/o di rieducazione politica.

Questo approccio originario alla pena trova nelle varie forme di segrete – negazione dello spazio già dal nome – la propria espressione fisica più letterale.

Rappresentazione della pena nello spazio urbano e sua successiva espulsione

Il pensiero riformatore, a partire dal XVIII secolo, punta alla produzione di un’attitudine all’obbedienza, affinché il reo torni a svolgere una funzione sociale positiva, ancora attraverso un indottrinamento di natura religiosa o ideologica, da un lato, e l’allenamento a un’attività lavorativa alla quale si è sottratto – per necessità o per virtù – con la scorciatoia criminale, dall’altro (Cfr. BECCARIA 1764)

Ecco allora che la giornata si popola di un impegno produttivo che può essere svolto ‘a domicilio’ all’interno della cella – è il caso, per esempio, di molte lavorazioni artigianali nel campo dell’abbigliamento svolte ancora oggi soprattutto da donne – o entro laboratori/fabbriche appositamente attrezzati negli Istituti penitenziari, o ancora di lavori di pubblica utilità – forzati o anche liberamente scelti – da svolgere all’esterno del carcere sotto la sorveglianza stretta del personale di vigilanza, dai quali molta iconografia della detenzione è stata partorita.

Un approccio ben incarnato dal carcere-fortezza, che diviene minacciosamente emergenza del tessuto urbano sette-ottocentesco. Un’emergenza che comincia a fuoriuscire dal tessuto urbano stesso a partire dalla seconda metà del XIX secolo, quando si afferma la tendenza a espellere tutte le condizioni ‘anomale’ – la malattia, la follia, la devianza – dalla scena di una città borghese in rapida crescita (Cfr. AA.VV., La Nuova Città, n. 1, 1983).

L’architettura degli spazi interni di questi Istituti è dominata dall’obiettivo della visibilità, ovvero dalla possibilità di esercitare un controllo totale, minuto per minuto, sui soggetti ristretti attraverso un approccio che non a caso viene definito panottico (Cfr. BENTHAM, 1983).

Da luogo dell’esclusione a complesso residenziale speciale

Nel corso del XX secolo l’evoluzione democratica è accompagnata dallo sviluppo della volontà di sostituire una pratica puramente afflittiva con un’azione rieducativa mirata a preparare il detenuto a un ritorno alla vita civile come soggetto responsabile. Il carcere, da luogo di occultamento delle attività che si svolgono al proprio interno, tende progressivamente a evolvere nella direzione di un complesso residenziale speciale, rivelandosi alla città, assumendone alcuni caratteri peculiari.

Un percorso volto non soltanto a un’umanizzazione dello spazio abitativo dalla cella alla camera di pernottamento, ma anche a un’articolazione funzionale mirata a proporre al detenuto non più un’esistenza puramente passiva ma, al contrario, un allenamento alla complessità della vita alla quale dovrebbe essere riconsegnato al più presto. Dunque non più contenitore di afflizione passiva, ma insediamento polifunzionale entro il quale riconquistare una responsabilità sociale in tutte le sfere dell’agire quotidiano. Un insediamento all’interno del quale solo le ore notturne dovrebbero trascorrere nella camera di pernottamento, mentre la giornata si dividerebbe fra attività lavorative, formative, sportive, creative e sociali, ritrovando la consapevolezza e l’ambizione alla dignità di cittadino (SCARCELLA 1998: 62-69).

In questo percorso il carcere-fortezza anche nell’immagine evolve in quartiere e la vita al suo interno si modella sempre più su quella che si svolge al di fuori (Cfr. MICHELUCCI 1993).

Dallo spazio agli spazi della pena

Questa evoluzione da luogo dell’esclusione a quartiere della riabilitazione porta dentro di sé come contraddizione la necessità di superfici sempre più ampie da destinare agli Istituti, in presenza di fenomeni di sovraffollamento che, in molti casi, sono già drammatici. Una contraddizione che è stata affrontata nel 2015 dal tavolo 1 degli Stati Generali per l’Esecuzione Penitenziaria, indetti dall’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando, mettendo in discussione il carcere come risposta unica a qualsivoglia forma di trasgressione, facendo emergere l’esigenza di un’articolazione delle misure di esercizio della pena che al carcere assegni soltanto i casi più estremi.

