Publifarum n° 32 - Da dietro le sbarre: arte, letteratura e carcere dall'Ottocento a oggi

Carcere, popolo e punizione nella šanson russa e nei neomelodici napoletani

Duccio COLOMBO


Abstract

Italiano  | Inglese 

Il genere musicale conosciuto in Russia come Šanson, una rielaborazione commerciale del folklore criminale, colpisce per la somiglianza con la canzone neomelodica napoletana, che nei testi fa spesso riferimento al mondo criminale. Questo rapporto, che in Italia è oggetto di “panico morale”, è però meno stigmatizzato in Russia, dove è forte il ricordo del contatto tra intellettuali e criminali nei lager negli anni delle grandi purghe. Una spiegazione della popolarità della canzone criminale in Russia come nell’Italia meridionale può essere ricercata nell’analisi di Michel Foucault sul passaggio dal modello punitivo a quello disciplinare, quando scompaiono le biografie criminali (che avevano spesso la forma di ballate): questo significherebbe che le società in oggetto vivono in una fase premoderna – o dobbiamo forse considerarla postmoderna?



Nella sua indagine sul rapporto, a suo parere organico, tra camorra e cantanti neomelodici, il giornalista Davide Scanzone avverte che non si tratta di un caso unico:

Con le dovute distanze storiche, sociologiche e culturali, fenomeni simili alla sceneggiata e ai neomelodici sono riscontrabili in Calabria, con i canti della ‘ndrangheta, così come il raï in Algeria, il reggae in Giamaica, la Cumbia Villera a Buenos Aires, il gangsta rap negli Stati Uniti e il corrido in Messico (SCANZONE 2014: 89).

La lista potrebbe continuare, includendo, ad esempio, il “turbofolk” serbo; un accostamento particolarmente promettente è quello con il genere detto, nella Russia contemporanea – con un addomesticamento evidente della voce francese –šanson: la varietà di musica di consumo oggi massimamente diffusa nel paese, che può essere descritta come una variante pop del classico folklore di malavita (vedi KOUTCHERA BOSI 2004: 19-20 e, per una rassegna bibliografica, l’imponente apparato di note in GARDZONIO 2010). La somiglianza con la produzione neomelodica napoletana è tale che chi ne ascoltasse i prodotti senza riconoscere la lingua potrebbe facilmente confonderli; e, in alcuni casi, anche i testi mostrano somiglianze rilevanti.

È questo il caso innanzitutto delle canzoni di carcere: cantano i Belomorkanal1 di Spartak Arutjunjan:

Le “Croci” di Pietroburgo nelle notti bianche di nebbia,
Quanti prigionieri sono passati accanto ai leoni impietriti:
Dai forzati indomiti che fanno risuonare le catene
Agli zingari derelitti che alla sera cantano canzoni.

Nella cella fredda delle “Croci” l’anima si tormenta senza te,
Sono già spenti i lampioni, dorme anche la notte, io non riesco;
I tuoi occhi nella tenebra mi bruciano di tristezza e angoscia,
Io e te siamo condannati dal destino ad essere divisi...2

Canta Gianni Vezzosi:

Ca rint penz o tiemp senz e figlj mij,
E na muglier ca nun sap c’aggia fa.
Carimm inziem quand me vien a truvà
Ca rint e figlj mij non me li a mai purtà.

Te guard n’facc e dico amò cerc e mangià,
Te vec assai sciupat ma si semp bell;
Nu vas en front fa capì quant io te voj,
Rint a nabbracc dico dai ce la farò.3

Canta Michail Krug:

Sotto la finestra del recluso spunta un bucaneve,
eppure la mia primavera è breve.
Ma sono contento che qui c’è questa piccola festa,
ho bisogno del tuo amore onesto.

