Pensare l’Antropocene: esplorazioni umanistiche del cambiamento globale
Abstract
Il volume raccoglie i contributi presentati in occasione del Seminario Dipartimentale "Pensare l'Antropocene" diretto da Elisa Bricco che si è svolto tra il 2022 e il 2023 presso il Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova, al quale hanno partecipato studiose e studiosi provenienti dall’Italia e dall’estero che lavorano nel campo della linguistica, della letteratura, della sociologia e della pratica artistica e che nei lavori qui raccolti affrontano diverse tematiche legate all’Antropocene secondo punti di vista multidisciplinari e a nostro modo di vedere fortemente complementari.
Questo numero di Publif@rum raccoglie dieci contributi presentati nel corso del seminario dipartimentale diretto dalla prof.ssa Elisa Bricco che si è svolto tra il 2022 e il 2023 presso il Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova. In un’ottica inter e transdisciplinare, il ciclo di incontri ha inteso interrogare diverse pratiche linguistiche, artistiche e letterarie per indagare come le lingue, la letteratura e l’arte stiano rispondendo alle sollecitazioni del mondo contemporaneo proponendo nuove maniere per affrontarne la complessità e pensare a nuove forme di vita sostenibili nell’epoca dell’Antropocene. Il seminario è stato un’occasione per dare voce sia a ricercatrici e ricercatori che hanno sviluppato riflessioni sull’epoca dell’Antropocene nell’ambito delle scienze umanistiche e delle culture straniere, sia alle riflessioni specifiche da parte di ricercatrici e ricercatori del Dipartimento che da tempo coltivano l’interesse per l’impatto che le problematiche ecologiche hanno sulla linguistica, la letteratura e l’arte. Infatti, di fronte alla crescente consapevolezza riguardo a quanto gli esseri umani e le loro attività condizionino e provochino modifiche territoriali, strutturali e climatiche mai avvenute e viste prima, l'Accademia non può non interrogarsi e soprattutto non sensibilizzare il pubblico, di addetti ai lavori come no, in merito alle conseguenze dell’azione dell’uomo sul nostro pianeta.
Reso popolare nel 2000 dal chimico atmosferico olandese Paul J. Crutzen, il termine Antropocene, ricco di stimoli epistemologici, è ormai molto diffuso. Sebbene sia spesso abusato e di recente anche messo in discussione e sostituito da altri termini – si pensi ad esempio ai concetti di Wasteocene [ARMIERO 2021], Chtulocene [HARAWAY 2016], Capitalocene [MOORE 2016], Plantationocene …1 –, esso aiuta tuttavia a denotare un periodo caratterizzato dal preoccupante aumento delle conseguenze dell’attività umana sull’ecosistema, e consente di mettere in rilievo e anche di denunciare il ruolo di primo piano che essa ha giocato e continua a giocare nella trasformazione del pianeta. Riflettere sulla nozione di Antropocene da un punto di vista umanistico sottolinea quindi l’importanza di porre l’attenzione sull’agire (e sulla responsabilità) degli esseri umani sulla trasformazione delle relazioni con la terra, invitando ciascuno a valutare le scelte fatte in materia di pianificazione territoriale, funzionamento economico e organizzazione industriale o sociale anche in termini di sostenibilità. Pensare l’Antropocene permette inoltre di non dissociare la riflessione sull’evoluzione della terra da quella relativa allo sviluppo culturale e socio-economico, sgretolando così anche i confini tradizionalmente invalicabili tra “scienze della vita e della terra” e “scienze umane e sociali”. Infine, pensare l’Antropocene consente anche e soprattutto di uscire dalla logica “umano/non umano” per assumere quella più inclusiva e ad ampio spettro di “viventi/non viventi” che, in una prospettiva di decostruzione dell’approccio antropocentrico, riconosca invece il principio di interdipendenza tra tutti gli esseri viventi che popolano Gaia2. In tal senso il lavoro performativo portato avanti da Bruno Latour e da Frédérique Aït-Touati descritto nell’intervista alla regista e storica della scienza raccolta in questo numero (“La terre : scène, cartes et narrations”, intervista a cura di Elisa Bricco e Chiara Rolla) è forse tra gli esempi più emblematici di questa rinnovata sensibilità che si traduce in alleanze interdisciplinari (letteratura, antropologia, architettura, geologia, geografia…) dallo straordinario potenziale creativo.