Da questo approccio è scaturita dunque una riflessione su quali reati possano essere sanzionati da un trattamento alternativo a quello penitenziario. Non si tratta di legalizzare comportamenti prima ritenuti trasgressivi, ma di collocare la sanzione di ciascun comportamento trasgressivo all’interno del giusto spazio. Uno spazio che può essere immateriale nel caso, per esempio, di una sanzione riparativa di tipo finanziario; può essere domestico in caso di detenzione domiciliare; può essere comunitario in caso di affidamento ai servizi sociali.

Occorre una riflessione mirata a comprendere quale sia, per esempio, lo spazio adatto a scontare una pena fortemente connessa a condizioni soggettive, dalla tossicodipendenza alla irregolarità della presenza sul territorio - ovviamente per reati di non particolare gravità ˗ per i quali la risposta più efficace non è probabilmente la detenzione negli Istituti penitenziari.

Detenzione e misure alternative

In questa prospettiva, come accennato, la detenzione non figura più come strumento principe ma come extrema ratio nella gestione della pena e di conseguenza l’offerta di misure alternative – dagli arresti domiciliari agli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, dalle case-famiglia protette all’affidamento ai servizi sociali – è destinata a essere ampliata e diversificata (LEONARDI 2007: 7-26).

Emerge inoltre la necessità di distinguere in maniera netta, anche all’interno dello stesso Istituto, gli spazi destinati rispettivamente ai soggetti condannati, a quelli in attesa di giudizio, oppure a quelli in regime di custodia attenuata, oppure ancora a quelli in condizioni di semi-libertà. Senza escludere momenti programmati di interazione, è importante che ciascuna delle categorie nelle quali si articola la comunità carceraria presenti un alto grado di autonomia rispetto alle altre.

Per quanto riguarda specificamente i detenuti in semi-libertà o interessati da misure alternative, è evidente come luoghi di residenza esterni al carcere – e meglio inseriti nei contesti urbani ˗ siano quanto mai preferibili. In quest’ottica anche un riuso di vecchi Istituti dismessi quali luoghi di abitazione per coloro che più si trovano prossimi al confine fra reclusione e libertà – definendone attentamente i requisiti spaziali – appare senz’altro auspicabile. Si tratta di strutture-cerniera particolarmente auspicabili, per ridurre il trauma che necessariamente si accompagna al ‘salto’ dalla detenzione alla libertà.

All’interno di questo approccio ben si colloca un possibile rilancio delle colonie agricole penali, tanto in Sardegna ove sono più numerose, quanto in altre isole – la Gorgona in primis – come modelli complessi di rieducazione e reinserimento in ambiti che non presentano caratteristiche indiscutibilmente carcerarie.

Progettazione partecipata della riqualificazione degli spazi della pena

Fondamentale nell’affrontare in termini architettonici e gestionali i bisogni dell’utenza (detenuti, personale di custodia, operatori penitenziari e visitatori) si è rivelato l’ascolto. È ormai assodato, infatti, che la riqualificazione dei luoghi in tanto è efficace in quanto contribuisce a ingenerare nei loro utenti una sensazione di appartenenza. A questo fine la loro partecipazione tanto alla progettazione quanto alla realizzazione è fondamentale.

Per conseguire questo risultato sono state attivate esperienze-pilota di progettazione partecipata, gestite congiuntamente da operatori sociali e architetti, alle quali hanno preso parte attiva tanto la Direzione, quanto gli agenti della Polizia Penitenziaria, quanto ancora i detenuti e le loro famiglie. Tali esperienze mirano a stimolare l’immaginazione delle trasformazioni, ai vari livelli, e la sua rappresentazione verbale e grafica. Gli architetti, a stretto contatto con gli operatori sociali, hanno poi il compito di tradurre in elaborati grafici gli esiti del processo partecipativo, proponendoli nuovamente ai partecipanti per una verifica dell’autenticità dell’interpretazione che hanno dato.

Nell’attivazione di queste esperienza possono essere coinvolti tanto gli Ordini degli Architetti, quanto le Facoltà di Architettura presenti nelle singole realtà territoriali interessate dalla presenza dei singoli Istituti.