Centrale di Vladimir, il vento del nord,
la tradotta è partita da Tver’, e come un martello
batte nel cuore il pesante fardello (KOUTCHERA BOSI 2004: 239).4

E la serie degli esempi potrebbe continuare molto a lungo. La somiglianza non si limita, però, alla dimensione tematica (di per sé non particolarmente originale; ma la ripresa della tradizione sovranazionale del folklore carcerario da parte dell’industria della musica di consumo in contesti tanto differenti è degna di nota) ed alla banalità della musica: pare poter cogliere un’affinità più profonda (se pure forse non esclusiva) nella particolare commistione tra i ritmi sintetici della dance music degli ultimi decenni ed elementi stilistici più datati – spesso a livello della melodia e quasi sempre nell’impostazione vocale. E, forse, nella dimensione linguistica: la šansonrussa è identificata prima di tutto dall’utilizzo della fenja, il gergo criminale, ormai molto conosciuto, diffuso ben al di là degli ambienti della malavita, ma pur sempre fortemente marcato; per quanto riguarda i neomelodici, definire il napoletano semplicemente come la lingua degli interpreti e del loro pubblico potrebbe essere un errore. Il sopra citato Gianni Vezzosi, per esempio, è catanese; la musica neomelodica ha una diffusione senz’altro superiore a quella del napoletano, arrivando a coprire quasi interamente (in determinati ambenti sociali) l’Italia meridionale. Gian Mauro Costa, cronista palermitano e autore di romanzi gialli per la Sellerio, in uno di questi, ambientato appunto tra i neomelodici, dà una definizione particolarmente arguta della “venerazione borbonica dei quartieri popolari di Palermo per la musica partenopea”:

E il bello è che questi cantanti tutti passione e disperazione erano in maggioranza figli di santa Rosalia, palermitani purosangue allevati sin dalla nascita alla conoscenza della lingua straniera napoletana con lo stesso sussiego con il quale i rampolli dell’aristocrazia erano costretti prima all’apprendimento del francese e poi a quello, più borghese, della lingua anglosassone.
“Fatti un futuro, parla napoletano”, dicevano ai ragazzini. E si trattava davvero di giocarsi il futuro e un posto di lavoro decisamente più accattivante e redditizio di altri: il mercato prima delle audiocassette e poi dei cd autoprodotti di musica napoletana faceva ruotare a Palermo cifre tali da suscitare l’interesse di un trafficante di droga (COSTA 2012: 32-33).

Il napoletano, insomma, potrebbe funzionare come lingua altra, con un ruolo simile a quello del gergo criminale nella šanson; nel 2006 Giuliano Amato, allora ministro degli interni, in un intervento a Napoli, ebbe a dire

Ci sono anche i neomelodici tra le espressioni della pervasività della cultura camorrista. Una cultura che cerca comunque di fare del camorrista un eroe e del carcerato un personaggio positivo mentre chi lo denuncia è un infame. […] Il piano contro la camorra avrà successo solo se faremo vedere che “‘a nuttata” non passa per i camorristi. E, se vinceremo, i neomelodici dovranno cantare altre canzoni (LUCARELLI-SANNINO 2006).

Alla frase sulle «altre canzoni» Amato, secondo alcune fonti, avrebbe aggiunto:«o, se esisteranno ancora, non canteranno in napoletano» (PLASTINO 2014); se la frase è autentica è un argomento potente a favore della tesi sul napoletano lingua altra e, dunque, della bontà del parallelo Napoli-Russia.

L’esperienza carceraria è solo uno dei temi delle canzoni neomelodiche; nella šanson russa, al contrario, è un elemento caratterizzante, che riguarda per esempio i nomi dei gruppi – i già citati Belomorkanal, come i Butyrka, che riprendono il nome da quello di un carcere moscovita, o i Lesopoval – “impresa di sfruttamento forestale”, una delle attività più praticate nei campi di lavoro siberiani. Vantare un’esperienza carceraria è quasi d’obbligo nell’autocostruzione dell’identità da parte della voce narrante delle canzoni: un esempio particolarmente efficace è in un’altra canzone dei Belo morkanal che ha per tema la demolizione umoristica della pretesa identità criminale di un vanaglorioso. Per tentare una traduzione diretta dal gergo all’italiano: «Non è il caso di darti delle arie / Finché non l’hai fatta nel bugliolo della cella. / Tre giorni alla polizia / Non sono ancora un viaggio in Siberia / Calma le arie, fesso».5 Ma la rivendicazione dell’identità è anche parte della costruzione del personaggio dell’interprete. Esemplare il caso di Katja Ogonëk; la sua storia è stata presentata così:

Katja Ogonjòk ha vissuto l’esperienza della prigionia sulla propria pelle. Ha una voce calda, sensuale, e deve la propria notorietà all’interpretazione di molte canzoni del cantautore Vjačeslàv Klimenkòv. La registrazione dell’album “Tajgà bianca” è stata effettuata in uno studio mobile all’interno del campo penale a regime rigido della città “chiusa” Leninsk-13, in Siberia. Il 6 novembre 1998 Katja Ogonjok è stata liberata anticipatamente dopo aver scontato due anni, nove mesi e diciassette giorni. Prima della detenzione (non è dato sapere per quale reato) aveva intrapreso la carriera di cantante pop senza aver avuto molto successo. Allora si chiamava Cristina Požarskaja.
Katja Ogonjok (“fiammella”) è uno pseudonimo, nel gergo della mala “ogonjok” vuol dire “bisca”, ma anche “pistola” e “accendino” (KOUTHCERA BOSI 2004:22).