Di fatto, da alcuni decenni una massa critica sempre più consistente e numerosa si fa portavoce di una nuova coscienza ecologica a livello mondiale, una consapevolezza che si pone come obiettivo la lettura e la definizione del contemporaneo attraverso il prisma della complessità e della diversità dei territori e delle disuguaglianze socio-spaziali. La letteratura, le lingue e l’arte sono da sempre abitate dalla necessità di comprendere e raccontare la storia, la vita sociale e politica, i mutamenti del paesaggio e anche gli eventi naturali. Pensare l’Antropocene significa allora per le studiose e gli studiosi spostare l’attenzione verso altre forme di conoscenza e di pratiche letterarie e artistiche, basate sul sensibile e sul pratico, per interrogarle mobilitando anche nuovi “modi” di fare e di essere. Le sfide prospettate dall’Antropocene sono quindi molteplici e l’interesse trasversale da esso suscitato testimonia una propensione della cultura a impegnarsi in nome di una rinnovata “transitività”, manifestando l'intenzione di dare voce e intelligibilità al mondo in cui viviamo.
Pertanto, sulla scia di quanto affermato da Serenella Iovìno in un volume dedicato allo sviluppo delle environmental humanities, i saggi qui raccolti propongono delle letture che diventano veicoli “di un’educazione a vedere le tensioni ecologiche del presente” [Iovìno 2015, Quarta di copertina], per pensare la lingua, la letteratura e l’arte come strategie di sopravvivenza che aiutino a superare le sfide poste dalla crisi ecologica. Provenienti da spazi culturali e geografici diversi, le riflessioni linguistiche e le produzioni letterarie e artistiche oggetto degli studi del presente volume si rivelano in grado di problematizzare il rapporto dell’umano con il pianeta, con la natura, con lo sviluppo tecnologico, divenendo così espressione di un vero e proprio dibattito “politico”. Esse diventano veri e propri incubatori di idee, laboratori di pensiero e spazi di dibattito e di scambi di competenze e conoscenze, in grado di indagare sulle cause e denunciare le conseguenze dei fenomeni di degrado ambientale a cui stiamo assistendo in questo primo quarto del XXI secolo. Esse interrogano e mettono in discussione le costruzioni mentali, gli stereotipi dominanti della società occidentale antropocentrica per invitare a riscrivere il nostro rapporto con la vita animale e vegetale, a rileggere la nostra relazione con il passato e il futuro alla luce di un ideale di “bene comune”.
I dieci contributi raccolti in questo numero affrontano diverse tematiche legate all’Antropocene secondo punti di vista multidisciplinari e complementari, adottando metodologie d’analisi e assunti epistemologici della linguistica, della letteratura, dell’arte, della sociologia.
Tra i saggi che si occupano più specificamente di questioni linguistiche si annoverano quelli di Bagli, Napoli, Santini e Caimotto. Il fil rouge che li lega insieme è l’ispirazione comune proveniente dalla pioneristica disciplina dell’ecolinguistica, arricchita da spunti tratti dall’analisi critica del discorso, dalla linguistica cognitiva e dall’analisi semantico-lessicale di termini chiave che caratterizzano l’Antropocene.
Nello specifico, Marco Bagli esplora la motivazione semantica alla base di una serie di nomi di funghi in inglese, con lo scopo di portare alla luce l’insieme di pratiche e credenze racchiuse nei lessemi che indicano queste specie selvatiche e dunque la complessa rete di relazioni che esistono tra l’umano e ciò che è ‘altro’ rispetto all’umano attraverso il linguaggio. Le categorie semantiche emerse dall’analisi suggeriscono diversi tipi di relazione tra l'uomo e le forme di vita non umane. L’autore mostra che l’analisi della motivazione semantica delle pratiche di denominazione dei funghi selvatici in inglese può rivelare aspetti interessanti dell’atteggiamento dei parlanti inglesi nei confronti dell’ambiente – aspetto che a sua volta contribuisce a una definizione più ampia dell’Antropocene, poiché lo studio dei nomi comuni della fauna selvatica porta alla luce una forma di conoscenza ecologica e un’importante consapevolezza ambientale da essi codificata. La conoscenza culturale racchiusa nell’onomastica esemplifica inoltre i complessi schemi attraverso i quali le lingue definiscono e concettualizzano la fauna selvatica. In ultima analisi, secondo Bagli il recupero e la valorizzazione critica e consapevole di questi processi di concettualizzazione illustra inesplorate forme di relazione tra gli esseri umani e le forme di vita non umane.