Il Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano a Firenze, emerso da un percorso di progettazione partecipata guidato da Giovanni Michelucci, costituisce certamente il risultato più avanzato, oltreché noto, scaturito da tali tentativi.

Realizzazione partecipata della riqualificazione

Anche nella realizzazione dei progetti può essere promosso un coinvolgimento diretto dei protagonisti della realtà penitenziaria, stimolando la collaborazione delle associazioni imprenditoriali tanto per la fornitura dei materiali necessari, quanto per la disponibilità al coinvolgimento degli utenti finali – i detenuti ˗ nei lavori affidati alle imprese. Questo percorso, oltre a far sentire i detenuti protagonisti nella configurazione del loro ambiente di vita, può avviare una dinamica di collaborazione fra detenuti e imprese, che potrebbe poi auspicabilmente prolungarsi fuori del carcere, una volta finita di scontare la pena.

In tale percorso può risultare utile un coinvolgimento delle scuole di formazione edile, gestite pariteticamente dalle Organizzazioni sindacali e dall’ Associazione dei costruttori edili, diffuse capillarmente a livello provinciale su tutto il territorio nazionale.

Tale coinvolgimento, limitatamente alla manutenzione ordinaria, può riguardare anche i “lavori in economia” gestiti direttamente dagli Istituti, cercando di unificare sul piano metodologico i molti piccoli interventi attualmente in corso e in programma.

Dall’omogeneità del trattamento alla diversificazione delle soluzioni detentive

L’orientamento delineato può essere attuato attraverso la specializzazione dei singoli Istituti e la creazione di circuiti fra quelli omogenei, cui ha teso per un lungo periodo politica penitenziaria italiana. Oppure, come spesso si registra nelle esperienze internazionali più avanzate, attraverso una compresenza – pur rigorosamente compartimentata – fra le diverse componenti dell’universo detentivo, come avviene per esempio in Spagna.

In linea generale, come si è ricordato, appare ragionevole un percorso teso a trasformare alcune strutture più piccole e più interne ai tessuti urbani in una sorta di cerniere fra i mondi della reclusione e della libertà, destinandole dunque ai livelli più attenuati di custodia, in eventuale sinergia con altre funzioni urbane.

Altrettanto ragionevole, anche per ragioni economiche, appare una politica mirata a ospitare i detenuti sottoposti a un controllo più serrato in complessi di dimensioni maggiori.

Dalla cella alla comunità responsabile…

In tutti i casi, l’obiettivo cui tendere con determinazione è quello di un allargamento generale delle attività collettive – lavoro, formazione, laboratori artigianali, sport ˗ e della conseguente permanenza dei detenuti al di fuori delle camere di pernottamento per un minimo di otto ore quotidiane. Un obiettivo destinato ad accompagnare un’evoluzione epocale degli Istituti Penitenziari da contenitori di celle di reclusione a organismi residenziali complessi, all’interno dei quali ai reclusi vengano garantiti tutti i diritti meno, evidentemente, quello relativo alla completa libertà di movimento all’esterno.

Si tratterebbe di un cambiamento di portata storica, che imporrebbe un ripensamento radicale degli Istituti, a partire dalla cellula residenziale, fino ad arrivare a un nuovo rapporto con il contesto urbano e territoriale.

Un obiettivo che parte, alla scala minima, da una distinzione netta fra camera di pernottamento e servizio igienico, che in troppe strutture non è stata ancora raggiunta; ma comporta soprattutto una riorganizzazione – e in molti casi l’introduzione ex-novo ˗ degli spazi d’uso collettivo, per renderli idonei ad accogliere soggiorni e mense, nonché cucine autogestite e spazi per il lavoro, lo studio, la cultura, la socialità e le attività sportive.

Questa trasformazione radicale della quotidianità carceraria comprenderebbe anche l’impegno al lavoro ‘domestico’, ovvero alla manutenzione autogestita della struttura, e rivelerebbe rapidamente la necessità di poter disporre di più ampi spazi di relazione, al chiuso e all’aperto. Una necessità cui non dare una risposta puramente tecnico-quantitativa – com’è stato con l’ipotesi di introduzione di moduli prefabbricati ipotizzata in un primo momento – ma fortemente architettonica e capace di rappresentare davvero il processo di trasformazione di una sommatoria di detenuti isolati in comunità responsabile, che come tale si fa carico anche del processo di trasformazione e manutenzione del proprio luogo di residenza (Cfr. CECCHI, DI ROSA, EPIPENDIO 2015).