Schema che ripercorre perfettamente quello dell’affiliazione alla setta dei “Ladri nella legge”, la prima società segreta della criminalità russa, come ricostruito da uno dei maggiori indagatori del fenomeno:

A nickname (klichka) was formally given in the course of the initiation ritual. The name the vor acquired at the ritual arguably was quite distinct from an ordinary nickname. It marked the new life the criminal was about to enter. Thus, following a practice common in other secret societies and religious orders (such as the Catholic Church), nicknaming amounted for the vory to a rechristening... (VARESE 2005: 150).

Questo rituale era svolto obbligatoriamente nei lager, che per i membri della società erano luogo di elezione:

A vor might spend many years of his life in prison.
‘To them, prison is their native home,’ writes Solzhenitsyn. The length of time spent in prison was a source of prestige and a sign of distinction among the criminals who aspired to become vory (Ibid.: 156).

Significativo il fatto che questi elementi assurgono pienamente al livello di mitologia popolare proprio nel momento in cui, come scrive lo stesso Varese, perdono di significato nel loro ambiente d’origine – a partire dagli anni Novanta il titolo di vor, di “ladro nella legge”, può essere semplicemente comprato (vedi VARESE 2005: 167-169). Allo stesso modo, la storia di Katja Ogonëk non è altro che un’invenzione della casa discografica (che oggi lo ammette tranquillamente sul suo sito6), che per lanciare la nuova interprete,o meglio per rilanciare un’interprete che sotto altro nome aveva avuto scarso successo, costruisce – con ottimi risultati dal punto di vista commerciale – un personaggio con una storia di detenzione.

Niente di simile sul fronte neomelodico; o meglio, quasi niente. Nel 2011 un neomelodico napoletano è finito nelle intercettazioni dell’operazione di polizia contro la famiglia mafiosa palermitana di Porta Nuova:

“Fallo tornare a Napoli, perché è un carabiniere... Tu non devi fare niente, se ne deve andare a Napoli e non lo devi chiamare [...]. Gli dici: senti, tu qui a Palermo non puoi cantare più, non con me! Gli dici: no! Non se lo prende più nessuno e ce lo puoi andare a dire”.

Il peccato imperdonabile commesso da Vittorio Ricciardi era stato rifiutare, in un concerto a Palermo, il rituale saluto “agli ospiti dello stato”: «Cioè se il carcerato è messo davanti la televisione... Qualsiasi carcerato si mette là e aspetta il saluto. Gli viene il cuore perché si sentono realizzati, si sentono pensati».7 La cura per i carcerati, il debito verso di loro è senza dubbio parte importante dell’autopercezione della mafia, dell’autogiustificazione delle proprie attività.

Resta il fatto – e l’intervento di Amato che citavamo sopra ne è un esempio tra i tanti – che il “panico morale” è la tonalità di base con cui in Italia si discute di questi fenomeni, anzi, l’unico punto di vista che li porta, periodicamente, alla ribalta nazionale. Se in Russia la situazione è diversa – e gli interpreti di šanson, che certo non sono particolarmente considerati negli ambienti intellettuali, godono spesso dei riflettori della televisione nazionale8 – questo dipende, con tutta probabilità, dall’antica popolarità di cui gode in quel paese la canzone di malavita.