Il saggio di Laura Santini offre uno studio corpus-based di stampo lessicografico relativo ad alcuni lessemi in inglese contemporaneo che, originariamente riferiti alla Natura, sono stati oggetto di rimodellamento lessicale, e ne discute aspetti semantici e diacronici, indagando, come dichiarato nel titolo, questioni di transizione, trasmissione e traduzione. Tra i lessemi analizzati, particolare attenzione è dedicata all'evoluzione delle collocazioni e dei composti basati sulla parola di partenza cloud ‘nuvola’ (per esempio da cloud cover in meteorologia all’uso metaforico di espressioni del tipo cloud space in informatica). Attraverso la ricostruzione di simili trafile di mutamento semantico-lessicale, l’autrice esplora le implicazioni socioculturali che accompagnano la creazione e l’uso di nuovi composti o sequenze multi-parola, consapevole che queste nuove formazioni, nate in seno al cambiamento socioeconomico, portano con sé una certa connotazione ideologica. Secondo l’autrice, ricostruire queste ‘storie di parole’ ci permette di accedere a storie e narrazioni, spesso opache, che appartengono a un inquadramento mentale specifico, cioè quello antropocentrico: nella comunicazione contemporanea queste neoformazioni lessicali sono accattivanti, ma in realtà oscure, e coerenti un approccio insostenibile in cui gli esseri umani sono incoraggiati ad appropriarsi e sfruttare legittimamente le risorse naturali del nostro pianeta, credendole illimitate.
Anche il contributo di Maria Napoli pone l’attenzione su lessemi e fenomeni linguistici tipici della comunicazione contemporanea legata a temi ambientali, collocandosi specificamente nell’ambito dell’ecolinguistica, che, a partire da HALLIDAY ([1990] 2001), pone l’attenzione sul possibile contributo che l’analisi del linguaggio può apportare al tema del cambiamento climatico e più in generale alle più grandi sfide del XXI secolo, con l’obiettivo di formulare, in ultima istanza, delle misure correttive ed educative tramite quelli che STIBBE (2021 [2015]) definisce «beneficial discourses» per l’ambiente e la sua tutela. Nello specifico, Napoli propone l’etichetta più specifica di «linguistica climatica» e analizza alcuni tratti caratteristici della comunicazione giornalistica relativa a temi legati all’ambiente, basato sul sito web del quotidiano Corriere della Sera e su alcune risorse lessicografiche. La ricerca mostra che la trattazione del tema del cambiamento climatico è caratterizzata da enfasi, intensificazione e iperbole, dall’uso di un’ampia gamma di metafore, dall’uso di costrutti impersonali, che implicano tipicamente un processo che in linguistica si chiama agent defocusing: in questo caso specifico, un chiaro tentativo di deresponsabilizzazione degli attori coinvolti. Secondo l’autrice, questi schemi comunicativi, che obbediscono chiaramente alle tipiche esigenze giornalistiche di conquista del lettore, contribuiscono ben poco alla messa a punto di quei discorsi «benefici» capaci di avere una valenza educativa e di promuovere una riflessione critica, informata e consapevole sui temi ambientali.