Dalla cella collettiva al gruppo-appartamento…

Riguardo allo spazio residenziale da riservare a ciascun detenuto, molto si è elaborato negli anni ’60-’70, quando si è manifestata una forte reazione alla totale mancanza di privacy presente negli Istituti del tempo. A quello stato di forte disagio si reagì con la proposta di destinare una cella individuale con servizio igienico a ciascun detenuto, che caratterizzò la stagione felice degli Istituti realizzati in quegli anni e che venne poi ospitata nel Regolamento Penitenziario del 1975.

A partire dagli anni ’80 quell’innovazione è stata messa in discussione, soprattutto in considerazione dell’“emergenza carceri” che cominciava a manifestarsi, ma anche a seguito della rilevazione che l’individuo, confinato per l’intera giornata in un ambiente a lui esclusivamente riservato, cade facilmente in depressione.

Per rispondere a questo problema è stata dunque avanzata nuovamente una soluzione di cella a due posti, che però dava luogo frequentemente a un antagonismo fra i due soggetti interessati. Allora si è fatto ricorso nuovamente al “camerotto” – cella a tre posti – con l’obiettivo di moltiplicare la capienza degli Istituti, certamente, ma anche di creare una dinamica interpersonale più complessa e variabile. Questa soluzione è largamente prevalente negli Istituti realizzati nel nuovo millennio e non sono rari i casi di ‘densificazione’ ancora maggiore.

Si tratta di un tema decisivo sul quale è necessario cercare di fare chiarezza, anche in considerazione del fatto che il ritorno alla cella collettiva viene giustificato con l’argomento che la quotidianità dei detenuti si svolge – e sempre più si svolgerà – fuori dalle celle e dunque queste ultime sono chiamate a rispondere alla mera funzione fisiologica del sonno, senza alcun criterio di qualità.

È un’argomentazione alla quale si può controbattere che proprio perché, per fortuna, il privilegiare le attività collettive offre ai detenuti una giornata attiva da dividere fra lavoro, formazione, sport, cultura e socialità, è necessario che ciascuno possa godere la sera di un momento di privacy nel quale essere a contatto con sé stesso, nella camera di pernottamento individuale con un servizio igienico di pertinenza, come prescrive la norma.

Fermo restando questo assunto, è necessario altresì mettere a punto un metodo di aggregazione di questi spazi individuali negli edifici. La risposta tradizionale – che ha interessato le carceri come le caserme come i collegi ˗ consiste nell’allineare un certo numero di celle – orientativamente 25 – lungo i due lati di un corridoio a formare un braccio (sezione).

Ebbene, nella nuova ottica mirata a fare della detenzione soprattutto una preparazione al reinserimento nella vita civile – simulandone in qualche modo la complessità e i vari momenti ˗ è da valutare l’opportunità di introdurre una tipologia residenziale ‘di tipo familiare’ mirata a riprodurre, pur in forma non letterale, quella che nella vita esterna al carcere si realizza fra esistenza individuale e socialità allargata.

Va in questa direzione la proposta di un gruppo-appartamento, largamente adottata nelle esperienze più avanzate all’estero, che punta a dar vita a unità residenziali di dimensioni contenute – 6-8 detenuti – capace di offrire, accanto agli spazi individuali già menzionati, spazi sociali e di servizio (soggiorno, cucina, dispensa-lavanderia). Tali ambienti sono destinati a svolgere una funzione rieducativa attraverso lo sviluppo della capacità di autogestione della propria esistenza in una forma non troppo diversa da quella che si presenterà nella vita all’esterno del carcere.

Si tratta, in sintesi, di passare da una cella monofunzionale passivizzante a una unità-base residenziale complessa mirata alla responsabilizzazione del detenuto relativamente alla gestione quotidiana dell’alloggio. Una unità-base alla quale accedere non attraverso lunghi corridoi spersonalizzanti, ma direttamente dai corpi di comunicazione verticale (scala-ascensore), analogamente a quanto accade in qualsiasi condominio residenziale.