Il momento chiave è da collocarsi alla metà degli anni Cinquanta, quando l’amnistia decretata in occasione della morte di Stalin e l’ondata di revisioni dei processi successiva al XX congresso riportarono nella Russia europea milioni di persone che erano entrate in contatto con gli ambienti e la sottocultura criminale nel GULag. Nel 1958 Evgenij Evtušenko scriveva una poesia che inizia con “L’intellighenzia canta canzoni di malavita”: «Cantano, come se si fossero messi d’accordo / o come se fossero tutti criminali» (EVTUŠENKO 1987: 193), contrapponendovi la propria preferenza per i vecchi canti rivoluzionari. Dall’interpretazione di folklore di malavita prende l’avvio la straordinaria carriera di Vladimir Vysockij, che attraverso la composizione di proprie canzoni del genere arriverà alla canzone d’autore. L’atteggiamento di tutta una generazione verso questo tipo di canzoni trova la sua migliore espressione in un saggio di Andrej Sinjavskij di una ventina d’anni più tardi. Il titolo è di per sé eloquente: Patria. Canzone di malavita.

Quello che rende importante la canzone di malavita è il fatto che contiene un’impronta dell’anima del popolo (e non solo della fisionomia del ladro), e in questa qualità,in una quantità di esempi, può pretendere al titolo di canzone nazionale russa, rivelando – perfino a questo livello misero e sospetto – il meraviglioso che nella vita è nascosto ai nostri occhi.[…] Glorioso e grande è il popolo i cui malfattori cantano canzoni del genere. Ma come dev’essere sconvolto e derelitto, se è ai ladri ed ai briganti che è dato di comporre questa canzone comune in modo più completo e migliore che ad ogni altro strato sociale (SINJAVSKIJ 2003: 266).

Sinjavskij, inserendosi in una tradizione che risale per lo meno al Dostoevskij delle Memorie della casa morta, interpreta l’esperienza concentrazionaria come l’occasione di incontro con il popolo russo, entità mitizzata da cui l’intellettuale occidentalizzato avvertiva tormentosamente il distacco. Non a caso, il libro in cui racconta in modo più diretto la propria esperienza del lager si intitola Una voce dal coro:

…Mi incontravo finalmente col mio popolo ed era un incontro che, per estensione e intimità, mai avevo sperimentato né era pensabile in circostanze meno eccezionali di quelle. Ed è questo popolo che ho cercato di rendere, in Una voce dal coro, con un coro di voci: perché di sé parlasse esso stesso, mentre io me ne restavo in disparte (TERC 1982: 9).

Questo tipo di atteggiamento (non nell’espressione di Sinjavskij, che è successiva, ma in tutta la tradizione che questi prosegue) è criticato radicalmente tanto da Varlam Šalamov che da Solženicyn nell’Arcipelago GULag: i criminali comuni, nel gulag, sono quelli che, con la tolleranza se non l’appoggio dell’amministrazione dei lager, tiranneggiano, sfruttano, derubano e uccidono i detenuti politici – e detenuto politico, negli anni staliniani, poteva essere praticamente chiunque, tanto che è piuttosto la categoria dei condannati per “l’articolo 58” (attività controrivoluzionaria) legittimata a pretendere al titolo di popolo.

Entrambi i classici della letteratura concentrazionaria muovono da una critica alla tradizionale immagine romantica del bandito diffusa nella letteratura mondiale. Dostoevskij è citato, e criticato, da Šalamov (il suo testo è intitolato A proposito di un errore della letteratura, vedi ŠALAMOV 1999: 743-748); Solženicyn lo risparmia, ma menziona Victor Hugo, Balzac, Puškin, Schiller, per arrivare a Maksim Gor’kij e Isaak Babel’. La sua tesi è che proprio nella cultura sovietica questa distorsione arriva al massimo, e per una ragione precisa:

C’è sempre per ogni cosa un’alta teoria che santifica tutto. Letterati tutt’altro che di poco conto hanno precisato che i delinquenti sono nostri alleati nell’edificazione del comunismo. E’ ciò che troviamo formulato nei manuali di politica correzionale sovietica attraverso il lavoro (esistevano, venivano pubblicati), in dissertazioni e articoli scientifici sulla lagerologia, e in modo ancora più concreto nelle istruzioni sulle quali si formavano i capi dei lager. Tutto questo origina dall’Unica Vera dottrina che spiega tutte le modulazioni della vita umana solo e unicamente con la lotta di classe.
Ecco le argomentazioni. I delinquenti di professione non possono in alcun modo essere equiparati agli elementi capitalisti (ossia ingegneri, studenti, agronomi e monachelle): i secondi sono tenacemente ostili alla dittatura del proletariato, mentre i primi sono solo (!) politicamente instabili. (L’assassino di professione è solo politicamente instabile!) Il Lumpen non è un proprietario e di conseguenza non può andare d’accordo con gli elementi di classi ostili, ma si accorderà con il proletariato (campa cavallo!). Per questo, secondo la terminologia ufficiale del GULag, vengono chiamati “socialmente vicini”. (Dimmi con chi vai…) Per questo nelle istruzioni si ripeteva continuamente: mostrare fiducia verso i criminali recidivi! (SOLŽENICYN 2001: I, 1232-1233).