Sempre nell’ambito dell’ecolinguistica si colloca anche il contributo di Cristina Caimotto, che costituisce testimonianza dell’ideazione e dell’organizzazione della mostra Linguaggio, Comunicazione e Percezione della Crisi Climatica, nata nell’ambito di un percorso di formazione aperto alla cittadinanza sul tema dei cambiamenti climatici sorto all’Università di Torino nel 2019 e inaugurata al Festival della Scienza di Genova nel 2021. Lo scopo dell’autrice è conservare una testimonianza del lavoro svolto per preparare uno dei pannelli che compongono la mostra, ossia «Linguaggio, Metafore e Crescitismo», e restituire alcuni dei testi che sono stati semplificati e tradotti per la mostra in lingua originale e in versione integrale. Come si evince dal saggio, una delle caratteristiche più innovative del progetto è la scelta di indagare allo stesso tempo lo studio della crisi climatica e l’analisi critica delle sue rappresentazioni e delle strategie discorsive attraverso cui è comunicata, facendo ricorso all’apparato teorico ed empirico dell’ecolinguistica e più in generale dell’analisi critica del discorso.
Passando ai contributi di taglio letterario ed artistico troviamo il saggio di Christina Schaefer, che esamina i modi in cui il concetto di Antropocene è riconoscibile nella narrativa italiana recente e in particolare nel Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari (2010) di Giuseppe Genna. In questo testo, la specie estinta del cammello polare si rivolge agli uomini come a uno specchio, ricordando loro la caducità del genere umano. L’autrice sottolinea come Genna da una parte combina allusioni al deep time paleogeologico o al deep future (in cui tutto si sarà “disciolto”) con riferimenti ad alcuni grandi autori moderni come Giacomo Leopardi, T.S. Eliot e Samuel Beckett, e dall’altro presenta la storia (auto)finzionale di uno scrittore che si rende conto di dover diventare un nuovo tipo di poeta vate. In ultima analisi, il Discorso trasforma una diagnosi pessimistica della cultura e della civiltà umana in un appello ottimistico per un nuovo tipo di impegno letterario.
Carmen Concilio offre una ricca e ispirata panoramica di narrazioni sugli alberi che, accomunate in una sorta di “genealogia letteraria-dendrosofica”, permettono di riconoscere l’esistenza in divenire degli alberi, dovuta alla loro adattabilità, resilienza, e capacità rigenerativa, promuovendo un affinamento dei sensi e nuove modalità di percezione e cognizione. Il saggio si apre con un appello alla necessità di pensare in termini di plant-thinking [MARDER 2013]. Ciò va inteso nel senso di dare rilievo agli esseri vegetali, avendo cura di evitare la loro descrizione oggettiva e, quindi, di preservare la loro alterità: un approccio a-gerarchico e a-specista che combatte il pregiudizio secondo cui “vegetale/vegetare” significhi privo di vita/vitalità. Secondo l’autrice, il fatto che le storie di alberi (che sono alberi, o diventano alberi) vengano raccolte e raccontate implica un co-protagonismo umano/arboreo non del tutto nuovo nella storia della letteratura ma particolarmente significativo oggi per pensare l’Antropocene, un “monito per la salvaguardia della vita e della biodiversità sulla terra”.
Gaboriaud esplora invece il fototesto, dispositivo editoriale che fa dialogare testo e fotografie e che ha dimostrato di recente una formidabile elasticità. Negli ultimi decenni, infatti, anche in risposta a nuove problematiche sociali e ambientali, questo formato si è aperto anche a questioni legate all’ecologia e all’Antropocene. Il contributo esamina le questioni estetiche alla base del proficuo incontro tra fototesto e Antropocene e i temi privilegiati dagli autori dei fototesti contemporanei che riflettono sui legami tra l'uomo e il suo ambiente. Ne emergono un approccio “viatique”, che si rifà al formato tradizionale del diario di viaggio per esplorare, attraverso un dialogo tra testo e fotografia, le traiettorie dell'uomo in uno spazio dato; un approccio territoriale, più stanziale, che mira a esplorare i legami tra l’individuo e il territorio con cui interagisce; e, un approccio politico, che espone le conseguenze dell’uso e abuso umano del territorio e le responsabilità politiche che ne sono alla base.