Un approccio analogo può essere riservato alla configurazione generale dei nuovi Istituti, con l’obiettivo di passare dalla semplice sommatoria di edifici monofunzionali separati alla prefigurazione di una sorta di organismo urbano che, almeno secondo la tradizione europea, è caratterizzato dalla compresenza diffusa di più funzioni e dalla creazione di un tessuto edilizio compatto.

A questo risultato si può tendere in primo luogo con l’evitare di attribuire una sola e unica funzione alle parti edilizie – compresenza nello stesso volume su più livelli di residenza, lavoro, formazione, socialità e attività fisica – per cercare di tendere al mix funzionale che caratterizza gli aggregati urbani.

Analogamente si può tendere poi al ‘montaggio’ di questi moduli polifunzionali a formare una sorta di isolati urbani, serviti da strade, che circoscrivono ampi spazi collettivi – grandi ‘corti’ ˗ destinati alla socialità e alle attività sociali, ricreative e sportive. Una sorta di tessuto urbano, per l’appunto, dove alla tradizionale giustapposizione di edifici e “cortili di passeggio” si sostituisce un’architettura urbana scandita da un’alternanza dinamica di pieni e di vuoti.

Naturalmente è necessario evitare qualunque forma di monotona uniformità dell’insediamento, differenziando architettonicamente tanto le parti nelle quali ciascuno degli isolati si articola, quanto ciascun isolato dall’altro, non soltanto nella scelta dei colori e dei dettagli ma anche, ove possibile, nelle forme e nelle dimensioni.

… in stretta relazione con i familiari…

La comunità responsabile cui si punta non può non essere caratterizzata da un rapporto più ricco con il mondo esterno, a cominciare dal nucleo familiare. L’eliminazione di ogni forma di barriera fisica fra i detenuti e i loro parenti in occasione degli incontri ha costituito certamente un passo avanti importante. Ora bisogna puntare a creare degli spazi di incontro capaci di ridurre la distanza fra chi è dentro e chi è fuori che inevitabilmente viene creata dall’ambiente detentivo, cercando di avanzare sul solco tracciato dal Giardino degli Incontri che Giovanni Michelucci ha modellato in collaborazione con i detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano.

Oggi la maggior parte delle sale-incontro non ha alcuna caratterizzazione spaziale ed è generalmente occupata da una serie di tavolini attorno a ciascuno dei quali si raccoglie un nucleo familiare. Ne deriva un ambiente rumoroso, talora un po’ decongestionato dalla presenza di una ludoteca più o meno prossima destinata ai bambini.

Senza voler eliminare il carattere collettivo che è proprio a un luogo di incontri, sembra urgente definirne meglio la natura per quanto riguarda collocazione e funzioni. Prendendo le mosse dall’esperienza fiorentina, dunque, è importante anzitutto che questo ambiente sia facilmente accessibile dall’ingresso dell’Istituto, senza costringere a lunghi percorso interni per raggiungerlo.

È altresì importante che sia un ambiente aperto attrezzato, nel quale le famiglie riunite possano consumare un pasto non necessariamente nella forma del pic-nic forzato, dotato di uno spazio verde esterno di pertinenza da sfruttare nei mesi della lunga, bella stagione che caratterizza gran parte del nostro paese.

È poi importante che, accanto all’esperienza dell’open space collettivo, offra a chi lo desidera un ambiente più riservato nel quale possa aver luogo un dialogo più intimo, con una sorta di ‘separé’ da posizionare lungo il perimetro.

È importante infine che lo spazio-incontri così articolato sia collegato, possibilmente ai livelli superiori, con dei mini-alloggi all’interno dei quali l’atmosfera familiare possa essere riprodotta integralmente, pur in un intervallo di tempo limitato, anche nell’esercizio dell’affettività e della sessualità. Si tratta di una misura destinata a interessare in primo luogo la popolazione sottoposta a una detenzione più rigida e di più lungo periodo, potendosi in tutti gli altri casi estendere i permessi di uscita per ragioni lavorative anche alla sfera degli affetti familiari.