Il concetto di popolo è sufficientemente ambiguo, e i criminali di professione, secondo questa lettura, sono percepiti da parte delle autorità sovietiche come alleati naturali nella lotta alla borghesia. Sembrerebbe confermare questa tesi una serie di articoli pubblicati nel 1937 sulle “Izvestija” da Lev Šejnin, capo della sezione investigativa della procura di stato dell’URSS, e in questa qualità attore di primo piano nella preparazione dei grandi processi pubblici che inauguravano le purghe staliniane: mentre le purghe infuriavano, Šejnin raccontava del movimento dei criminali di professione che, sempre più spesso, si presentavano per costituirsi, trovando la loro occupazione abituale priva di senso nella nuova situazione sociale, e chiedevano di partecipare alla costruzione socialista. Questi articoli saranno poi inclusi nelle diverse edizioni dei Taccuini di un investigatore, l’inizio della carriera letteraria di Šejnin e una pietra miliare nella storia del poliziesco sovietico (vedi ŠEJNIN 2003: 102-119).

Non è un caso, però, che questi articoli arrivino nel 1937, un anno dopo l’annuncio da parte di Stalin che il socialismo era stato raggiunto, mentre gran parte dei racconti dei Taccuinisono ambientati in epoca precedente, soprattutto negli anni della NEP: la solidarietà di classe poteva esistere solo finché esisteva una borghesia. L’ambiguità dell’atteggiamento del governo sovietico verso i criminali è ben incarnata dall’esempio di uno dei primi famosi interpreti del folklore di malavita, Leonid Utesov, uno dei pionieri del jazz in Unione Sovietica, che all’inizio degli anni Trenta incise con la sua orchestra versioni fortunate di diversi dei classici del genere. (Utesov, tra parentesi, era un artista dal talento multiforme, arrivato al jazz dall’operetta e dal teatro di varietà; nella sua poliedrica attività rientrava anche la lettura scenica di testi letterari, e il suo repertorio, innovativo anche in questo campo, comprendeva tra l’altro i racconti di Isaak Babel’, il codificatore, se non l’inventore, del mito della mala di Odessa). Nella requisitoria di Solženicyn, Utesov non è altro che un interprete della posizione del regime: “Leonid Utësov ululò con voce nasale dal palconscenico – e gli fece eco entusiasta il pubblico” (SOLŽENICYN 2001: I 1223); ma vanno ricordate le reazioni della stampa quando il cantante interpretò per la prima volta questo repertorio dal palcoscenico, in uno spettacolo del Teatro della Satira di Leningrado:

Va notata in particolare l’esecuzione da parte di Utesov di Dalla galera di Odessa. Questa canzone può essere definita una sorta di manifesto del romanticismo teppista e criminale. È dunque tanto più da apprezzare la sua interpretazione ironica, ricca di talento, che compromette questo “lamento dell’anima del bandito” (citato in KRAVČINSKIJ 2015: 136).

Se Utesov è interprete della posizione ufficiale, dunque, lo è in quanto la sua interpretazione rientra nel campo dell’antifrasi; l’ironia, però, può essere a doppio taglio, come dimostrano altri episodi della carriera dello stesso interprete:

When jazz was virtually banned after World War II, Utesov boldly mounted an entire evening of big band swing music, which he introduced by admonishing his audience about the perils of jazz and advising them on the importance of being able to recognize the dreadful music which threatened the very fabric of Soviet life (STARR 1994: 151).

Allo stesso modo, l’ironia riscontrata dal recensore nelle sue interpretazioni delle canzoni di mala potrebbe non essere stata altro che uno stratagemma per rendere ammissibili dei testi poco graditi al potere – poco graditi, dunque. Le stesse canzoni che Utesov incise sono nella colonna sonora del primo film sonoro sovietico, Passaporto per la vita (Putevka v žizn’, 1931) di Nikolaj Ekk: un film che racconta la rieducazione di delinquenti minorenni in una comune di lavoro (uno schema analogo a quello dei romanzi di Anton Makarenko), nonostante i tentativi di ostacolare la procedura da parte di criminali di professione, dipinti qui senza la minima simpatia. Di nuovo, il folklore di malavita ha la funzione di raffigurare un ambiente caratterizzato in modo decisamente negativo; non si può escludere però che il successo del film dipenda almeno in parte proprio dal fascino di queste canzoni, e nemmeno che proprio lo sfruttamento di questo fascino rientrasse nelle intenzioni degli autori.