Il dialogo tra Diana Lelonek e Jakub Gawkowski amplia l’orizzonte della discussione, esplorando la complessa relazione tra pratica artistica, discorso ambientale e memoria personale attraverso il vissuto esperienziale dell’artista visiva polacca Diana Lelonek, che si occupa di paesaggi post-industriali sviluppatisi anche in seguito a processi di estrazione. In questa interessante conversazione con il curatore delle sue mostre Jakub Gawkowski, Lelonek riflette sulla sua educazione a Dąbrowa Górnicza, nel bacino di Dąbrowa, rivelandone il profondo impatto sulla sua sensibilità e sulla scelta della sua ricerca tematica. Sottolineando l'interconnessione tra entità umane e non umane, Lelonek approfondisce il suo coinvolgimento riguardo ai temi dell’Antropocene e la ridefinizione della natura in un contesto post-industriale ove processi di trasformazione del paesaggio sono ubiqui e cruciali. Il dialogo consente di esaminare lo sviluppo della pratica di Lelonek, la sua celebrazione della resilienza della flora ruderale e la negoziazione delle dualità, ponendo interrogativi critici sulle narrazioni populiste e nostalgiche sull’ambiente naturale ed evidenziando la complessità delle molteplici relazioni uomo-natura.
Infine, il contributo di Adam Ardvisson propone una riflessione di ampio respiro (sociologico, storico, antropologico) che parte dal presupposto che l’Antropocene implichi un cambiamento fondamentale di paradigma: non possiamo più pensare a noi stessi come ad attori relativamente insignificanti che abitano un ambiente naturale dotato di risorse infinite e che rimane in gran parte immutabile; dobbiamo invece renderci conto che la “natura” è almeno in parte una nostra costruzione e che abbiamo urgentemente bisogno di una nuova politica per l’Antropocene, capace di problematizzare la riproduzione delle nostre condizioni di esistenza e ripensare una serie di assunti fondamentali. Uno di questi presupposti è l'idea che l'umanità e la società umana siano ontologicamente separate dall'ambiente o, come si diceva un tempo, dalla “natura”; un altro presupposto è che la creazione continua di risorse a basso costo (cfr. il concetto, approfondito nel saggio, di “cheap nature”) non è più possibile. Secondo l’autore, è invece fondamentale maturare la consapevolezza che tutto è interconnesso e interagisce, spesso in modi imprevedibili. Questa intuizione è alla base di un altro fondamentale concetto talvolta utilizzato per riflettere sulla nostra condizione: il Chthulucene, tramite il quale si focalizza l’attenzione sulle connessioni nascoste e invisibili che, a lungo oscurate dal pensiero unidimensionale della modernità, si manifestano ora come minacce e possibilità. Il concetto si basa sul greco χθών, che significa terra e in particolare “mondo sotterraneo”, ciò che accade sotto la superficie. Secondo Ardvisson il futuro del Chthulucene può essere nuovo, sorprendente e inaspettato, ma è anche fondamentalmente inconoscibile e, come tale, essenzialmente insicuro.
Bibliographie
M. ARMIERO, Wastocene: stories from the global dump, Cambridge, Cambridge University Press, 2021 [L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Einaudi, 2021]
M. HALLIDAY, «New ways of meaning: the challenge to applied linguistics», in A. FILL, P.
MUHLHAUSLER (eds.), The ecolinguistics reader: Language, ecology, and environment. Continuum, London 2001 [1990], pp. 175-202.
D. HARAWAY, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham, Duke University Press, 2016
S. IOVÌNO, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Milano, Edizioni Ambiente, [2006], 2015
B. LATOUR , Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, Paris, La Découverte, 2015
M. MARDER, Plant Thinking. A Philosophy of Vegetal Life, Columbia University Press, New York, 2013.
J. W. MOORE, Anthropocene or Capitalocene. Nature, History and the crisis of Capitalism, Oakland, PM Press, 2016
A. STIBBE, Ecolinguistics: Language, Ecology and the Stories We Live by, second edition, Routledge, London/New York 2021 [2015].
Note
↑ 1 https://read.dukeupress.edu/environmental-humanities/article/6/1/159/8110/Anthropocene-Capitalocene-Plantationocene
↑ 2 Sul concetto di Gaia si vedano le teorie di James Lovelock, riprese dalle riflessioni di Bruno Latour [2015].