… e con il mondo esterno…

Questa sorta di quartiere urbano che gli Stati Generali dell’Esecuzione Penitenziaria hanno cercato di delineare per i nuovi Istituti ˗ ma per quanto possibile anche per quelli esistenti attraverso operazioni di ristrutturazione e ampliamento – deve evidentemente stabilire un rapporto diverso con il proprio intorno capace di far avvertire il carcere, dall’interno e dall’esterno, come appartenente alla società circostante. Da questo punto di vista la realizzazione di Istituti di dimensioni molto ampie ˗ e con ubicazioni conseguentemente molto decentrate ˗ va considerata eccezionale. Anche in virtù di un ricorso sempre più ampio a misure alternative all’incremento della popolazione carceraria, appare assai più consigliabile, ove necessaria, la realizzazione di Istituti di dimensioni contenute da collocare in continuità con il tessuto urbano preesistente.

In quest’ottica è necessario superare la tipologia della recinzione dell’area detentiva con un muro alto e impenetrabile, chiamato a nascondere una realtà negativa che si vuole sottrarre allo sguardo dei cittadini. Conseguendo anche risparmi non irrilevanti, negli Istituti di nuova costruzione la barriera di recinzione può essere sostituita da un perimetro abitato che ospiti tutte le funzioni non strettamente residenziali del carcere e che, nei punti di eventuale discontinuità, presenti un confine trasparente mirato a un’osmosi visiva sempre maggiore con la città e il territorio circostanti.

Ecco che, per questa via, il brano di città ˗ nel quale si auspica che un nuovo Istituto (e, nella misura del possibile, anche quelli preesistenti) debba incarnarsi ˗ verrebbe ad affacciarsi all’esterno non nella forma della fortezza impenetrabile, ma in quella di una sorta di nuovo quartiere urbano in rapporto dialettico con il proprio intorno, anche attraverso la collocazione nelle immediate adiacenze del perimetro carcerario di funzioni collettive chiamate a svolgere un ruolo di cerniera fra i due mondi, mirato a ridurre l’odierno carattere di minaccioso isolamento.

È dunque necessario conferire nuova fisionomia civica all’edificio carcerario, a partire dall’ingresso e più in generale dal perimetro esterno ˗ a prescindere dalla sua collocazione urbana, periurbana, rurale ˗ tale da configurarlo come espressione architettonica della sua funzione riabilitativa/risocializzativa, adeguatamente inserito nel contesto di appartenenza, alla stregua di qualsiasi altro edificio di pubblica utilità.

Dunque un organismo complesso, attraversato da flussi in uscita – per recarsi al lavoro o anche casa per un tempo limitato – ma anche in entrata,grazie a una presenza progressivamente più intensa della città nel carcere, non soltanto con l’esposizione alla cittadinanza di quanto si va facendo all’interno – spettacoli teatrali organizzati da compagnie di detenuti, mostre di prodotti artigianali e artistici modellati nei laboratori, ma anche attraverso l’uso degli spazi interni collettivi come altrettanti luoghi di cultura della collettività urbana. L’apertura di ristoranti aperti al pubblico all’interno di alcuni Istituti, in questo senso, sembra aprire la strada a una prospettiva di porosità sempre maggiore delle carceri italiane.

… che si reimpossesserà progressivamente di questo “corpo separato”

Una porosità che in un primo tempo dovrebbe lasciar trapelare, anche negli Istituti esistenti, la società aperta all’interno di una comunità murata. Ma in un secondo tempo, nella prospettiva di una riduzione progressiva del numero dei detenuti, grazie al un ricorso sempre maggiore alle misure alternative, potrebbe liberare spazi attualmente occupati dalle attività detentive. Tali spazi potrebbero essere utilizzati per arricchire il patrimonio di attività mirate alla rieducazione ma, quando auspicabilmente gli spazi divenissero eccedenti le necessità interne, potrebbero svilupparsi in veri e propri avamposti di una società mirata a reimpossessarsi progressivamente degli spazi della pena, trasformando l’”istituzione totale” separata in attrezzatura urbana polivalente (Cfr. BROSSAT 2003).