Nella šanson contemporanea, la tentazione di presentarsi come vittime del regime sovietico di tanto in tanto affiora; notevole l’esempio di un’altra canzone deiBelomorkanal di Spartak Arutjunjan, in cui il narratore si presenta come figlio di una famiglia contadina vittima della collettivizzazione:

Papà l’hanno crocifisso come un Cristo
Sulla facciata della sua fattoria,
Sparava dal campanile della chiesa
Una mitragliatrice sulle donne e i bambini.

Tra gli entusiasmi ubriachi dei commissari
Hanno fatto a pezzi la mia sorellina,
Si sono presi tutto il grano dal granaio,
Noi spigolavamo nel campo.9

Segue la descrizione di un’infanzia nel GULag:

Nelle condizioni severe di Turuchan
Crescemmo lavorando secondo le norme.
In giubbe di fredda tela da sacco
Scricchiolavano i nostri muscoli di bambini.

I cani lupo ci straziavano per una birichinata,
Le guardie ci prendevano a calci per qualunque cosa,
Sui freddi pancacci pregavamo
Che ci lasciassero presto andare a casa.10

E le considerazioni finali, espressione di un’amara filosofia da carcerato, coniugano abilmente linguaggio politico e gergo criminale:

È scesa la notte su Magadan,
Domani il lager deve alzarsi presto.
Dove, in un paese cinto di filo spinato
Si può respirare la libertà?

Al potere sbirri e comunisti
Cantano la gloria di quell’infame di Lenin,
Alla Lubjanka, all’interrogatorio
Quelli della čeka, ubriachi, per sbaglio picchiano a morte qualcuno…11

Che il potere sovietico sia trattato da amico o da nemico, insomma, chiave tematica di queste canzoni è la solidarietà tra criminale e “popolo” contrapposti insieme ad un potere, che sia il potere dello stato o quello della borghesia. La tormentata storia della Russia nel Novecento, con la separazione radicale tra stato e “popolo” esperita nel GULag, contribuisce ad annullare il panico che, nel pubblico italiano, è invece suscitato da quella che, a Napoli, appare come una solidarietà tra “popolo” e camorra. Commenta lo scrittore Luigi Romolo Carrino:

Ci sono zone di Napoli che al solo sentire la parola neomelodici si chiudono a riccio, e la gente scappa a gambe levate. Neomelodici, e il Vomero scappa. Chiaia scappa. Posillipo scappa. Perché la camorra in questi quartieri non opera (falso!) e quindi non possono esserci nemmeno cantanti neomelodici (l’accoppiata neomelodici-camorra è il luogo comune) che cantano di pentiti e di libertà (falso anche questo) (CARRINO 2012).

Con un’elaborazione più raffinata, il musicologo Goffredo Plastino, in un libro che potrebbe essere letto come una riabilitazione dei neomelodici, o più correttamente una decostruzione del discorso del “panico morale”, giunge a conclusioni molto vicine:

Questa radicalizzazione della ripugnanza è un’elaborazione ideologica che tende a nascondere il vero problema posto dall’esistenza dei neomelodici: attraverso il loro lavoro culturale il “popolo” è passato da oggetto a soggetto della rappresentazione musicale elaborata all’interno della canzone napoletana, rispetto alla quale temi e modalità espressive sono scelti autonomamente. È un messaggio che torna indietro ma che non si riesce a decodificare, un vero e proprio corto circuito, uno shock che destabilizza alcune strutture retoriche e musicali sulle quali si fonda l’edificio del canone musicale napoletano, e contro il quale si reagisce marginalizzando e criminalizzando la scena musicale nel suo complesso (PLASTINO 2014).