Controtendenze in atto

La prospettiva delineata dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale solo alcuni anni orsono appare purtroppo distante anni luce dalla realtà attuale, fortemente improntata dalla sensazione di una minaccia incombente sulla quotidianità a causa di un presunto aumento dell’immigrazione clandestina e della criminalità. Non è questa la sede per precisare quanto tale sensazione corrisponda al vero o non sia invece strumentalmente amplificata per finalità politiche (Cfr. MANCONI, TORRENTE 2015).

Inevitabilmente, come sempre, l’umore generale ha un riflesso immediato sull’atteggiamento nei confronti della devianza, che non a caso registra una brusca inversione di tendenza di tipo colpevolistico rispetto al precedente orientamento più mirato alla riabilitazione. Un’inversione che non risparmia evidentemente la condizione detentiva, come dimostra la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, approvata nel novembre 2018 sulla scorta del lavoro svolto nell’anno precedente da una Commissione appositamente incaricata. Ciò che salta immediatamente agli occhi, infatti, è la drastica riduzione del ruolo delle misure alternative alla detenzione che, come ricordato sopra, sono la chiave di volta di un approccio realmente innovativo.

Bibliografia

AA.VV., La Nuova Città, Carcere e città, n. 1, 1983.
ABRUZZESE, A., et al., Communitas, La rappresentazione della pena. Il carcere invisibile e i corpi segregati, n. 7, 2006.
ANASTASIA, S., CORLEONE, F., ZEVI, L., (a cura di), Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Roma, Ediesse, 2011.
BAUMAN, Z., Vite di scarto, Bari-Roma, Laterza , 2005.
BECCARIA, G., Dei delitti e delle pene, Torino, Einaudi, 2007 (Prima ed.: 1764).
BENTHAM, J., Panopticon ovvero la casa di ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Venezia, Marsilio, 1983.
BROSSAT, A., Scarcerare la società, Milano, Elèuthera,, 2003.
BUFFA,P., Umanizzare il carcere - diritto, resistenze, contraddizioni ed opportunità di un percorso finalizzato alla restituzione della dignità ai detenuti, Roma, Robuffo, 2015.
CECCHI, S., DI ROSA, G., EPIDENDIO, T.E., Partire dalla pena. Il tramonto del carcere, Macerata, Liberilibri, 2015.
DE ROSSI, D.A., (a cura di), L’universo della detenzione. Storia,architettura e norme dei modelli penitenziari, Milano, Mursia, 2011.
DE VITO, C., Camosci e gira chiavi. Storia del carcere in Italia, Bari-Roma, Laterza, 2009.
FOUCAULT, M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975.
LENCI, S., Tipologie dell’edilizia carceraria, in M. Cappelletto e A. Lombroso (a cura di), Carcere e società, Padova, Marsilio, 1976.
LEONARDI, F., Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, in Rassegna penitenziaria e criminologica, a. 11, n. 2, pp. 7-26; Disponibile online.
MANCONI, L., TORRENTE, G., La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana, Roma, Carocci, 2015.
MANCONI, L., Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Milano, Chiare Lettere, 2015.
MICHELUCCI, G., Un fossile chiamato carcere. Scritti sul carcere, a cura di C. Marcetti e N. Solimano, Firenze, Pontecorboli, 1993.
RESTA, E., La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Roma-Bari, Laterza 1992.
SANTANGELO, In prigione. Architettura e tempo della detenzione, Siracusa, Letteraventidue, 2017.
SCARCELLA, L., DI CROCE, D., Gli spazi della pena nei modelli architettonici del carcere in Italia, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2001.
SCARCELLA, L., Le mille prigioni, in La nuova città, nn. 2-3, 1998, pp. 62-69.
SIMON, J., Il governo della paura, Milano, Raffaello Cortina, 2008.
VIRILIO, P., Città panico, Milano, Raffaello Cortina, 2004.

zevi 1

Figura 1

***

zevi 2

Figura 2

***

zevi 3

Figura 3

***

zevi 4

Figura 4

***

zevi 5

Figura 5

***

zevi 6

Figura 6

***

zevi 7

Figura 7

***

zevi 8

Figura 8

***

zevi 9

Figura 9

***

zevi 10

Figura 10


 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482