La “radicalizzazione della ripugnanza”, e dunque il tentativo di cancellare queste canzoni, può trovare un’analogia nel processo per cui si giunse alla chiusura del mercato delle biografie dei condannati – che spesso avevano forma di ballate – fiorente in tutta Europa agli inizi dell’età moderna; una chiusura che, nella descrizione di Michel Foucault, accompagna il passaggio dal sistema punitivo a quello disciplinare. Questi testi avevano una funzione precisa, ma comportavano delle controindicazioni:

Se questi racconti possono venire stampati e messi in circolazione, è perché ci si attende da essi effetti di controllo ideologico, favole veridiche della piccola storia. Ma se essi vengono recepiti con tanta attenzione, se fanno parte delle letture di base per le classi popolari, è perché queste vi trovano non solo ricordi, ma punti d’appoggio; l’interesse di “curiosità” è anche interesse politico (FOUCAULT 1976: 73).

Nel nuovo sistema, canti e biografie dei condannati saranno sostituiti dalla coppia giornale-romanzo poliziesco:

La letteratura poliziesca traspone a un’altra classe sociale quello splendore da cui il criminale era stato circondato. Saranno i giornali, a riprendere nella loro cronaca quotidiana il grigiore senza epopea dei delitti e delle punizioni. La spartizione è fatta, che il popolo si spogli dell’antico orgoglio dei suoi crimini; i grandi assassinî sono divenuti gioco silenzioso dei saggi (FOUCAULT 1976: 75).

Nelle canzoni che abbiamo preso in considerazione, il “popolo” pare mantenere “l’antico orgoglio”. Ipotizzare un’analogia tra i testi citati da Foucault e la šanson degli anni 2000, insomma, significa ipotizzare il permanere di un sistema punitivo (da questo punto di vista, secondo la logica foucaultiana, ancien régime) nella Russia attuale;12 e dunque, per quanto può essere istruttivo il parallelo che abbiamo tentato di istituire, forse anche in una parte della società dell’Italia meridionale.

Per quanto riguarda direttamente Foucault, la sua valutazione del GULag, piuttosto episodica, mostra una certa oscillazione tra un’interpretazione “punitiva” ed una “disciplinare”, ma con una tendenza a considerare l’esperienza sovietica sostanzialmente analoga a quella occidentale (vedi PLAMPER 2002); Evgenij Dobrenko, che ha trattato ampiamente la storia sovietica in termini foucaultiani – in un saggio significativamente intitolato Sorvegliare – punire – sorvegliare – sembra implicare una sorta di involuzione:

…al posto della “rieducazione” dell’inizio degli anni Trenta, nella seconda metà del decennio arriva la fucilazione (a livello del discorso sociale questo passaggio è stato fissato all’epoca dei processi-spettacolo: non “riforgiare”, ma “fucilare” come cani rabbiosi). Questo si spiega tra l’altro col fatto che l’entrata del paese nel socialismo proclamata da Stalin nel 1936 significava automaticamente che era stata eliminata la base sociale della criminalità, e dunque il criminale si trasformava in malfattore infernale (DOBRENKO 2001: 668).

Una volta di più: il successo della šanson, e tutto il dibattito sul folklore criminale, potrebbe significare che il ritorno alla logica punitiva implica un ritorno al rischio di solidarietà tra pubblico e criminale che questa logica porta con sé – il “malfattore infernale” tende a farsi, nuovamente, Social Bandit.

Potrebbe, in fondo, essere letta come una perfetta esposizione della logica punitiva una delle canzoni neomelodiche più dibattute ed esecrate, la famigerata O capoclan di Nello Liberti, accompagnata da un video che mette in scena con sinistro realismo un’esecuzione di camorra:13

E uagliun stann for a lo ‘spettà,
a trament sann chell c’anna fa’,
si è arrivat a letter ro cap,
a cundann pe chi ha sbagliat.

Pur si iss è accussì,
è cap e sap campà;
pecché o rispett ce rà,
e nuie l’amm a rispettà!

O capoclan è n’omm serio,
che è cattivo nun è o ver,
ma co cor nun se po arraggiunà!

O capoclan no nun sbaglia,
pecché pa famiglia,
iss è o cap e adda sape’ cumannà!

La punizione, iscritta dalle pallottole nel corpo del condannato, è insieme prerogativa e obbligo del potere, elemento fondativo del bene comune. Il potere, in questa società separata, ha però cambiato sede: lo stato non c’è più.

Numerosi elementi, insomma, potrebbero portare a ritenere che la società che fa da brodo di coltura per queste canzoni – quelle russe come quelle napoletane – viva in una fase punitiva; una fase che, ancora nella logica foucaultiana, sarebbe da considerarsi sostanzialmente premoderna. O forse sarebbe il caso di riflettere se – come sembra indicare il pastiche musicale di cui si diceva in apertura – non si tratti piuttosto di una fase postmoderna, che la modernità disciplinare non sia che una parentesi che si sta chiudendo, e che trattare il fenomeno come un arcaismo non sia un nostro stratagemma consolatorio?

Bibliografia

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Note

↑ 1 Il Belomorkanal, canale mar Baltico – mar Bianco, che dà il nome al gruppo, è la prima grande opera realizzata, all’inizio degli anni Trenta, con sola mano d’opera detenuta, dal GULag OGPU, oggetto, all’epoca, di un importante sforzo propagandistico (le sigarette celebrative di marca Belomorkanal sono in vendita ancora oggi) culminato nel tristemente noto volume collettivo di celebrazione dell’impresa e dell’effetto rieducativo del lavoro forzato, curato da Maksim Gor’kij e scritto dal fior fiore della letteratura sovietica – tra gli altri, Aleksej Tolstoj, Vsevolod Ivanov, Viktor Školvskij.

↑ 2 Петербургские “Кресты” среди ночей туманных белых. / Сколько узников прошли мимо львов окаменелых. / От непокорных каторжан, звонящих вволю кандалами, / До обездоленных цыган, поющих песни вечерами. // В холодной камере “Крестов” душа разлукою томится, / Давно погасли фонари, спит ночь сама, а мне не спится. / Твои глаза из темноты жгут душу грустью и тоскою, / Обречены с тобою мы вразлуке быть самой судьбою. Dall’album Noč’ pered rasstrelom, 1999; reperibile all’indirizzo Disponibile online; le traduzioni dal russo sono mie dove non altrimenti specificato.

↑ 3 Disponibile online; la responsabilità della grafia del napoletano è unicamente degli autori delle didascalie per i video di youtube.

↑ 4 Там под окном зэка проталина тонка, / И всё ж ты недолга, моя весна. / Я радуюсь, что здесь хоть это-то, но есть, / Как мне твоя любовь нужна. // Владимирский централ, ветер северный, / Этапом из Твери, зла немерено, / Лежит на сердце тяжкий груз. Dall’album Madam, 1998; Disponibile onlineo.

↑ 5 Понтов не надо! Пока не двинул, в парашу задом! / Два дня в конторе, не значит ходка! / Смени ты, фраер, свою походку!!! Dall’albumVor, 1998; Disponibile online.

↑ 6 «“Katja Ogonëk” è un progetto della ditta ‘Sojuz Production’ e un suo ‘prodotto’ a cominciare dal progetto musicale per finire con il nome d’arte, le canzoni, il logotipo”. Disponibile online.

↑ 7 Disponibile online.

↑ 8 Da vedere, a questo proposito, la puntata del “Ring musicale di NTV” del 27/11/2010 -Disponibile online– in cui i già citati Lesopoval sfidavano al televoto le Vorovajki (“Ladrone”); l’emittente presentava la serata come una sfida tra “gli idoli dei tassisti russi” e “le sex-symbol dei camionisti”.

↑ 9 Батю как Христа они распяли / На фасаде собственных ворот, / Как стрелял с церковной колокольни / По детями бабам пулемёт. // Под пьяные восторги комиссара / Сестрёнку зарубили на куски, / Весь хлебушек забрали из амбара - / Мы собирали в поле колоски.

↑ 10 В условиях суровых Турухана, /Выполняя нормы мы росли. / В робах из холодной мешковины / Гремели наши детские маслы // Терзали за шалость нас овчарки, / Сапогами бил за всё конвой, / На нарах на холодных мы молились, / Чтоб отпустили скоро нас домой.

↑ 11 Опустилась ночь над Магаданом, / Завтра рано лагерю вставать, / Где в стране, колючкой обнесенной /Свободой человек может дышать... // У власти мусора да коммунисты / Славу падлы - Ленину поют / Кого - то на Лубянке на допросах / Чекисты спьяну досмерти забьют. Dall’album Kresty, 2001; Disponibile online.

↑ 12 Chi scrive si è già imbattuto in analogie notevoli tra le biografie criminali settecentesche e testi della letteratura popolare diffusi nella Russia contemporanea – vedi COLOMBO 2017.

↑ 13 Disponibile online.

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN 1824-7482